Alberto Somekh
Rivincita e differenza
Nel 1991 il Dott. Gilles Kepel, docente all’ Institut d’etudes politiques di Parigi, pubblicava il suo libro intitolato “La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei, musulmani alla riconquista del mondo” (Rizzoli). In questo importante saggio l’A. identificava in quattro eventi della seconda metà degli anni ’70 (l’elezione del battista Jimmy Carter alla Casa Bianca, di Menachem Begin a primo ministro d’Israele; di Karol Wojtyla al soglio pontificio e l’instaurazione della Repubblica Islamica di Khomeini in Iran) il simbolo di un movimento che era destinato ad affermarsi nell’ultimo scorcio del secolo in tutte tre le religioni abramitiche: quel movimento per cui l’Occidente avrebbe adoperato l’etichetta di fondamentalismo o integralismo.
“La loro comune rilevanza –scriveva- si trova nel simultaneo attacco alla “modernità”, non tanto perché basata su un’etica laica, giudicata dalle religioni più inesistente che insufficiente, quanto perché incapace, nella crisi dello Stato assistenziale, avvenuta negli anni Settanta, di rispondere alla nuova miseria e alla nuova angoscia del presente. La modernità è quindi l’attuale assenza di risposte della società secolare, laica, figlia dell’Illuminismo, dei miti della scienza e del progresso che hanno generato un mondo senza Dio: per reazione, è nei Testi Sacri, Bibbia o Corano, che andranno ritrovate le chiavi di una diversa contemporaneità. In varie forme, e procedendo sulla strada dell’auto-esclusione e della separazione tutti I movimenti di ri-islamizzazione, ri-giudaizzazione e ri-cristianizzazione pretendono la necessità di altri modi di vita, secondo i quali la solidarietà comunitaria si allea al recupero dell’esperienza religiosa personale”.
Parafrasando il Talmud, diremo che il Prof. Kepel “fu profeta, senza sapere cosa stava profetizzando”. Dieci anni dopo, gli albori del nuovo secolo furono “salutati” dal terribile evento dell’11 Settembre, con tutto ciò che seguì, le guerre in Afghanistan e in Iraq con la “detronizzazione” di Saddam Hussein. Tutto ciò dovette segnare profondamente la coscienza dell’umanità ed imprimere una svolta decisiva nella riflessione su queste tematiche. In geopolitica si definisce oggi “scontro tra civiltà” l’attuale situazione internazionale, per cui si imputa proprio alle differenze religiose e culturali la responsabilità dei conflitti che insanguinano il pianeta. Ma forse è ancora possibile evitare la deriva di questa guerra totale globale.
Voglio qui segnalare il recentissimo saggio “La Dignità della Differenza. Come evitare lo scontro delle civiltà” (Garzanti, 2004), opera del Gran Rabbino d’Inghilterra Jonathan Sacks, che è “una rigorosa analisi e una profonda riflessione sull’etica della globalizzazione. L’obiettivo di J. Sacks è quello di tracciare la strada verso una diversa coesistenza. Per farlo non è sufficiente trovare dei valori comuni a tutti gli esseri umani: è necessario anche imparare ad accettare le differenze. Il pluralismo e la tolleranza non bastano più: compito indispensabile, soprattutto per le culture monoteiste, è capire come l’unità del Creatore si rifletta nella diversità del creato. Questo atteggiamento può aiutarci anche ad affrontare le altre sfide poste dalla globalizzazione: le disuguaglianze economiche, la crisi ambientale, l’impatto delle nuove tecnologie dell’informazione. Solo così potremo immaginare un mondo in cui non sia più necessario morire per la propria fede”.
Dialogo
Questo vocabolo (dal greco: διάλογος) non ha un corrispettivo ebraico classico: in ebraico moderno lo si traduce du-siach. I “Dialoghi” sono le opere classiche di Platone, nelle quali si dibattono, attraverso conversazioni fra due o più persone, svariati temi. Nel Talmud esiste la machlòqet, discussione, ma con finalità apparentemente diversa da quella del dialogo platonico occidentale.
La machlòqet presuppone l’esistenza di una Verità assoluta rivelata, mentre il dialogo platonico no. Se è vero che la discussione rabbinica implica una buona dose di flessibilità nel legittimare opinioni differenti, soprattutto nel campo del pensiero teologico al di fuori della halakhah, è pur vero che dal dibattito emerge l’esistenza di un consenso su determinati principi basilari, nonché una ben precisa gerarchia di valori e prospettive [1].
La machlòqet mira a chiarire per lo più aspetti concreti e pratici dell’applicazione della Verità, mentre il dialogo platonico concerne per lo più temi astratti.
Mentre il dialogo platonico ha luogo perlopiù al termine di un banchetto (si pensi al Simposio), simbolo di benessere ed opulenza, la machlòqet avviene al di fuori di un simile contesto: come dice il Profeta: “In quei giorni getterò la fame nel paese, ma non sarà fame di pane né sete d’acqua, ma voglia di ascoltare la Parola dell’Eterno” (Amos 8,1).
La machlòqet punta al superamento di sé attraverso il reperimento di un accordo finale. Come dice il versetto: “tutte le sue vie sono pace” (Prov. 3,17). Nel dialogo platonico questo aspetto è secondario: il dialogo è per lo più fine a se stesso, misura di intrattenimento per ospiti.
Daniel J. Elazar, che peraltro confrontava fra loro il pensiero politico ebraico e quello greco, sosteneva che nel primo “la narrativa riguarda soprattutto tempo, processo e cambiamento, mentre il pensiero greco frequentemente verte sull’estetizzazione. Le arti stesse sarebbero state adoperate, a suo dire, per distrarre la gente dalle vere preoccupazioni morali, sperando che la coltivazione dell’estetica li preoccupasse a tal punto che essi dimenticassero l’ingiustizia della società che li circondava” [2] .
Il dialogo platonico è un fatto essenzialmente estetico: parlarsi in quanto tale genera un armonia che è più importante dell’esigenza di risolvere le contraddizioni del discorso. La machlòqet è invece un fatto etico: l’armonia nasce dal pervenire alla Verità, la quale altro non è che il fatto di risolvere le contraddizioni del discorso. “L’intera Torah è chiamata cantica, -scriveva un importante Rabbino dell’Ottocento- la cui bellezza deriva dalla diversità interattiva delle sue voci e strumenti. Colui che si immerge nel mare del Talmud sperimenterà la gioia che deriva da una così ricca varietà”[3] .
Principi base per un dialogo costruttivo fra l’Islam e l’Occidente
1) Percepire la differenza come dignità e non come fonte di discriminazione. Dice il Profeta Isaia: “E spezzeranno le loro spade per farne vomeri e le loro lance per farne falci; un popolo non leverà più la spada contro l’altro, non impareranno più la guerra” (Is. 2,4). Oggi si vive in una società pluralista, in cui non esiste più il monopolio religioso e culturale che ha caratterizzato il Vecchio Continente per secoli. Ciò consente ai seguaci delle religioni minoritarie di guardare se stessi con un legittimo orgoglio, in un contesto che non ha precedenti nella storia europea. Ma nello stesso tempo, la nuova condizione esprime un monito nei confronti delle religioni emergenti. Bisogna evitare che si creino nuovi monopoli, nuove situazioni in cui “una religione levi la spada contro l’altra”, ma tutte si servano dell’unico mezzo di diffusione loro consentito: la persuasione[4] .
2) Sottoscrivere un accordo comune sulla sacralità della vita umana, che è base del rispetto fra gli uomini in quanto creati “ad immagine Divina”. “Il terreno della salute religiosa –scrive un pensatore ebreo contemporaneo- in grado di offrire protezione spirituale contro il fanatismo è una dialettica di carattere strettamente religioso a sua volta, che dedica alla riaffermazione dei valori centrali della vita umana almeno altrettanto impegno di quanto si richiede per l’osservanza dei precetti. Per parafrasare Kant, ‘i valori senza obbedienza sono vuoti, ma l’obbedienza senza valori è cieca’. In altre parole, le persone religiose devono anche diventare personalità moralmente responsabili. La fonte di questi valori morali è la dottrina biblica per cui ogni individuo è creato ad immagine Divina, be-tzelem Elokim. In quanto tali, i valori etici che fluiscono da essa hanno una fonte geocentrica, ma la loro applicazione è antropocentrica, focalizzandosi sull’interazione umana, proteggendone l’umanità e il benessere, sviluppando le più alte e le migliori qualità dell’essere umano [5].
3) Evitare il confronto sugli argomenti teologici, che sono astratti e dividono, e prediligere gli argomenti pratici (carità, problemi sociali e umani), che uniscono e sono importanti. Sul piano dottrinale, infatti, ogni comunità di fede in quanto tale ha la sua individualità che non può essere messa in discussione. Le religioni non sono partiti politici, che possano pensare ad alleanze e coalizioni basate sulla semplice negoziazione dei rispettivi programmi. L’uomo non merita il dialogo finché non è arrivato ad un confronto personale con se stesso da un lato, finché non si rinuncia ad ogni velleità di sopraffazione culturale dall’altro. Ma ciò risulta di fatto impossibile, dal momento che ogni religione percepisce se stessa come depositaria della Verità teologica assoluta. In questo senso, è disonesto non solo derogare ai propri principi, ma anche chiedere all’altro di derogare ai suoi. Soltanto sul piano pratico e sociale, dunque, ma non su quello dottrinale, si può onestamente pensare che le Comunità Religiose sviluppino un’azione comune [6] .
4) Rimandare all’escatologia la “conquista” o la soppressione dell’altro. Anche nel mondo religioso la “differenza” merita di essere percepita come una ricchezza anziché un limite da superare. In passato questo voleva dire essenzialmente eliminare l’altro fisicamente o costringerlo a convertirsi alla nostra verità, l’unica accettabile. Come conciliare, a questo punto, la predicazione di una verità assoluta, compito essenziale di ogni religione, con l’esigenza della convivenza? Le religioni decidono di rimandare al futuro ultimo tutti i conflitti insanabili di ordine teologico. Occorre convincersi, con una buona dose di realismo, che è necessario convivere in un mondo che è sempre più piccolo e non si può eliminarci a vicenda. E’ questo il modo con cui si sono regolate le Comunità Ebraiche e Cristiane nell’Alto Medioevo allorché si resero conto dell’impossibilità storica di sopprimersi reciprocamente[7] . Ma in quel caso una delle due Comunità ha preso l’iniziativa di rinunciare ad ogni proselitismo nei confronti dell’altra. Sarà possibile che anche i futuri rapporti fra Cristianità ed Islam saranno impostati in questo modo? Non credo, francamente, che la risposta possa venire né dagli ambienti laici, estranei al discorso religioso per definizione, né da quelli ecumenici. Dipende esclusivamente dalle rispettive gerarchie, che sole detengono l’autorità di legiferare in materia rituale sui propri seguaci.
5) Cercare di fare da sé e contare sugli altri solo per quanto è strettamente indispensabile. Mi riferisco qui agli aspetti pratici del dialogo vero e proprio. Spesso e volentieri, nell’arco della loro lunga storia noi Ebrei abbiamo dovuto patire migrazioni, spesso forzate da un luogo all’altro, non sempre preannunciate con congruo anticipo, senza avere la possibilità di recare con noi i nostri averi. Ciò ci ha messo nella condizione di doverci rifare una vita daccapo nella nostra nuova residenza. Talvolta eravamo aiutati dai nostri confratelli che già abitavano nel posto, ma non sempre la località aveva una Comunità Ebraica già organizzata. Per farla breve, l’aiuto essenziale veniva da nessun altro che noi stessi, equipaggiati soltanto delle nostre braccia, delle nostre menti e della nostra forza interiore. Lungi dal gravare sulle popolazioni e le istituzioni locali se non per quello che non potevamo obbiettivamente fare da soli, l’azione delle Comunità Ebraiche è stata innegabilmente determinante non solo per le stesse, ma per la crescita morale e materiale dell’intero contesto sociale. Di tale ospitalità portiamo eterna gratitudine.
6) Definire un rappresentante autorevole con cui dialogare. Autorevole significa che non sia contraddetto in pratica da altri rappresentanti, che sia “creduto” dai fedeli e credibile per il resto del mondo. L’assenza non solo di una struttura gerarchica nell’Islam (fatto comune ad altre religioni, che tuttavia comunicano con l’esterno in modo chiaro, come l’Ebraismo stesso), ma di interlocutori validi e preparati a parlare con l’Occidente è ormai sentita a livello planetario. Abbiamo bisogno di portavoce che non si ostinino a negare l’evidenza, come quell’imam che un mese fa, davanti a 400 ragazzi nell’Aula Magna di un noto liceo cittadino, affermava che l’Islam non discrimina le donne. Abbiamo bisogno di interlocutori la cui parola gentile e conciliante, in una serata come questa, possa non venir contraddetta dalla TV siriana che contemporaneamente manda in onda film reiteranti accuse degne del più becero Medioevo, come l’omicidio rituale. Ma per far ciò occorre che il mondo islamico faccia chiarezza a se stesso della relazione fra religione e politica. Non è chiaro a tutt’oggi se nell’Islam la religione domina la politica dei vari paesi, o non sia piuttosto vero il contrario, che la politica domina la religione.
7) All’Occidente si richiede di impostare i rapporti internazionali sul valore della solidarietà. Il Rabbino Sacks dedica un intero capitolo del suo trattato al valore della tzedaqah ebraica, che solo vagamente può essere assimilato alla carità cristiana. La parola tzedaqah significa letteralmente “giustizia”, nel senso di “giustizia equilibratrice” delle ricchezze che ognuno è tenuto a compiere: per la Legge Ebraica è un obbligo impedire, con mezzi costruttivi, il prodursi della povertà; ma finché esisteranno poveri ci viene imposto di sostenerli con denaro e di procurar loro un tetto, vitto e vestiario: “Aprigli largamente la tua mano” (Deut. 15,8). In quanto dovere, la tzedaqah comporta due conseguenze: a) anche il povero è tenuto a dare a chi è più povero di lui; b) il povero la riceve non come un regalo ma come un diritto e l’Ebreo compie una grave trasgressione se si sottrae all’obbligo di dare al povero ciò che gli spetta[8] . Da un lato il libero mercato si è rivelato l’assetto economico più produttivo quanto al benessere e allo sviluppo della società, ma nello stesso tempo esso presenta degli “effetti collaterali” che vanno arginati, come la divisione del mondo in vincenti e “perdenti”. Le popolazioni più sviluppate devono provvedere a contenere il gap rispetto a quelle meno fortunate, fornendo loro non solo aiuti economici, ma anche i mezzi per la diffusione della cultura, che la tecnologia più avanzata mette a disposizione a basso costo in abbondanza. I Maestri d’Israele insegnano che la forma più alta di tzedaqah è dare al povero un lavoro perché sia autosufficiente nel guadagnarsi da vivere. Piuttosto che accogliere profughi a dismisura in Occidente, rompendo gli equilibri della popolazione mondiale, sarebbe meglio aiutare il prossimo a rifarsi una vita nelle sue terre (“D. ha udito la voce del fanciullo –Ismaele- lì dove si trova” Gen. 21,17).
8) Per contro, si deve chiedere anzitutto un impegno al rispetto della legalità e del diritto. In quasi vent’anni di Rabbinato, solo una volta mi è capitato di ricevere la richiesta di visitare un carcerato, per poi scoprire che non apparteneva alla mia religione. Mi risulta invece che ben il 40% dei detenuti alle Vallette di Torino professino la religione musulmana. Nella Bibbia Ebraica, il testo sacro per i Cristiani cui anche i Musulmani guardano come un antesignano del Corano, il Cap. 19 del Levitico contiene certamente la prescrizione: “e amerete lo straniero, perché anche voi foste stranieri in Terra d’Egitto”. Ma pochi versi più in là è anche scritto: “Non rubate, non negate la verità e non mentite l’uno verso il suo prossimo”.
9) Infine, mostrare gratitudine verso chi ci ha aiutati. E’ questo un aspetto dell’etica biblica non adeguatamente messo in luce. Si predica sui meriti di chi aiuta, ma poco o nulla sui doveri incombenti su chi è aiutato. Questi deve dire “grazie”. Secondo un’esegesi creativa del pensiero rabbinico proprio in questo sarebbe consistito il cosiddetto Peccato Originale. Quando l’Eterno rimproverò Adamo di aver mangiato il frutto proibito, il primo uomo rispose: “E’ stata la donna che hai posto al mio fianco a darmelo dall’albero, sì che l’ho mangiato” (Gen. 3,12). Il Midrash commenta: Adamo è stato un ingrato. Invece di ringraziare D. del dono della donna, lo ha accusato di essere la causa del suo male.
Nella preghiera con cui soleva introdurre la liturgia del mattino R. Eliezer di Lizensk, il discepolo del Baal Shem Tov fondatore del Chassidismo, soleva dire:
“Ispiraci affinché ognuno di noi veda le buone qualità dei nostri simili anziché i difetti”.
[1] Cfr. M. Rosensweig, Elu va-Elu Divrè Elokim Hayyim: Halakhic Pluralism and Theories of Controversy, in Tradition 26,3 (1992), p. 4 sgg. E. Berkowitz, Not in Heaven, The Nature and Function of Halakhah, Ktav, spec. cap. 1.
[2] Toward a meaningful world Covenant, in Reconstructionist (17/9/1971), p. 16; cit. in H. Shulman, The Bible and Political Thought: Daniel J. Elazar’s contribution to the Jewish Political tradition, in Judaism 161/41/1 (1992), p. 22.
[3] Epstein, cit. in Rosensweig, art. Cit., p. 21.
[4] Cfr. E. Berkowits, Faith after the Holocaust, Ktav, p. 39.
[5] E. Korn, Tselem Elokim and the Dialectic of Jewish Morality, in Tradition, 31,2 (1997), p. 11-12.
[6] Cfr. A. Somekh, Aspetti del pensiero di Rav Joseph Dov Soloveichik, leader spirituale dell’Ebraismo Ortodosso Americano, Lettura tenuta presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna il 10 Marzo 1992, CISEC Università di Bologna, 1993, p. 11-12. J.D. Soloveichik, Riflessioni sull’Ebraismo, La Giuntina, Firenze, 1998; M. Introvigne-J. Gordon Melton, L’ebraismo moderno, Ellenici, Torino, 2004, spec. p. 100-103; G. Giannini, Filosofia, religione e pensiero ebraico, Guida, Napoli, 2004, p. 163-173.
[7] Cfr. J. Katz, Exclusiveness and Tolerance, Oxford Univ. Press, 1961.
[8] Cfr. A. Barth, I problemi eterni dell’Ebraismo nella nostra generazione, Fondaz. S.Mayer, Milano, 1956, spec. Cap. XXV.