David Piazza
Ieri sera il consiglio della Comunità ebraica di Milano si è riunito in sessione straordinaria. La nomina infatti del nuovo rabbino capo, con la lunga pausa estiva alle porte, richiedeva alla dirigenza delle decisioni importanti e non più prorogabili, per il futuro della scuola e del nuovo rabbinato. La riunione era stata preceduta da laboriose giornate dense di incontri incrociati tra i diversi responsabili comunitari e il rabbino capo perché il programma presentato potesse godere anche di un adeguato budget di spesa.
Nonostante dense nuvole che sembravano essere sempre più minacciose, la Comunità di Milano ha invece vissuto ieri una giornata che è difficile non definire come importante, ponendo le basi per una decisiva svolta di indirizzo a cui raramente abbiamo assistito in passato. A sottolineare l’importanza di questa svolta, il fatto che sia stata condotta in un’atmosfera tesa, ma di sostanziale unanimità. Non certo quella formale dei mesi precedenti.
Ma non riusciremmo a capire la portata delle decisioni prese, senza tener conto delle due relazioni che hanno aperto la serata, quella di rav Colombo, responsabile del progetto Kesher e del rabbino capo, rav Arbib.
Sotto il nome progetto Kesher (legame) rientrano tutta una serie di iniziative volte a rafforzare l’appartenenza alla Comunità ebraica degli ebrei definiti “invisibili”. Di quella maggioranza silenziosa cioè, che vive oramai ai margini delle attività comunitarie, per sfiducia, per ignoranza o per debolezza di legami identitari. In pochi mesi di attività questo progetto ha raccolto l’adesione di diverse fasce di pubblico: da chi non ha mai saputo leggere l’alfabeto ebraico, a quelli che avevano sempre serbato domande cruciali a cui non trovavano risposta, oppure semplicemente non avevano trovato l’ambiente giusto dove poterle formulare. Partito in sordina, sotto la direzione esperta di rav Colombo, il progetto ha fortemente dimostrato la necessità di una continuazione.
Rav Arbib invece ha parlato non di un rabbinato ottimale, ma di come Milano abbia necessità di un rabbinato che sia almeno in grado di offrire quei servizi, mancando i quali non solo un rabbinato non è tale, ma una Comunità ebraica non è più una Comunità: in primo luogo la capacità di insegnare, di trasmettere valori e conoscenze, la capacità di funzionare da collante tra le diverse realtà ebraiche oggi presenti, la capacità di assicurare servizi basilari che non possono essere demandati ad altri, come l’assistenza spirituale nei momenti tristi o difficili della vita ebraica, oppure di un reale controllo della kasherut.
Ha parlato della necessità della centralità del tempio di via Guastalla come luogo unificante, anche se logisticamente oramai decentrato rispetto alle residenze degli ebrei milanesi. Tale necessità però dovrebbe essere supportata da azioni concrete, piuttosto che dalla retorica, assicurando per esempio dei veri servizi cultuali e culturali ancora zoppicanti.
Sul ruolo dei rabbini rav Arbib ha sottolineato la necessità che qualunque sia il loro ruolo ufficiale, dovranno dimostrare piena disponibilità a ricoprire funzioni diverse a seconda delle necessità, dichiarando che lui stesso non si sottrarrà a questa nuova impostazione. Riguardo il pubblico non si potranno stabilire degli obiettivi, dei target, ma bisognerà lavorare su tutti. Anche su quelli che non sanno di dover essere aiutati.
Ha poi aggiunto che la Comunità non si trova oggi riguardo il rabbinato solo in una situazione contingente, ma di fronte a scelte strategiche d’indirizzo: A paragone di Comunità più grandi come Roma, ma anche molto più piccole come Venezia, il rabbinato di Milano è paurosamente deficitario nella proporzione operatori-utenti. Non si era forse lo stesso rav Laras lamentato più volte della scarsità di mezzi a sua disposizione?
A chi che gli aveva precisato che la Comunità ha nei confronti degli iscritti l’obbligo a una “oculata” gestione delle finanze, rav Arbib ha risposto che la Comunità ha anche l’obbligo di poter decentemente offrire agli ebrei quei servizi che tutti ritengono fondamentali per una Comunità.
In effetti, di lì a poco, dopo un breve scambio di considerazioni, il consiglio all’unanimità decideva non solo di approvare le posizioni chiave del nuovo rabbinato, ma di offrire, in linea di principio, pieno appoggio alle richieste di rav Arbib prevedendo gli investimenti necessari.
Questa è la vera svolta di una comunità che ha speso negli ultimi tempi solo quello che si “poteva” permettere e non quello che “doveva” potersi permettere, che ha vissuto anni di continui e demoralizzanti tagli e contenimenti per rientrare in bilanci che avevano superato i limiti di guardia, senza però dimostrare obiettivi concreti di sviluppo. Dimenticando che la Comunità non è (solo) un’azienda e chi investe, raccoglie moltiplicato. Milano infatti è una Comunità dove fuori delle istituzioni centrali, tra i vari gruppi che la animano: persiani, libanesi e Chabad, fiducia e investimenti materiali sul futuro non sono mai venuti a mancare, e questi gruppi prosperano dal punto di vista ebraico.
La Milano ebraica respira finalmente, grazie ai nuovi programmi e grazie alla fiducia a questi accordata dai consiglieri e dal presidente, una nuova speranza di rafforzamento delle istituzioni comuni, nel rispetto delle diversità delle sue componenti o come ha spiegato rav Arbib: “L’atteggiamento di una pretesa superiorità dell’ebraismo italiano nei confronti degli ebrei provenienti da altri paesi è decisamente superato… d’altronde non sono forse io nato a Tripoli?”.
Da ieri sera, forse, gli ebrei più indifferenti alla vita comunitaria hanno qualche scusa in meno.