Partendo dalle riflessioni del prof. Gabriel Danzig, Bar Ilan University
Daniela Santus

Palestina libera dal fiume al mane. Fuori i sionisti dalla Palestina. La Palestina ai palestinesi. La Palestina ai tempi di Gesù. La carta geografica della Palestina. La Palestina dell’Impero Ottomano. Israele/Palestina. La resistenza palestinese. Chi di noi non ha sentito nominare così tante volte la Palestina da sentirsi quasi in imbarazzo per il fatto di non saperne dare una precisa definizione o collocazione? Il termine è di fatto tanto antico quanto ambiguo. Eppure in nome della Palestina negata ai palestinesi si occupano università, si compiono attentati, si boicottano (o si cerca di farlo) cantanti, docenti, libri. Si fanno cadere ciclisti (!), si bloccano strade, si aggrediscono gli ebrei, accusati – nel loro insieme – di aver occupato la terra palestinese. Proviamo a chiedere aiuto alla storia (e alla geografia) per dirimere la questione. Di grande impatto, per me, sono state le analisi del prof. Gabriel Danzig, esperto di Storia della Filosofia Antica, cui in parte faccio riferimento per queste brevi riflessioni.
Il nome Palaestinē compare più volte in Erodoto (484 a.C. – 425 a.C.) come toponimo geografico. Compare anche in scrittori successivi di epoca greca e romana, come Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.), in riferimento al Mar Morto o negli estratti di Agatharchide (220 a. C. – 145 a.C.) riportati da Fozio (810 d.C. – 893 d.C.), ma anche Diodoro (90 a.C. – 27 a.C.) usa il termine, seppur sempre in riferimento ad Agatharchide e persino Strabone (60 a.C. – 21-24 d.C.). Ma chi abitava questa Palestina? Non certo popolazioni arabe, né tanto meno islamiche, dal momento che l’islam nascerà soltanto nel VII secolo dopo Cristo e dunque più di mille anni dopo Erodoto.
Di fatto, quando Erodoto si riferisce alle popolazioni che vivevano in Palestina, adopera il generico termine di siriani (Surioi), anche se in uno specifico passo – unico in tutta la sua opera – afferma che vi erano delle persone ‘chiamate’ Palaestinoi, che però ‘erano Surioi’. In altre parole, anche Erodoto non aveva le idee completamente chiare: ciò appare evidente soprattutto nel momento in cui afferma che questi particolari siriani praticavano la circoncisione. Di fatto non ci è dato sapere chi fossero queste persone definite palestinesi, ma il fatto che praticassero la circoncisione suggerisce che potrebbe trattarsi del popolo ebraico. Non conosciamo nessun altro gruppo nell’area che praticasse la circoncisione. D’altra parte proprio Erodoto, nel secondo volume delle Storie, al paragrafo 104 afferma che: “Solo gli egiziani, i siriani che vivono in Palestina e i fenici, si circoncidono fin dall’infanzia, come essi stessi dicono”. Pertanto questi siriani della Palestina – termine che Erodoto usa per identificare il popolo che abitava la regione meridionale del Levante, tra Fenicia ed Egitto, quindi proprio nell’area che comprendeva il regno di Giuda e Gerusalemme – erano quasi certamente gli Yehudim. Cosa ci suggerisce questo? Che per Erodoto era il popolo ebraico a vivere in una regione geografica che, per qualche oscuro motivo (non certo antropologico o etnico), egli definiva Palestina.
Da dove deriva dunque il termine Palaestinē? Come ci dice Gabriel Danzig, questo potrebbe derivare dalla parola Paleshet in ebraico e fenicio (Paleset in egiziano e ugaritico), che si riferiva a una regione della costa meridionale di Israele abitata un tempo da greci micenei, più conosciuti – grazie alla Bibbia – come filistei. Facenti parte dei ‘popoli del mare’, i filistei avevano anche tentato di invadere l’Egitto, cui erano riusciti a strappare Gaza durante il regno di Ramses III (circa 1175 a.C.). Non è per nulla semplice tuttavia comprendere perché proprio quel toponimo sia stato successivamente adoperato per indicare l’intero Paese o perché i cosiddetti ‘siriani circoncisi’, ovvero gli ebrei, siano stati in qualche modo ‘legati’ al termine Palaestinoi. Di fatto i filistei, non circoncisi, scomparvero del tutto, in buona parte assimilandosi, entro il VI-V secolo a.C.
Resta altresì evidente che il termine Palaestinē non compaia mai nella letteratura ebraica e aramaica biblica o post-biblica. Sebbene il Talmud citi Cesarea, Tiberiade e altri toponimi romani, di fatto non menziona mai Palaestinē o Palaestina e, quando si riferisce ai Pelishtim, il popolo di Paleshet, li tratta come un popolo dell’antichità. D’altra parte così era, essendo entrambe le redazioni del Talmud comparse diversi secoli dopo la scomparsa dei filistei: il Talmud di Gerusalemme è stato redatto tra il IV e il VI secolo e il Talmud babilonese tra il V e il VII d.C.
La parola Palaestinē compare anche in Filone d’Alessandria (30 a.C. – 40 d.C.) e in Giuseppe Flavio (37 d.C. – 100 d.C. circa) come nome di luogo, ma non come nome di un popolo. Quando Giuseppe usa il termine ‘filistei’ si riferisce ai filistei biblici, non a una nazione a lui contemporanea.
Incredibilmente, nonostante i cristiani di oggi siano abituati a riconoscere Israele come ‘Terra Santa’ o ‘Palestina’, il termine Palaestinē non compare mai nel Nuovo Testamento, che parla invece di terra d’Israele. Altri termini neotestamentari, per indicare parti di quella terra, sono Giudea per la regione meridionale, Galilea per l’area settentrionale e Samaria per la regione montuosa centrale. Ma ipotizziamo di dare per scontato (e scontato non lo è per niente) il termine geografico Palestina. Noteremo che nell’antica Palestina erano insediate molte tribù e molte nazioni. Interessante il fatto che – ad eccezione dei Micenei, che abitavano a Paleshet, sulla costa meridionale – tutte queste tribù parlassero ebraico e che, al tempo dei Romani, si fossero già da tempo riunite in un’unica nazione, nota ai Romani come Iudaea (Giudea). Facendo ancora una volta mie le riflessioni di Danzig, non posso fare a meno di segnalare che nessuno dei nomi delle tribù o delle nazioni precedenti continuò a servire con significato in qualche modo identitario, ad eccezione dei Samaritani e degli Idumei (questi ultimi discendenti di Esaù), che sono menzionati nel Nuovo Testamento.
Dopo la conquista di quella che gli ebrei chiamavano Eretz Israel (Terra d’Israele), nel 70 d.C., i romani coniarono una serie di monete commemorative in cui si proclamava la Iudaea capta, ovvero la Giudea conquistata. Non si trovano tracce di una Palaestina capta. Motivo per cui gli occupanti chiamarono il territorio provincia Iudaea. In quella provincia c’era un unico grande tempio, quello ebraico, a cui ricorrevano tutti gli abitanti della regione. Com’è noto, soltanto dopo la rivolta di Bar Kochba, nel 135 a.C., i romani -sotto la guida dell’Imperatore Adriano – sostituirono il nome della provincia Giudea in Palaestina nel tentativo di consolidare la distruzione degli ebrei e di cancellarne ogni legame con la Terra d’Israele. Allo stesso modo, sostituirono il nome di Gerusalemme con quello di Aelia Capitolina.
Non pare dunque errato ritenere il toponimo Palaestina come termine colonialista usato dagli stranieri per riferirsi alla terra d’Israele, ma – suggerisce ancora Danzig – lo stesso termine “non era usato o conosciuto dalla gente che viveva in quell’area, a meno che non leggesse il greco o il latino. Si potrebbe paragonare il termine Palestina ai toponimi geografici ‘Asia Minore’ o ‘Sud-Est imposti da stranieri che però non indicano un’identità nazionale né riflettono la corrente terminologia locale. Un’analogia anche più simile potrebbe essere la pratica francese di riferirsi al popolo Dakota come Sioux, un termine peggiorativo usato dai loro nemici, gli Algonchini”.
Dopo la conquista araba nel VII secolo, il termine Filastin fu adottato dai governanti arabi come termine amministrativo per una parte del bilad al-sham o Grande Siria.
Ad ogni modo versione latinizzata del nome Palestina continuò a essere usata dai cristiani in Occidente per riferirsi alla terra d’Israele. Questo nome fu così largamente accettato che anche gli studiosi ebrei lo adottarono e, nel XIX secolo, gli studiosi della Wissenschaft des Judentums diedero il nome di Talmud palestinese a quella stessa opera nota in precedenza come Talmud Yerushalmi (o Talmud della Terra d’Israele o Talmud di Gerusalemme). Questo Talmud è l’unico libro dell’antichità che porta il nome di ‘palestinese’ ed è un’opera ebraica!
Come si potrà leggere nel mio testo “Leggere gli spazi. Percezione narrativa di Eretz Israel” (scritto con Matteo Bona e in uscita a settembre), anche famosi autori italiani adoperarono il termine Palestina nei loro scritti. Basti pensare al volume di Matilde Serao, intitolato Nel paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina. Questo volume è interessante in quanto narra del viaggio della nota giornalista svoltosi tra la primavera e l’estate del 1893. In particolare un’osservazione spicca nella narrazione mentre si avvicina alla costa che lei definisce palestinese:
“Nessuno a bordo dell’Apollo – nome di buon auspicio, speriamo – parla di Palestina, che non è una parola geografica molto comune: ma la parola altisonante Soria ricorre sempre, tra i dialoghi dei viaggiatori. Soria!”
È probabile che, nell’eccitazione per l’avvicinarsi alla costa, l’autrice abbia frainteso il significato geografico del termine usato dai suoi compagni di viaggio, che stavano semplicemente rallegrandosi alla vista della cosiddetta Grande Siria (Süria o, come si è detto, bilad al-sham). Questa sorpresa di Serao ci permette di ricordare che la Palestina non rappresentava un’entità territoriale autonoma sotto l’Impero Ottomano e che l’uso dello stesso toponimo era alquanto inusuale. Gli ottomani avevano infatti diviso la regione nel vilayet di Beirut e nel vilayet di Damasco, creando poi il sanjuk di Gerusalemme. Anche se il termine Filastin continuava a comparire sulle mappe del periodo ottomano, come termine geografico, di fatto questo non rappresentava un’area dai precisi confini e neppure ci sono prove, del periodo, secondo cui le persone che vivevano nella zona pensassero di risiedere in Filastin o che si considerassero palestinesi.
Nell’edizione ridotta curata da Mauro Minervino (2002), questa sezione è stata omessa, forse per evitare di palesare l’imbarazzo geografico della Serao nel momento in cui comprendeva che il termine Palestina era sconosciuto ai più. Tuttavia, è chiaro che l’oscurità del termine tra i compagni di viaggio sconcertava Serao al punto da renderle persino insopportabile il viaggio in treno da Giaffa a Gerusalemme:
“Quando il treno si avvicina a Gerusalemme, la tristezza diventa mortale.”
Proprio su questo treno l’autrice incontra per la prima volta gli ebrei che vivevano nel Paese e se ne lamenta:
“[…] viaggiare con questi ebrei pallidi, con i capelli arricciati sulle orecchie, i cappelli di lana, le cuffiette di pelo spelacchiato: sudici, emananti cattivo odore, facenti capolino dalla porticina della seconda classe con un occhio tra il curioso e il beffardo.”
Serao era chiaramente influenzata dai pregiudizi antisemiti del suo tempo. Pregiudizi evidenti sia in questo testo che, ancor più, nel suo successivo romanzo, ‘La mano mozzata’. È interessante notare come la traduzione inglese di Richard Davey (pubblicata a Londra nel 1905, lo stesso anno in cui ‘La mano mozzata’ appariva in Italia) ometta completamente le parti antisemite del testo. Eppure persino la consapevolezza che la maggior parte degli abitanti della città fosse costituita da ebrei è fonte di risentimento per Matilde Serao:
‘Ma tra le settantamila persone che dimorano nelle sacre muraglie, vi è, forse, un popolo di Gerusalemme? Chi meriterà, dunque, questo nome eletto, invidiato dagli altri popoli e caro al Signore? Non gli ebrei, che oggi costituiscono la metà, più della metà, degli abitanti di Gerusalemme. [..] Gli ebrei hanno cominciato a tornare a Gerusalemme. Stanno tornando da tutti i lontani Paesi d’Europa, pallidi, stanchi, quasi sempre malaticci, con l’aria timida dei cani bastonati, che guardano ogni persona di sbieco, temendo in ognuno un nemico, un persecutore, silenziosi, pensierosi, incapaci di discutere, con il bisogno di nascondersi, sempre in case piccole, buie e silenziose, in piccole botteghe dove non c’è quasi merce […] Ah, sanno bene, tutto! Sanno di vivere a Gerusalemme per una generosa concessione, per una distrazione sovrana, e si sentono come in una residenza temporanea […] hanno l’aria di intrusi che quasi rubano l’aria e il sole alla santa Sionne; camminano lungo le mura; si distinguono per i capelli lunghi, spesso arricciati alle tempie e alle orecchie, si distinguono per certe fogge particolari di abbigliamento; si distinguono soprattutto per una costante apparenza di debolezza, di infermità, anche nei giovani, anche nei bambini. […] Non sanno lavorare la terra. La loro tradizione di pastori e contadini si è dispersa, così come la loro razza: nelle loro vene scorrono venti secoli di traffici, industrie e commerci. Le loro donne, raramente belle, quasi sempre pallide, con certi occhi chiari dallo sguardo incerto, non vanno velate, ma indossano una curiosa cuffia antica, posta di traverso sulla fronte, che nasconde i capelli: su di essa stringono una sciarpa di lana bianca con fiori rossi e gialli: anche loro vanno insieme, silenziose, guardandosi appena intorno, camminando velocemente per raggiungere le loro case, che sono le più brutte di Gerusalemme. E per essere qui, dove fino a duemila anni fa avevano il Tempio, la loro patria e le loro tradizioni, sopportano una vita disprezzata, ogni tipo di vessazione; per poter piangere qui, il venerdì, sull’unico muro del Tempio rimasto in piedi; per poter morire qui, con un po’ della terra nera della Valle di Giosafat sul corpo!”
Matilde Serao non aveva idea di ciò che stava accadendo nel Paese e del contributo che proprio gli ebrei da lei disprezzati stavano dando alla bonifica e alla riabilitazione delle aree più malsane della regione che gli ottomani avevano trascurato.
Ad ogni modo, dopo gli ottomani, saranno gli inglesi ad adoperare il termine Palestina al Mandato della Lega delle Nazioni.
Quando il 14 maggio 1948, poco prima della scadenza del Mandato stesso, David Ben Gurion dichiarò la nascita dello Stato di Israele, lo fece senza specificarne i confini; in attesa che gli arabi facessero lo stesso con lo Stato di Palestina. Ciò su cui è corretto riflettere è che, dal momento che nessun altro Stato venne proclamato in Palestina, il principio dell’uti possidetis implicava – da un punto di vista del diritto internazionale – che l’intero territorio del Mandato ricadesse sotto la sovranità israeliana. Pertanto la successiva annessione giordana avrebbe dovuto essere considerata illegale.
La storia è poi nota: nel 1964 Yasser Arafat fondò l’OLP, letteralmente Organizzazione per la Liberazione della Palestina. L’obiettivo dichiarato non era quello di liberare gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, poiché questi non erano ancora sotto il dominio israeliano, ma si trovavano sotto occupazione giordana ed egiziana (e lo sarebbero rimasti sino al 1967), ma di ‘liberare’ la terra di Palestina dallo Stato ebraico. Il ‘popolo palestinese’ ancora non era nato e le aspirazioni di Arafat guardavano a una Grande Siria, motivo per cui nel 1948 non era stata proclamata la nascita dello Stato di Palestina, ma era stata dichiarata guerra allo Stato d’Israele. Cosa possiamo dedurre, tornando alla nostra riflessione iniziale? Che dalla sua prima apparizione in Erodoto e fino alla metà del XX secolo, il toponimo ‘Palestina’ è stato esclusivamente o quasi un termine geografico, non etnico, adoperato per negare l’ebraicità della Terra d’Israele.
Oggi la storia si ripete. Fermo restando il fatto che sono una sognatrice che vorrebbe ancora vedere realizzati due Stati per due Popoli, che possano vivere fianco a fianco nel rispetto reciproco, mi arrendo all’evidenza del fatto che – forse – la pace non si è ancora raggiunta semplicemente perché il secondo popolo non è mai esistito in quanto tale e non si può imporre uno Stato a chi non lo vuole, ma desidera esclusivamente la distruzione dell’altro. Pur tuttavia questa guerra deve finire, per rispetto di chi l’ha combattuta ed è stato ucciso, per pietà di chi ha cercato di ribellarsi alla dittatura di Hamas ed è morto tra inumani sofferenze, perché l’odio genera odio e vorrei tanto che Israele, ancora una volta, come fece Ben Gurion, avesse la forza di dire: “Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua terra. Lo Stato d’Israele è pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio Oriente intero”. Dopodiché il futuro sarà nelle mani di HaShem.