I Maestri interpretano la tzara’at come la condizione in cui viene a trovarsi la persona colpita nella propria pelle, nei propri vestiti e nelle pareti della propria casa, e la considerano una punizione per una colpa specifica: avere fatto lashon harà’, l’avere sparlato delle persone: comportamento considerato gravissimo e addirittura punibile con la morte. Ciò fa sorgere l’ovvia domanda: perché parlare male è considerato così grave, tanto da essere paragonato all’omicidio? Perché parlare dovrebbe essere peggiore, diciamo, della violenza fisica?. È spiacevole sentire dire cose malvagie su se stessi, ma possiamo sempre ignorarle e non prestare loro ascolto. Vediamo cosa dice il Midrash:
Scrive il salmista: “Chi è l’uomo che desidera la vita che ama vedere il benessere per molti giorni? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza e le tue labbra dal dire cose ingannevoli. Allontanati dal male e fa’ il bene, cerca la pace e corrile dietro” (Salmi 34: 13-15). Un venditore ambulante girava per i paesi vicini a Zipporì e proclamava: “Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita”. Le persone lo pressavano per acquistare la medicina. Rabbi Yannài era sdraiato nel suo triclinio a studiare la Torà e lo sentì mentre proclamava: “Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita?” Gli disse: “Vieni qui e vendimela”. Il venditore gli rispose: “Non sei tu che hai bisogno di questa medicina e neanche le persone come te”. Ma egli insistette e quello andò da Rabbi Yannài. Il venditore tirò fuori il libro dei Salmi e gli mostrò il verso: “Chi è l’uomo che desidera la vita …” e aggiunse cosa c’è scritto dopo? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza”. Disse Rabbi Yannài: “Per tutta la mia vita ho letto questo verso, ma non avevo capito quanto fosse semplice, finché non è venuto questo venditore ambulante che mi ha detto: “Chi è l’uomo che desidera la vita…”. (Vayikrà Rabbà 16:2)
Rabbi Izchak Aramà si chiede qual è l’insegnamento così nuovo che Rabbi Yannài imparò dal venditore ambulante? Rabbi Yannài pensava che la parte fondamentale di questo passo dei Salmi fossero i due versi nella loro interezza, e cioè che la medicina che dà la vita sarebbe l’intera osservanza della legge (come si deduce dai versi finali). Solo ora Rabbi Yannài ha capito che l’osservanza della norma “Trattieni la lingua dal dire maldicenza” è la garanzia per arrivare all’osservanza automatica delle altre mitzvoth. Solo ora Rabbi Yannài ha capito che è importante non lasciarsi trascinare dall’abitudine di parlare senza controllo ed essere pronti a propagandare una idea che va contro le consuetudine della maggioranza delle persone: insegnare a non sparlare.
Secondo i Maestri, la maldicenza è una colpa grave in quanto uccide tre persone: chi la fa, chi l’ascolta e la persona verso cui è diretta. Non si tratta evidentemente di una morte fisica, anche se in taluni casi una calunnia o una maldicenza possono distruggere una persona in senso sia fisico che morale: le parole sono pietre.
Tuttavia, questa interpretazione della zara’at non è l’unica possibile. Vi sono alcuni episodi che sembrano suggerire che la tzara’at colpisca coloro che, in un modo o nell’altro, assumono atteggiamenti arroganti e che vogliono assumere ruoli che spettano ad altri.
Quando si pose il problema della guida del popolo (Numeri 11: 16 – 29), Mosè chiese e ottenne una riforma del potere, e Dio gli affiancò i settanta anziani. Ma questa scelta mandò su tutte le furie la sorella Miriam che, raccogliendo anche la voce della moglie Zipporà sulla totale assenza del fratello nella vita coniugale, mise in discussione la stessa leadership di Mosè. Miriam sosteneva che, mentre Aronne era divenuto gran sacerdote e quindi deteneva già una buona fetta del potere, lei – chiamata “la profetessa” – rimaneva esclusa dalla stanza dei bottoni, mentre erano stati scelti settanta anziani che certamente avevano meno meriti di lei: non era stata proprio lei a salvare Mosè ponendo la cesta nel Nilo? Miriam viene colpita da tzarà’at, che, secondo quanto afferma il Midràsh colpirebbe i maldicenti.
Ci sono altri episodi in cui ci sono persone colpite da tzarà’at: Ghekhazi, servo assistente del Profeta Eliseo (II Re cap. 5 – 7), e il Re ‘Azarià (II Re cap. 15; II Cronache cap. 26: 16 -20). L’analisi dei due episodi sembra suggerire un’altra interpretazione, più vicina al significato letterale del testo: la tzarà’at colpisce tutti coloro che, in un modo o nell’altro, assumono atteggiamenti arroganti e che vogliono assumere ruoli che spettano ad altri. Ghehazi vuole sostituirsi al profeta Eliseo, Azarià vuole svolgere il ruolo del Cohen. Miriam voleva occupare un ruolo che, a quanto pare, non le spettava. Nonostante questo, per il rispetto dovuto a Miriam, per quanto aveva fatto in passato, il popolo d’Israele non si mosse da Chazeròt, dove si trovava in quel momento, fino a che Miriam non fu guarita dalla tzarà’at. Nel tentativo di assumere un ruolo al di fuori dei propri compiti, l’esperienza dimostra che spesso si è indotti anche a fare maldicenza, cosa di cui viene appunto incolpata Miriam.
Una lettera per stare in silenzio פ e una per parlare ף
Controllare la propria lingua comporta un esame continuo e un’analisi delle azioni fatte o non fatte: la bocca, il tramite attraverso cui passano le parole, è impegnata nel parlare e pregare. In ebraico, bocca si dice PE, una delle lettere dell’alfabeto ebraico che ha due forme: una chiusa פ e una aperta ף (che si usa in fine di parola), come per affermare che ci sono situazioni in cui si può e si deve parlare e altre in cui è bene rimanere in silenzio.
Che la parola sia l’elemento che caratterizza l’uomo e lo differenzia dagli altri esseri, è messo in evidenza da Onqelos: nel racconto della creazione, egli traduce l’espressione vayehì haadam lenèfesh chayà (l’uomo divenne un essere vivente) con le parole “essere parlante”. Dopo aver osservato che anche gli animali vengono chiamati nefesh chayà, Rashi aggiunge che ciò che caratterizza l’uomo rispetto agli animali è il fatto che “gli è stata aggiunta la conoscenza e la parola”: l’uso più o meno corretto della parola può portare l’uomo a realizzare se stesso e a raggiungere la missione assegnatagli, oppure a farlo decadere dal ruolo datogli da Dio.
Quanto sia rilevante la parola è dimostrato dall’affermazione che è “la parola dei bambini che sostiene il mondo”. Infatti questi, a differenza dei sapienti, sono liberi dal peccato. Secondo il Talmud (Niddà 30b), il feto apprende tutta la Torà mentre si trova dentro il ventre materno, ma, al momento della nascita, un angelo lo colpisce sulla bocca e gliela fa dimenticare. Prima della nascita il feto non può esprimere i pensieri con le parole, ma al momento della nascita diventa “parlante” e dovrà essere capace di dominare tutta la Torà ed esprimerla con espressioni umanamente comprensibili.
La stessa forma della lettera PE accennerebbe proprio a questo: le sue due forme (quella chiusa פ e quella aperta ף) possono essere paragonate al feto nelle due situazioni: prima della nascita – quando è in posizione fetale e non può parlare – e dopo la nascita, quando apre finalmente la bocca.
Qual è la funzione che ha la parola quando viene pronunciata? Il Talmud afferma che devarim shebalev enam devarim (“le parole che rimangono nel cuore non hanno effetto”, Kiddushin 49b) e questo è almeno uno dei motivi per cui la confessione deve essere fatta enunciando le proprie colpe con la bocca. La stessa regola si applica, ad esempio, a Pesach, nell’annullamento delle sostanze lievitate (hametz), che si fa mediante una formula da recitare prima di Pasqua, oppure alla norma che stabilisce che il verbo zakhor, “ricorda”, va messo in pratica leggendo il passo biblico che inizia con le parole “ricorda cosa ti fece Amalek” e non basta un ricordo fatto a mente.
Ma se c’è un tempo per parlare, c’è anche un tempo per tacere: vi sono momenti in cui il silenzio è da privilegiare alla parola. Nei tempi del Talk Show e dei social network, quando si fa un uso eccessivo e continuo della parola, è importante e vitale riflettere se stiamo facendo un uso improprio della parola (lanciando calunnie, facendo maldicenza, usando lashon gassà – turpiloquio) e stiamo minando alla base il nostro rapporto con il prossimo.
Vale la pena ricordare che la maldicenza costituisce oggi uno dei più comuni comportamenti trasgressivi a livello nazionale e comunitario. Le norme della legge ebraica sulla maldicenza sono estremamente rigorose e, purtroppo, è facile incorrere anche involontariamente in questa trasgressione: si può fare maldicenza perfino nel trasmettere un fatto vero: dipende da “come” lo si comunica *.
Le leggi che riguardano la maldicenza coprono una vasta area e coinvolgono molte figure: gli editori dei giornali, i giornalisti, i tipografi, i giudici. Ognuno per le proprie competenze.
I media sommergono la società con informazioni su personaggi politici (e non) di primo piano, provenienti spesso da indagini relative a processi ancora in corso o addirittura da indiscrezioni riservate e registrazioni la cui diffusione è proibita: ognuno è bene o male esposto a queste informazioni (giornali, telegiornali ecc) e spesso si tratta di false notizie. Le minoranze – e tra queste gli ebrei – sono tra i più esposti a questo pericolo.
La parola sacra ha salvato il popolo ebraico
“Non andare in giro come pettegolo tra il tuo popolo” (Lev. 19:16): la Lashon harà’ (la maldicenza) non è solo un fatto che riguarda il singolo, ma tocca direttamente la società e questo è uno dei motivi per cui è vietato dimorare nelle vicinanze di chi fa maldicenza e, tanto più, sedersi con loro e ascoltare le loro parole.
La domanda è perché la Torà tratta con tanata serietà delle semplici parole?
I Maestri sottolineano che lo sparlare è più grave dei tre i peccati principali messi insieme – idolatria, spargimento di sangue e rapporti sessuali illeciti – per i quali si deve essere pronti a morire piuttosto che a trasgredirli: è come rinunciare alla propria dignità umana e negare tutta la Torà e Dio stesso.
Ciò che ha reso l’ebraismo diverso da altre culture e religioni è il fatto che per l’ebraismo la parola e il tempo sono sacri: dieci maamaroth (espressioni) sono state lo strumento con cui Dio ha creato il Mondo fisico e dieci dibberoth (parole) hanno creato il mondo morale: usare in maniera impropria la parola è una sorta di profanazione.
Ora se per quanto riguarda il mondo fisco, Aristotele, Cartesio, Einstein possono in un certo senso parlare di Dio come Architetto dell’Universo, aspetto per il quale potremmo usare il nome Elokim (che appare nel primo capitolo della Torà): la Torà ci parla però di un rapporto basato sulla parola, sul patto tra Noè e Dio, tra Abramo e Dio e tra Israele e Dio. Il termine da usare per questo rapporto è Hashem, il Dio del dialogo e della relazione: “Il Signore vi ha parlato dal fuoco, hai sentito il suono delle parole ma non hai visto alcuna forma; c’era solo una voce ”(Deut. 4:12). La relazione esiste solo in virtù della parola. Il patto e le parole che lo caratterizzano costituiscono la grande svolta nella storia dei rapporti tra Dio e l’uomo, creato a sua immagine.
Siamo abituati a considerare l’uscita dall’Egitto come elemento caratterizzante dell’esperienza ebraica e certamente è molto importante: tuttavia, nonostante l’uscita dall’Egitto segni la data di nascita del popolo ebraico, è il patto del Sinai l’elemento che ha cambiato la storia del popolo ebraico. Il profeta Amos, parlando del rapporto tra Dio e Israele, riporta questa dichiarazione di Dio: “Non ho fatto salire Israele dall’Egitto, i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir?” (Amos 9: 7): quindi la liberazione dall’Egitto non è stata un fatto che riguardava esclusivamente Israele. Se il popolo ebraico è stato capace di sopravvivere per duemila anni nella Diaspora è perché aveva con sé ancora la parola di Dio che non poteva essere mai annullata.
La persona colpita da Tzara’at veniva isolata e additata come “impura” e costretta a vivere in quarantena fuori dall’accampamento, fino a quando il Cohen lo avrebbe esaminato per verificare che la tzara’at era scomparsa. Questo fatto costringeva la persona a interrogarsi e forse a ritrovare la strada della parola e del dialogo..
Questa lettura dovrebbe farci riflettere su quanto sia importante – anche nel periodo in cui viviamo in cui le persone sono divise tra loro – cercare di unire anima con anima ed evitare non solo il contagio, ma anche, come si usa dire oggi, che le parole diventino virali.
Come direbbe il venditore ambulante abbiamo una medicina che può farci guarire dall’isolamento e far sì che, al di là delle parole negative e avvelenate che spesso ci accompagnano, l’uomo in quanto immagine di Dio, possa finalmente usare la parola sacra che, possa unirlo a Dio stesso e agli altri uomini.
Scialom Bahbout
Rabbi Israel Meir Hakohen Kagan (1839 – 1934) Autore della Mishnà Berurà commento a Orach Chaim dello Shulchan ‘Arukh, ha scritto nel 1877 un libro in cui esamina tutte Le leggi della maldicenza. Esiste una traduzione italiana pubblicata da Morashà. Chiama questo libro Chafètz Chaim, le parole usate dal venditore ambulante prese dal salmo 34. L’autore è conosciuto proprio con il nome di questo libro.
Rabbi Izchak Aramà (Spagna 1420 – Napoli – Italia 1494) Autore del libro ‘Akedat Izchak, tra i maestri sefarditi prima della Cacciata. Filosofo e commentatore, rabbino e Rosh Yeshivà di varie Comunità in Spagna. Il suo commento alla Torà è di tendenza filosofica. Cita molti filosofi ebrei. Il figlio accusò Don Izchak Abravanel di avere copiato capitoli del suo commento. In realtà sembra che Abravanel abbia scritto il suo commento quando era ancora giovane. Dalla Spagna, ripara in Portogallo e poi arriva in Italia e muore a Napoli. Ha scritto commenti ad altri libri della Bibbia tra i quali un commento ai Proverbi e alle Cinque Meghillot. Ha scritto Hazut kashà un libro di natura filosofica dove critica tra l’altro le basi del Cristianesimo (per informarsi andava ad ascoltare le prediche dei sacerdoti cristiani).