Claudia De Benedetti – Consigliera Ucei
Parlare di Rita Levi-Montalcini senza scivolare nella banalità appare un’impresa ardua.
Questa sera vorrei presentare un ritratto famigliare, se possibile inedito, di Rita, coetanea e Amica con la A maiuscola della mia nonna Carla.
Una donna che ho avuto l’onore di incontrare in numerose occasioni private e che appartiene a una generazione titanica, molto più abituata a spostare macigni piuttosto che a far chiacchiere o perdersi in recriminazioni.
Una donna profondamente femminista ma al tempo stesso un po’ stile Ottocento, che ha sempre combattuto i pregiudizi sull’indole femminile.
Una donna che ha rinunciato a costruire una sua famiglia senza mai dimenticare quella d’origine, che apparteneva alla borghesia ebraica torinese.
Una donna che ha saputo interpretare con la sua linea lieve uno dei tratti propri dell’identità ebraica: quello di costruire un fenomeno che, pur essendo contenuto sul piano numerico, è presente in modo diretto od indiretto in moltissimi luoghi.
Una donna che ancor oggi testimonia, giorno dopo giorno, con il suo esempio, la forza di una passione che l’ha portata a darsi interamente alla ricerca scientifica, trovando nel connubio vita-scienza il significato più autentico e profondo delle sue scelte quotidiane.
Una donna coraggiosa, che ha sentito prepotente il desiderio di ribadire la propria identità con l’umiltà del maestro che giorno dopo giorno insegna all’allievo i rudimenti della scrittura e della lettura.
Una donna indipendente, nel senso più profondo della parola, che alcuni mesi or sono dichiarava con candore: “Non ho mai voluto essere il numero due, non ho mai accettato la direzione di qualcun altro…Quanto al coraggio, direi che ho sempre limpidamente affermato il mio punto di vista, perché quel che mi importava era la verità, non il potere”.
Una donna che Primo Levi il giorno in cui le conferirono il Nobel descrisse come “una piccola signora dalla volontà indomita e dal piglio della principessa”, e che il fratello Gino, noto architetto nella Torino degli anni Trenta, definiva “sensibilissima, fragilissima, resistentissima”.
Citando proprio Primo Levi nel prologo del suo “Cantico di una vita” Rita Levi-Montalcini ha fatto sua questa frase: “Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”. Una vita che lei stessa non definisce proprio felice, ma certo intensa ed appagante, seppur segnata dal dolore di dover vivere sempre lontana dalla sue adorate madre e sorella gemella Paola – recentemente scomparsa
“Mio padre desiderava diventassi moglie e mamma, ho preferito studiare. No, non mi sono sposata per dedicarmi alla ricerca. In tempo di guerra volevo fare il medico, ma la mia appartenenza alla stella di David non me l’ha consentito, mi rimaneva la ricerca.”
Nata a Torino il 22 aprile 1909 da Adele Montalcini, pittrice, e Adamo Levi, ingegnere chimico.
All’età di venti anni Rita Levi-Montalcini si rende conto che il ruolo femminile concepito dal padre non le si addice, e così gli chiede il permesso di tentare una carriera professionale: in otto mesi riesce a terminare gli studi superiori e ad iscriversi alla facoltà di Medicina presso l’Università di Torino.
Mentre Rita si iscrive a medicina, Paola, si dedica alla pittura formandosi alla scuola di Casorati, per divenire pittrice e scultrice apprezzata da De Chirico, Argan e Gillo Dorfles. “Disegnava bene già a tre anni, ricorda Rita, e per queste sue capacità artistiche ha avuto una precoce affermazione. Tra noi due non c’è alcuna differenza, perchè il mio percorso scientifico e il suo percorso artistico nascono dalla stessa capacità intuitiva”.
Nel 1936 Rita si laurea con il massimo dei voti; subito dopo inizia a frequentare un corso di specializzazione in neurologia e psichiatria. Sempre in quell’anno Mussolini pubblica il “Manifesto per la difesa della razza”, sottoscritto da dieci “scienziati” italiani: per effetto del quale ai cittadini italiani di “razza non ariana” vengono precluse le carriere accademiche e professionali.
Dopo un breve periodo trascorso a Bruxelles come ospite presso un istituto neurologico, nella primavera del 1940 torna a Torino e raggiunge la famiglia. Sono gli anni in cui Rita trasforma in laboratorio clandestino la propria camera da letto; sono gli anni della guerra e della fame e lei, che vuole cominciare ad operare gli embrioni di pollo con aghi trasformati in microbisturi lascia intatto il resto dell’uovo affinché possa essere mangiato. “La giungla che mi si presentava davanti in quel momento era più affascinante di una foresta vergine” ha scritto rievocando l’inizio delle lunghe e faticose ricerche che l’avrebbero portata a scoprire il Nerve growth factor, l’agente promotore della crescita nervosa, e a meritare il premio Nobel per la medicina. “Si trattava del sistema nervoso con i suoi miliardi di cellule aggregate in popolazioni, le une differenti dalle altre e rinserrate nel viluppo apparentemente inestricabile dei circuiti nervosi che si intersecano in tutte le direzioni dell’asse cerebro spinale. Si aggiungeva, al piacere che pregustavo, quello di attuare il progetto nelle condizioni proibitive create intorno a noi dalle leggi razziali…” Parole come «giungla» e «condizioni proibitive» in relazione con «affascinante» e «piacere che pregustavo» ci illuminano sul temperamento della grande scienziata.
Il pesante bombardamento della città da parte degli Alleati nel 1941, costringe la famiglia Levi ad abbandonare la città e trasferirsi in campagna. La situazione precipita nel ’43, quando l’invasione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco rende necessario nascondersi a Firenze, dove laLevi-Montalcini stringe diversi contatti con i partigiani del Partito di Azione. Nel ’44 gli Alleati costringono i tedeschi a lasciare Firenze; Rita diviene medico presso il Quartier Generale anglo-americano e viene assegnata al campo dei rifugiati di guerra provenienti dal Nord Italia. In quegli anni ricorda “dovevo correre verso i rifugi antiaerei ma pensavo sempre a portare in salvo la cosa più preziosa che avessi, il microscopio binoculare Zeiss”.
A guerra terminata torna nella sua Torino e comincia le sue ricerche in neuroembriologia sperimentale. In quel periodo le conoscenze sul sistema nervoso erano quasi del tutto inesistenti. “Veniva giudicato come qualcosa di troppo complesso – ricorda- non attraeva i giovani ricercatori, che preferivano dedicarsi agli studi, allora in pieno sviluppo, di genetica e virologia. Ma proprio quella complessità e la bellezza stessa del sistema nervoso furono per me motivo di curiosità e di fascino.”
“Continuo ad essere in luna di miele con i miei embrioni: ogni giorno il piccolo spiraglio che ho aperto si apre un pochino di più” così nel gennaio 1951 Rita narra ai famigliari la sua prima scoperta che la porterà ad evidenziare il fattore dell’Ngf (Nerve growth factor) a Rio de Janeiro un anno più tardi.
” Lì per lì il pubblico scientifico non ne capì nulla. Era qualcosa che travolgeva le conoscenze di allora, i dogmi imperanti. In modo graduale ma costante le notazioni cominciarono a essere diffuse ma fino agli anni Ottanta l’Ngf sembrò un fattore di crescita specifico per un sottogruppo di cellule nervose di scarso rilievo. Non si sapeva ancora che la molecola potesse agire anche sul sistema nervoso centrale. Quando poi Seiler e Schwab, due ricercatori svizzeri, nel 1984 trovarono che agiva sui sistemi cognitivi, solo allora il pubblico scientifico si fece attento, e i ricercatori si buttarono a centinaia sull’Ngf. In seguito si è scoperto che il fattore agiva anche sul sistema immunitario ed endocrino. Così si è aperta tutta una serie di altri scenari che all’inizio non si sospettavano neanche. Con l’Ngf avevo trovato la punta di un iceberg, ma c’era tutto un continente sommerso.”
“Ci sono ora enormi sviluppi che non erano prevedibili neppure quando nel 1986 ho avuto il Premio Nobel. Si è sperato (ma a tutt’oggi non definitivamente attuato) che l’Ngf possa combattere o comunque mitigare le conseguenze di fenomeni degenerativi come quelli che si verificano in ben note patologie: Alzheimer, Parkinson e altre. Un’applicazione clinica ad alta potenzialità di sviluppo, venuta recentemente alla luce per opera di alcuni giovani ricercatori appartenenti al mio gruppo e a quello della Clinica oculistica di Venezia, è stato l’utilizzo del Ngf come collirio in lesioni della cornea (di natura sia traumatica sia virale sia tossica) che causano fatalmente la distruzione della stessa cornea e quindi la cecità. Somministrato per via topica, l’Ngf porta alla rigenerazione della cornea lesa, al suo totale ripristino.”
Quando ho appreso che avrei sostituito il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzatto nel pronunciare l’omaggio a Rita Levi-Montalcini ho ripreso in mano il volume della scienziata intitolato “Elogio dell’imperfezione”. Tra i tanti pensieri, semplici e profondi al tempo stesso, vorrei qui ricordare alcune frasi emblematiche, che rivelano il fascino ed il travaglio intellettuale ed interiore di ogni grande ricercatore che, seppur con approccio rigorosamente scientifico, è alla ricerca della verità. Scriveva Rita Levi-Montalcini nel 1963 da St. Louis, al suo allora adolescente nipote Emanuele: “Ritornando alla definizione e all’analisi degli attributi del “grand’uomo”, io penso che né le eccezionali qualità intellettuali, né la forza e la sicurezza siano quelle che lo differenziano dall’uomo comune…Le mie simpatie vanno a quelli dotati di una profonda e acuta sensibilità, a quelli che sanno abbandonarsi completamente nella contemplazione dell’universo, che fanno errori e sono vulnerabili…Non è l’assenza di difetti che conta, ma la passione, la generosità, la comprensione e simpatia del prossimo e l’accettazione di noi stessi(…).L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo (…). Ritengo che l’imperfezione, nell’eseguire il compito che ci siamo prefissati, sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione…”
Vorrei qui ricordare alcuni altri pensieri di Rita, splendidi nella loro semplicità: “la scienza deve portare soprattutto verità, e, con la verità, la pace: i fatti dicono che mai si è dichiarata una guerra in nome o per colpa della scienza, come invece tante volte è accaduto nel nome di una religione o di un’ideologia. I fatti dicono invece che la scienza ha avvicinato spiritualmente i popoli più lontani, fin da quando padre Matteo Ricci ai primi del Seicento si conquistò l’amicizia e la fiducia dell’imperatore della Cina parlandogli di astronomia e matematica. La scienza permette un linguaggio senza ambiguità, e comprensibile nelle nazioni più diverse. Gli scienziati rivendichino dunque il loro diritto a intervenire nel campo dei valori: otterranno certo più di quello che non abbiano potuto ottenere i politici, i filosofi e i capi religiosi.
Nel ricevere a Trieste una delle sue tante lauree ad honorem, fece una proposta: “perché alla Carta dei diritti dell’uomo, votata dall’Onu nel 1948, non aggiungiamo una Carta dei doveri? In un mondo minacciato dalle armi nucleari, dalla violenza religiosa e razziale, dall’effetto serra, dagli inquinamenti, dalla fame, dall’ingiustizia, dal crimine organizzato, dallo sfruttamento selvaggio dei corpi e delle anime, non è possibile che si parli ancora soltanto di diritti, ma è necessario fissare obblighi e adempimenti che ciascun individuo è tenuto a osservare per contribuire attivamente alla difesa della civiltà e dello stesso genere umano. Non siamo più nel 1948, quando la conoscenza dei doveri si dava ancora per scontata, mentre in dubbio erano i diritti: la situazione si è capovolta. La Magna Charta dei doveri umani nasce dalla consapevolezza che oggi, nella attuale situazione di sviluppo dei paesi privilegiati, non si deve esigere soltanto il riconoscimento dei diritti, ma è necessario fissare con precisione alcuni fondamentali doveri umani. Bisogna richiamare e affermare le responsabilità di tutti e di ognuno verso gli altri e verso il mondo intorno a noi.”
Infine un pensiero dedicato alle nuove generazioni: “la società ha il dovere di indurre i giovani a prendere in mano il futuro, portandoli nel cuore stesso della scienza, perché si rendano conto dei suoi continui sviluppi, senza lucchetti al cervello.”
La signora della biologia all’età di 93 anni, dopo aver superato le persecuzioni razziali e valicato il millennio, ha conquistato un nuovo alloro con la nomina di senatrice a vita. “Per me – ha detto – è un riconoscimento maggiore del Nobel perché viene dall’Italia, dal mio paese. E’ la cosa più bella mi potesse accadere prima della fine del mio lungo percorso. Non pensavo di potercela fare. Non pensavo… sono emozionata, grazie a tutti, grazie per avermi regalato questa nuova felicità, forse l’ultima, ma la più intensa”. La sua indiscussa notorietà non ha intaccato l’equilibrio e l’acutezza neanche in quell’occasione: “Dopo che ho ricevuto il Nobel – ha concluso- per me non è cambiato niente. Nemmeno adesso, ma diventando senatrice potrò fronteggiare le problematiche che mi stanno a cuore con maggiore successo”.
Rassegna di cultura ebraica Arcastella