SCRITTRICI POLACCHE. Nell’ultimo romanzo della scrittrice polacca, l’epopea eretica di Jakub Frank, l’avventuriero che traversò l’Europa del ’700 facendo proseliti fra gli ebrei: «I Libri di Jakub», da Bompiani
Nel marzo del 1975, in una pagina del suo Diario segreto, il poeta polacco Miron Bialoszewski deplorava il fatto che nella «rivoluzionaria» monografia di Alina Witkowska su Adam Mickiewicz l’origine ebraica di tCelina Szymanowska, la moglie del poeta, fosse una ennesima volta sottaciuta. Per la precisione, colei che nel 1834 aveva unito il proprio destino al futuro vate nazionale (condividendone anche l’esilio a Parigi), discendeva in linea diretta da Salomon Ben Elias, fedelissimo di Jakub Frank, il controverso mistico cabalista che, autoproclamatosi Messia nel 1754, aveva sconvolto la vita delle comunità ebraiche polacco-lituane, accattivandosi rapidamente la devozione incondizionata di una folta schiera di accoliti. Ad attirare l’attenzione di Bialoszewski sul problema tanto spinoso quanto rimosso dell’influenza esercitata dal messianesimo ebraico su Mickiewicz (frankista sarebbe stata non solo sua moglie, ma anche la sua stessa madre, Barbara Majewska, e addirittura la sua amante, Xawera Dejbel) fu probabilmente l’amico e critico letterario Artur Sandauer che, fra i primi sottolineò l’apporto fornito dagli ebrei assimilati alla costituzione dell’identità nazionale polacca.
Il fatto che, a distanza di decenni, questo tema susciti tuttora irritazione (se non scandalo) in un paese pervicamente impegnato ad auto-rappresentarsi come una sorta di monolite cattolico spiega in parte come mai Olga Tokarczuk abbia dedicato un fluviale romanzo di oltre mille pagine all’epopea eretica di Jakub Frank. Nei Libri di Jakub(traduzione di Ludmila Ryba e Barbara Delfino (Bompiani, pp. 1120, euro 29,00) la scrittrice adotta a sorpresa l’aplomb dello storico di professione per tratteggiare il volto di una società multiculturale e pluriconfessionale, talmente sfaccettata e frammentata al suo interno da essere fatalmente destinata alla dissoluzione. Al contempo, la eccentrica vicenda di Jakub Frank – definita da Gershom Sholem «un’insurrezione anarchica sorta in mezzo al mondo della Legge» – diventa simbolo universale di tutti gli «incompiuti, imperfetti e abortiti tentativi di riparare il mondo», intrapresi di volta in volta nel corso della Storia da innumerevoli «falliti Messia».
Una calza da rammendare
Come altre teorie emancipatrici finalizzate al riscatto di un popolo o di una classe, anche la predicazione frankista trae le sue origini dalla condizione di esclusione che gli ebrei si trovavano all’epoca a fronteggiare. Questa rivendicazione di giustizia sociale era accompagnata tuttavia da una visione metafisica assai peculiare, riassumibile nell’immagine coniata dai mistici chassidici secondo cui il mondo, «a mo’ di una calza», va necessariamente «rammendato». Lungi dall’essere l’opera di un Dio buono (come credono i cristiani), il cosmo è piuttosto il luogo dell’assenza di Dio, che ha generato l’universo «per caso» e poi se n’è immediatamente ritirato. Da qui quella «eterna recriminazione contro il Creato», elevata con sempre maggior veemenza dai giovani seguaci del mistico Baal Shem Tov, che a metà del XVIII secolo erano stanchi di arrovellarsi invano sulla inconciliabilità tra l’idea di un Dio giusto e la sopraffazione che domina il mondo.
Alla loro protesta l’ambiguo Frank (secondo ad autoproclamarsi in Polonia Messia, sulle orme del cabalista Sabbatai Zevi che lo aveva anticipato di un secolo) venne incontro scagliandosi contro il Talmud e contro Mosè, colpevole di aver voluto avvilire l’umanità, rendendola schiava delle sue leggi spacciate per comandamenti divini. Richiamandosi a un versetto di Isaia secondo cui il Messia dovrà essere «peccatore e mortale», Jakub, forte di un indubbio carisma personale («se non era stato scelto da Dio, di certo lo era stato dagli uomini», osserva Tokarczuk), cominciò a predicare la sistematica, meticolosa, dimostrativa infrazione di ogni precetto, al fine di accelerare il declino dell’antico mondo fondato sull’osservanza della Torah e propiziare così l’avvento della Salvezza.
Un po’ mistico e un po’ erotomane, certamente avventuriero e truffatore, Jakub attraversa gli imperi europei del Settecento (e il romanzo di Tokarczuk) con l’impeto irresistibile di un ciclone. Ordina ai suoi seguaci di mangiare carne di maiale durante lo shabbat e di unirsi agli sposi altrui, per instaurare all’interno della comunità quei vincoli complessi che la monogamia non può garantire. Dopo essere riparato a Smirne, si converte all’islamismo, poi, una volta tornato in Polonia, impone agli adepti di abbracciare la fede cattolica, per porsi sotto la protezione del re Augusto III e poter ambire ai titoli nobiliari preclusi ai cittadini di confessione mosaica. Nel corso delle dispute dottrinarie con i «talmudisti» (ovvero con gli ebrei «ortodossi», scandalizzati dalla sua condotta) li accusa strumentalmente di assassinii rituali – e solo l’intervento del nunzio apostolico Nicolao Serra riesce a scongiurare lo scatenarsi di un pogrom. Elabora una sua strampalata, sincretica teoria per cui la santa Shekhinah, ovvero la presenza divina nel mondo, non è altro che la Vergine Maria. Genera una prole sterminata, nonché una figlia, l’incantevole Ewa, che diventerà l’amante del futuro imperatore d’Austria Giuseppe II.
Opportunità di riscatto
Astenendosi dal formulare un giudizio sulla figura di Jakub, Tokarczuk sfrutta con grande abilità le potenzialità romanzesche insite nella sua parabola. E constata come per gli ebrei polacco-lituani, umiliati e offesi, l’adesione al frankismo (e quindi la conversione al cristianesimo) rappresentarono una opportunità immediata di riscatto sociale. Ma ad affascinare anzitutto l’autrice è la possibilità di ricostruire la storia dell’inafferrabile Jakub da diversi punti di vista, attenendosi alla convinzione più volte espressa dai suoi personaggi che ciò di cui non si parla cessa di esistere: «Quant’è grande il potere della parola: là dove manca il mondo scompare… Se gli uomini leggessero gli stessi libri, vivrebbero nello stesso mondo». Al contempo, compito dello scrittore che si volge al passato è mettere ordine fra le diverse storie, nel tentativo di «comprendere ciò che è accaduto e ciò che sarebbe potuto accadere».
Se dunque la letteratura (secondo la fulminante definizione che Tokarczuk ci riserva alla fine) è la «perfezione di forme imprecise», l’approssimazione più accettabile della elusiva natura di Jakub è quella inscritta nel cognome che lui stesso si scelse, Frank, ovvero lo Straniero: «Essere straniero significa essere libero. Avere dietro le spalle la forma della luna simile a una culla, la musica assordante delle cicale, l’aria che odora di buccia di melone. Sentirsi ospite ovunque, insediarsi in una casa solo per qualche tempo… Avere un proprio racconto, scritto con le orme lasciate dietro di sé». Frank è quindi il diverso per eccellenza (e qui sembra di cogliere una eco del concetto di «allosemitismo» elaborato da Artur Sandauer), una alterità apparentemente irriducibile con cui tuttavia converrebbe venire a patti, se non per spirito umanitario quantomeno per interesse, come osserva a un certo punto Katarzyna Klossokowska, nobildonna cattolica favorevole all’assimilazione degli ebrei: «Vogliamo che da noi comandino gli ambasciatori russi?!» Qualche anno (e qualche pagina) dopo Russia, Prussia e Austria si spartiranno la confederazione polacco-lituana.