Desidero prima di tutto ringraziare gli organizzatori di questo convegno per l’invito che mi è stato rivolto a partecipare. Ma un ringraziamento particolare va a chi ha avuto l’idea di questa tavola rotonda, che discute il tema del pellegrinaggio; un tema che almeno dal nostro punto di vista è veramente stimolante, come cercherò di dimostrare. Sappiamo che il pellegrinaggio può essere un movimento individuale, o di piccoli gruppi, o di grandi gruppi. Ci si muove verso una meta particolare, che si segnala per una condizione speciale, quella che nel linguaggio di molte religioni è definita come sacralità. Spesso non ci si muove in un momento qualsiasi, ma in tempi anch’essi speciali: feste, ricorrenze, anniversari. Il pellegrinaggio segnala quindi il movimento verso un luogo speciale, spesso in un momento speciale. E’ un modo per classificare tempo e spazio, e per inserire la persona o un gruppo, coinvolti dallo spostamento, in una dimensione spaziale e temporale diversa. La cultura ebraica fin dalle origini bibliche ha praticato e anche imposto con regole precise diverse forme di pellegrinaggio.
L’aspetto più rilevante è quello delle tre grandi feste: Pesach, la Pasqua, Shavuot, la Pentecoste, e Sukkot, la festa dei Tabernacoli. In queste tre occasioni c’era l’obbligo per ogni maschio adulto di salire a Gerusalemme a presentarsi al cospetto della presenza divina, nel Tempio, con un’offerta. La regola è prescritta ripetutamente nella Bibbia: nell’ Esodo ai capitoli 23 (v. 17) e 34 (v;23) e nel libro del Deuteronomio al capitolo 16 (v.16): “tre volte l’anno ogni tuo maschio si farà vedere alla presenza del Signore, e non si mostri a mani vuote”.. In ossequio a questo comando la vita religiosa dell’antico Israele era come scandita da queste tre grandi occasioni annuali che vedevano fiumi di persone affluire a Gerusalemme da ogni parte della terra d’Israele, e anche da luoghi remoti della terra. La regola fu osservata per tutto il tempo che il Santuario fu in funzione. Prima di Gerusalemme i pellegrini si dirigevano nel luogo dove dimorava il tabernacolo, come apprendiamo dalla storia della nascita del profeta Samuele (1 Samuele 1).
Il pellegrinaggio fu il segno dell’esistenza di un centro religioso e anche politico per l’intero popolo ebraico. Quando alla morte del re Salomone si creò una scissione tra il regno di Giuda, che ospitava a Gerusalemme il suo Santuario, e il regno d’Israele, lo scismatico re Geroboamo dovette creare dei Santuari alternativi nel suo territorio (cfr. 1 Re 12) per impedire quella che era di fatto una manifestazione di unità. Nella storia successiva, fino alla distruzione del Santuario da parte dei romani, l’enorme affluenza di genti a Gerusalemme fu spesso causa di tumulti e ribellioni contro autorità locali e occupanti e anche di repressioni tragiche; era l’occasione in cui l’intero popolo si trovava insieme e quindi si misurava nel bene e nel male con le sue contraddizioni. A un pubblico cristiano non c’è poi bisogno di spiegare la fedeltà dei personaggi evangelici alle norme del pellegrinaggio e l’importanza che questi riti ebraici hanno nelle origini della storia cristiana.
Il pellegrinaggio festivo aveva, tra gli altri significati, il senso di una forte affermazione di fede, di riconoscenza per i doni ricevuti (la libertà, la Torà, la terra), di abbandono nelle mani del Signore, che pur chiamando a sé in un unico luogo tutti gli uomini, prometteva la sicurezza del paese dalle minacce dei nemici esterni (Esodo 34,24), che anche in tempi biblici non mancavano.
Già nella Bibbia abbiamo altri esempi di pellegrinaggi, meno intensi ma non meno significativi. Nel seccondo libro dei Re (4:23) quando la donna di Shunem si reca di corsa a incontrare il profeta Eliseo, il marito le chiede: “perché ci stai andando, oggi non è né l’inizio del mese né Sabato”. Segno che mentre nelle grandi feste c’erano i pellegrinaggi di massa verso il Santuario, nelle feste minori gruppi più piccoli andavano a incontrare le grandi personalità. Da qui è derivata la regola dell’ebraismo rabbinico, di andare a trovare durante le feste i Maestri, perché chi lo fa in quel momento è come se si presentasse al cospetto divino. Questo è uno degli esempi, diremmo minori, con i quali l’ebraismo cerca da diciannove secoli di compensare un enorme vuoto. La distruzione del Tempio, fatta dai romani nell’anno 70 non fu per gli ebrei un semplice evento militare. Fu una tragedia totale che cambiò le forme di una religione, privandola, prima di tutto, del suo luogo più sacro. Da quella data l’ebraismo è una religione orfana di spazi sacri; e il pellegrinaggio è più un fatto nostalgico e culturale che una realtà vissuta. Esistono tante forme di pellegrinaggi locali, di visite a luoghi o persone celebri; in questi ultimi anni soprattutto Gerusalemme è tornata al centro dei nostri movimenti, ma questo avviene con la coscienza di non poter compiere pienamente il dettato biblico. Tutto questo non è una novità politica recente, è una dato religioso antico, che viene tra l’altro sottolineato nelle preghiere quotidiane, e ancora di più in quelle festive. Quindi, prima conclusione, l’ebraismo è religione del pellegrinaggio che non c’è più, ma che dovrebbe esserci.
Ma questa è solo la prima di altre contraddizioni. Il pellegrinaggio per eccellenza è come si è detto quello verso il Santuario di Gerusalemme. Ma lo stesso re che lo edificò, Salomone, nel discorso di inaugurazione riportato in 1 Re 8 v. 27 mise in evidenza il paradosso fondamentale di quanto aveva fatto: se tutta la terra è piena della presenza divina, che senso ha costruire una casa al Signore? Lo stesso concetto ritorna nella letteratura profetica; Isaia (cap. 66 v. 1): ” I cieli sono il mio trono, la terra è uno sgabello per i mie piedi, che casa potrete mai costruirmi, e quale mai può essere il luogo del mio riposo?” Eppure il luogo sacro esiste, perché non tutti i luoghi sono uguali, come non tutti i tempi sono uguali. E’ lo stesso comando divino a richiederlo e indicarlo: “ovunque farò ricordare il mio nome verrò da te e ti benedirò” (Esodo 20,24). La prima cosa che viene detta a Mosè che si avvicina al roveto ardente è quella di togliersi le scarpe, in segno di rispetto, perché la terra dove sta è terra sacra (Esodo 3:5). Attenzione, la traduzione qui abbatte la grandezza dell’espressione, perché nel testo originale è admat qodesh , letteralmente “terra del sacro”; così come non esiste una lingua sacra, ma una leshon haqoddesh , una “lingua del sacro”. Il sacro possiede le cose e non viceversa. Lo spirito vola, e il sacro si concentra su un luogo e chiama l’uomo a sé per estrarlo dalla banalità e farlo crescere. La destinazione del pellegrinaggio è il luogo speciale dove l’uomo si mostra al sacro, e il sacro l’osserva per benedirlo; il rapporto è bidirezionale, e foriero di benedizione, ma a condizione che per il pellegrino il percorso che ha fatto sia quello della salita e dell’onesta purificazione. Quindi, seconda conclusione, ebraismo come religione del paradosso del luogo sacro, che può e deve esserci, ma solo a certe condizioni.
E avviamoci ora verso la terza conclusione: quella del senso del confluire insieme in un unico luogo. Il termine comune delle lingue europee che indica il pellegrino e il pellegrinaggio non è quello dell’ebraico, in cui si parla di ‘olèh e di ‘aliya la regel , letteralmente “colui che sale”, e la “salita per l’occasione sacra”. Pellegrino invece, almeno in alcune lingue, finisce con diventare sinonimo di straniero, diverso e sradicato. E’ notevole questa ambivalenza di significati che invece l’ebraico cerca di correggere in un senso unico; ma non perché voglia sfuggire a questa ulteriore contraddizione, ma solo per indirizzarla. Il tema dell’uomo che gira per il mondo -senza meta- è presente dalle origini, ed è la condizione di Caino dopo il suo delitto, la condizione degli esuli che fuggono, da Mosè che ha ucciso l’egiziano al popolo intero in esilio, senza fissa dimora. E’ la condizione che nasce dall’errore e dal dramma e che chiede riparazione, e si pone come una sorta di polo simbolico opposto all’ordinato confluire del pellegrinaggio verso una meta definita. I mistici ebrei insistono su questo tema immaginando che la lacerazione dell’esilio umano si rispecchi in una frattura negli stessi attributi con i quali la maestà divina si manifesta nella storia. Trasferendo sul piano divino la lacerazione il dramma diventa cosmico e richiede ancor più riparazione.
L’opposizione tra le due realtà, quella della dispersione e quella pellegrinaggio verso una meta, è evidente nel confronto tra due immagini bibliche fondamentali: la prima è la storia della torre di Babele. In Genesi 11 un’umanità primordiale cerca la sua sicurezza nella sfida tecnologica della costruzione di un edificio altissimo, e ciò scatena la punizione divina che per impedire questa realizzazione confonde le lingue degli uomini e li disperde per tutta la terra, contro il loro desiderio dichiarato di non volersi disperdere. Fa da contrasto a questo racconto la nota profezia di Isaia 2 che immagina in un giorno lontano il monte della casa divina più alto di tutte le alture, e luogo di afflusso di tutte le nazioni, che vi cercheranno l’insegnamento divino. Da quel luogo si eserciterà la giustizia sulle nazioni, sicchè le armi saranno trasformate in strumenti agricoli e nessun popolo alzerà più la spada su un altro né più impareranno la guerra. Alla luce di questo brano, il misterioso e apparente oscuro zelo vendicativo divino della torre di Babele si chiarisce, in una definizione di quelli che devono essere i valori condivisi dell’umanità che si unisce e si crea un edificio di riferimento. Evidentemente non basta unirsi, anzi unirsi può essere pericoloso. Parlare un’unica lingua ed essere “uniche cose” devarim achadim, come dice il verso 1, in una omologazione forzata, è contro i progetti del Creatore. La torre, secondo alcuni nostri intrpreti, serviva a controllare dall’altro che nessuno scappasse. Non è neppure bello stare tutti insieme in un posto, anzi è meglio andarsene ciascuno per la sua strada e neppure intendersi. E’ la Torà, l’insegnamento spirituale, la parola divina che prorompe, a dare un senso all’unità, alla confluenza delle persone e delle nazioni. E’ l’esercizio della giustizia tra le nazioni, imposto anche con la forza. Il pellegrinaggio ha un senso se è ‘alyà , se è salita. Questa salita attende il popolo d’Israele, per sè e per tutta l’umanità. Con le parole del profeta Isaia nell’ultimo capitolo del suo libro (66), che immagina l’afflusso di tutte le nazioni a Gerusalemme verso la casa del Signore, con le offerte in recipienti puri. “E anche da loro prenderò sacerdoti e Leviti, dice il Signore” (v. 21) “E in ogni mese e in ogni Sabato ogni essere umano si presenterà a inchinarsi davanti a me dice il Signore” (v. 43)
Intervento al convegno internazionale del S. Egidio, Barcellona settembre 2001