Giorgio Israel
Riparte dalle università inglesi (e ha code italiane) il boicottaggio accademico di Israele
La campagna per il boicottaggio di Israele in ambiente universitario prese le mosse in modo imponente nella primavera del 2002. Era un susseguirsi di raccolte di firme di professori universitari che aderivano all’indicazione di evitare contatti con le istituzioni scientifiche e accademiche israeliane e persino con i singoli qualora non avessero preso le distanze dalla politica del loro paese. Mi trovavo a Parigi in quel periodo, invitato da un’Università, e ricordo perfettamente il clima avvelenato, i colleghi che si presentavano in keffiah ai seminari, che ti chiedevano quali iniziative si stavano prendendo nelle università italiane contro Israele, come se fosse ovvio che una persona normale non potesse avere una posizione differente. Ricordo i rapporti divenuti insostenibili, le amicizie rotte, le improvvise preclusioni. A nulla valeva nei confronti dei più fanatici – per fortuna, non pochi compresero e cambiarono idea – sottolineare il carattere assolutamente inedito di una simile iniziativa. Neppure nei confronti delle istituzioni accademiche e scientifiche sovietiche erano mai state compiute scelte simili. E ciò in quanto si riteneva – giustamente – che fosse preferibile lasciare aperte le porte della collaborazione scientifica e culturale, in quanto, attraverso tale canale di dialogo, poteva trasmettersi il germe benefico della democrazia e della libertà. Chi vuole avere memoria ricorda benissimo gli accademici e scienziati sovietici che passeggiavano per i convegni nei paesi occidentali con la medaglietta di Lenin sulla giacca, mentre a casa loro i dissidenti finivano nel Gulag: nessuno mai si sognò di cacciarli via o di decretare un boicottaggio nei loro confronti. Ora, per la prima volta, si decideva di infliggere un simile trattamento a Israele.
Fu un’ondata di mefitica intolleranza che dilagò nelle università di molti paesi: soprattutto in Francia e in Inghilterra e in numerose università statunitensi, per fortuna quasi affatto in Italia.
Nel luglio 2002 si verificò un evento che contribuì a determinare l’inizio di una svolta. Mona Baker, direttrice del Center for Translation of Multicultural Studies presso l’Università di Manchester, cacciò due ricercatori israeliani – Gideon Toury dell’Università di Tel Aviv e Miriam Schlesinger dell’Università Bar Ilan – dal comitato scientifico di due riviste del centro, con la esplicita ed esclusiva motivazione che essi erano israeliani e quindi cittadini di quel paese dannato, e li sostituì con due ricercatori palestinesi. Per giunta, Schlesinger era una nota esponente del movimento pacifista israeliano… Un provvedimento di natura indiscutibilmente razzista che richiama un precedente storico: quando, nel 1938, l’Unione Matematica Italiana sostituì il suo rappresentante nel “board” della rivista tedesca di recensioni matematiche “Zentralblatt für Matematik”, ovvero il celebre scienziato Tullio Levi-Civita, in quanto ebreo, con due matematici ariani, Francesco Severi e Enrico Bompiani. Il carattere evidentemente razzista del provvedimento della Baker non consentiva alibi: coloro che si rifiutarono di dissociarsi dalla sua azione e mantennero la loro firma accanto alla sua nei manifesti di boicottaggio svelarono la loro assoluta malafede e il carattere fazioso – per essere eufemistici – delle iniziative di boicottaggio. Si può dire che da allora la campagna iniziò ad attenuarsi. Tanto che quando, circa un anno fa, fu presentato a varie case editrici in Francia un volumetto dedicato alla vicenda del boicottaggio e redatto da universitari non soltanto francesi, la risposta fu che ormai essa apparteneva al passato e non era più di attualità.
Chi poteva attendersi che, molto tempo dopo, proprio dopo la decisione del governo israeliano di ritirarsi da Gaza e la riapertura di un dialogo con l’Autorità Nazionale Palestinese, il boicottaggio sarebbe ripreso alla grande? Non se lo potevano attendere coloro che credono ancora alla buona fede dei promotori di tali iniziative e a cui il caso Baker non ha insegnato nulla. Non si è detto e scritto che una ripresa del dialogo israelo-palestinese, dopo tanti drammi, era una delicata piantina da preservare con ogni cura dalle intemperie? E non si è detto e scritto da ogni parte che Sharon aveva mostrato un coraggio senza precedenti? Lui è il “De Gaulle della Palestina”, si è detto e scritto. Le persone ingenue avevano quindi ogni ragione per ritenere che questo non era proprio il momento in cui scatenare una nuova campagna di boicottaggio. Ma si sbagliavano. Perché nella loro ingenuità non avevano previsto che mentre la mano destra lodava il “De Gaulle della Palestina”, la mano sinistra compilava il nuovo appello al boicottaggio – o se non si è trattato delle mani della stessa persona, si è trattato di un gioco delle parti tra compari.
Come commentare altrimenti l’incredibile silenzio (o quasi silenzio) con cui è stato accolta la decisione presa a maggioranza un paio di settimane fa dal sindacato dei professori universitari della Gran Bretagna (49000 iscritti) di boicottare le Università di Haifa e Bar Ilan? L’organizzazione britannica ha invitato i suoi aderenti a non stabilire alcun rapporto di collaborazione scientifica con le due istituzioni, fatta eccezione per quei loro dipendenti che mostrino un atteggiamento critico nei confronti della politica del loro paese… Ma quale autorità morale può mai esibire un’organizzazione che non ha fatto neppure stormire una foglia di fronte ai massacri compiuti da dittatori e satrapi del terzo e quarto mondo? Eppure, a fronte di un simile scempio dell’onestà intellettuale e della morale, il mondo accademico internazionale tace o al più borbotta, almeno finora.
Potrebbe essere di consolazione il fatto che in Italia, ancora una volta, il boicottaggio sembra non attecchire. Ma è meglio non rallegrarsi troppo. Perché è proprio qui che abbiamo avuto alcuni sintomi del riemergere dello scellerato fenomeno. Nei mesi scorsi, prima a Pisa, poi a Firenze, gruppi di autonomi dell’estrema sinistra hanno impedito l’intervento del consigliere Shai Cohen e dell’ambasciatore israeliano nell’ambito di seminari universitari. L’aspetto più inquietante di tali episodi è la copertura che è stata data agli atti squadristici da parte di ambienti e organi di stampa dell’estrema sinistra, come Il Manifesto. Giorni fa è accaduto il terzo episodio. A Torino, il consigliere Elazar Cohen dell’Ambasciata d’Israele ha potuto tenere una lezione nell’ambito del corso di Geografia Culturale della prof. Daniela Santus soltanto perché la predetta ha avvertito preventivamente la Questura. Ciò non l’ha salvata da un tentativo di aggressione fisica e da un lancio di razzi da parte di un gruppo di studenti “antisionisti”, appartenenti equamente all’estrema sinistra e all’estrema destra. Ancor più inaudito è il fatto che la docente sia stata costretta ad annunciare al Preside della sua Facoltà di dover rinunciare a proseguire l’attività didattica in aula, per le minacce ricevute, e di essere costretta a far lezione a gruppetti di tre/persone nello studio.
Questi fatti sono avvenuti pochi giorni prima del 25 aprile, che poteva essere la buona occasione per pronunciarsi su un evento di classico squadrismo da “manganello e olio di ricino” e che rientra quindi a pieno titolo nella tematica dell’antifascismo attuale, non di quello d’archivio. Al contrario, buona parte del mondo accademico, politico e giornalistico ha preferito voltare la testa dall’altra parte e dar fiato alle consuete trombe della retorica o delle consunte polemiche sulla “memoria condivisa”, mentre i soliti ambienti di estrema sinistra – ormai egemoni di quella di estrema destra che, sulla questione israeliana, sono divenuti la loro manovalanza – plaudivano neanche tanto a bassa voce alla “resistenza” contro il sionismo.
Ma converrà ritornare all’estero e alla vicenda degli universitari britannici per aggiungere una pennellata finale al quadro, tra il sinistro e il grottesco, della nuova campagna di boicottaggio.
Subito dopo l’inizio di questa campagna, il “Guardian” ha pubblicato (il 20 aprile) un articolo di un docente israeliano, Ilan Pappé, guarda caso “senior lecturer” in scienze politiche di una delle due università boicottate, quella di Haifa. Per dare una prova di quanto nella sua università imperi un clima di terrore illiberale, il nostro che cosa ha fatto? Ha pubblicato un appello al boicottaggio non soltanto della sua università, ma di tutte le istituzioni accademiche e, anzi, dello stato d’Israele “tout court”. “Faccio appello a voi – ha proclamato Pappé – a far parte di un movimento storico e di un momento che può portare a concludere più di un secolo di colonizzazione, occupazione di spossessamento dei Palestinesi”. Secondo Pappé, le “infamie” commesse dall’esercito israeliano sarebbero possibili perché coperte dall’autorità dell’accademia israeliana, e quindi scardinando questa si priverebbe di supporto morale l’esercito. Difatti, l’università sarebbe connessa ai servizi di sicurezza in quanto fornisce i diplomi “postgraduate”… Di conseguenza, gli accademici israeliani, gli uomini di affari, gli artisti e gli industriali hi-tech debbono ricevere il messaggio che occorre pagare un prezzo per il consenso alle politiche governative.
Non fermiamoci ulteriormente su simili deliri che offrono motivazioni sufficienti per interrogarsi sull’adeguatezza scientifica di simili personaggi, peraltro abbastanza isolati. Chiediamoci piuttosto perché si comportano così. La prima risposta richiama la nota e quanto mai efficace caratterizzazione di François Furet del “tratto unico della democrazia moderna nella storia universale”, da cui Israele non è certamente esente: “questa capacità infinita di produrre dei figli e degli uomini che detestano il regime sociale e politico in cui sono nati, odiano l’aria che respirano, mentre vivono di essa e non ne hanno conosciuto un’altra”. Questa caratteristica trova oggi la sua espressione quintessenziale nella vasta internazionale della cultura postmoderna e postcomunista, antioccidentale e alterglobalista che domina gran parte dei campus universitari, dagli Stati Uniti all’Europa, e che non manca di estendere le sue propaggini, sia pure minoritarie, anche in Israele. Ma una siffatta spiegazione, pur fondatissima e che individua i tratti caratterizzanti di questo fenomeno culturale e sociale, non basta a rispondere alla domanda del perché proprio ora e perché tanto rinnovato attivismo da parte di questi “intellettuali” israeliani. La risposta sta precisamente nel “proprio ora”. Proprio ora, perché adesso si profila un possibile percorso di soluzione, intricato e difficile quanto si vuole, ma realistico e che, soprattutto, ha come prima tappa un evento concretissimo: il ritiro da Gaza. E perché questo percorso non è il “loro”, non è quello dei cosiddetti “accordi di Ginevra”, o di analoghe chiacchiere prive di qualsiasi fondamento concreto, ma quanto mai utili ad attirare come una calamita l’interesse, le passioni e le simpatie dell’antisionismo internazionale; ovvero di coloro che, come si constata ancora una volta in questi giorni, non hanno a cuore la pace quanto l’eliminazione dello stato di Israele. Cosa resterebbe da fare ai personaggi alla Pappé, se tutta l’attenzione si incanalasse attorno al ritiro da Gaza e agli sviluppi geopolitici connessi? Chi li intervisterebbe più sui grandi giornali, alle televisioni e alle radio occidentali? Chi si preoccuperebbe più di tanto di tradurre i loro libri, di recensirli e diffonderli? Ecco allora che, di fronte al rischio dell’assoluta irrilevanza, questi personaggi, invece di stimolare il processo iniziato nella direzione da essi ritenuta opportuna, lo ostacolano di fatto, si agitano istericamente e chiedono aiuto ai loro confratelli accademici di ogni continente, cogliendo l’occasione del riemergere della campagna di boicottaggio. È da augurarsi soltanto che il corso degli eventi sanzioni nei fatti questa irrilevanza e dia loro l’opportunità di esibire le loro qualità accademiche, scientifiche o letterarie e non soltanto la capacità di esibirsi sulle tribune mediatiche.
Il Foglio – 5.5.2005
Appello contro l’antisemitismo
Denunciamo il grave episodio di boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane, promosso da un’associazione accademica britannica, ultimo di una serie di episodi di intolleranza che si sono verificati in diverse università europee, fra cui l’Italia. Esprimiamo la nostra solidarietà piena ai colleghi respinti per il solo fatto d’essere israeliani. Facciamo appello alla comunità scientifica perché respinga con forza ogni forma d’antisemitismo vecchio e nuovo.
Le origini politiche e sociali dell’antisemitismo classico sono state largamente studiate. Diversa è la situazione di fronte a un nuovo antisemitismo, che si alimenta della tragedia mediorientale e israelo-palestinese, che ha come sfondo un’ostilità irriducibile nei confronti degli ebrei come stato e nazione.
Non si discute la libera critica delle scelte dei governi dello Stato d’Israele. Tale premessa è necessaria per evitare fraintendimenti. Ad essere in discussione è la forma che spesso assume la critica nei confronti dello Stato d’Israele, i diversi pesi e misure utilizzati per argomentarla, i luoghi comuni che animano la scena del discorso, il gioco perverso dei simboli, con le “vittime” che si trasformano in “carnefici”. Per non parlare della falsificazione dei fatti, la demonizzazione di una parte rispetto l’altra, quando invece le parti avrebbero bisogno di essere aiutate a riscoprire la comune tragedia, attraverso la ricerca del dialogo per una soluzione pacifica e politica del conflitto.
Negli anni della guerra fredda il conflitto arabo israeliano ha assunto il carattere di una metafora di scontro tra occidente e comunismo, democrazia e totalitarismo, imperialismo e antimperialismo, colonialismo e anticolonialismo. Il conflitto rischia oggi di essere avvolto nella spirale di uno scontro radicale d’identità e di simboli religiosi, con conseguenze devastanti per l’intero bacino Mediterraneo.
Nel rifiuto di Israele, l’antisemitismo arabo e islamico proietta le angosce di un futuro incerto. Dalla tragedia del conflitto mediorientale si esce con una soluzione politica fondata sul riconoscimento dei rispettivi diritti, riparando i torti, ridando voce alla speranza di una riconciliazione, rifiutando la deriva dell’antisemitismo.
Luzzatto Amos, Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Meghnagi David, Università Roma Tre
Reazioni alla pubblicazione (28-4) del testo di Scalise sull’antisemitismo in Italia
Cara Morashà,
lo so che è perfettamente inutile, come sarebbe inutile chiedere al toro di non infuriarsi quando vede un drappo rosso.
Però te lo dico lo stesso: il brano di Scalise, certamente condivisibile per ciò che riguarda la denuncia di fatti gravissimi e di tesi che esprimono un disgustoso odio anti-israeliano e/o anti-ebraico, ha il difetto di scadere in un’operazione propagandistica anche abbastanza maldestra.
L’operazione consiste nella identificazione della sinistra italiana con le posizioni oltranziste che sono presenti al suo interno, ma che ne costituiscono una parte minoritaria, rumorosa e visibile ma obiettivamente marginale.
L’autore dà conto delle posizioni di Occhetto e di D’Alema (dimenticandosi di Fassino, Prodi, Rutelli e mille altri), ma trattandole come se fossero isolate ed irrilevanti, mentre considera rappresentative della sinistra che conta le bestialità fatte o dette dal formidabile partito marxista-leninista italiano, dai manipoli degli squadristi rossi di Pisa, da gruppi di “pacifisti bendati” nelle manifestazioni …
Insomma, nell’affresco i massimi vertici del maggiore partito della sinistra italiana sembrano dei passanti, mentre gli epigoni di Casarini diventano “la sinistra”.
Verrebbe voglia di rispondere come Totò: ma mi faccia il piacere !
Poiché Scalise si dedica anche ad un velocissimo excursus storico, con un minimo di obiettività avrebbe dovuto segnalare un dato di fatto incontestabile e cioè che la situazione è nettamente cambiata in meglio: basti pensare che nella “prima repubblica” tutti i maggiori partiti della sinistra (compreso, ahimé, il mio Psi) erano decisamente anti-israeliani, mentre oggi almeno l’80 % di quello schieramento (Ds, Margherita, Sdi ecc.) esprime posizioni incomparabilmente più equilibrate.
A Scalise e a Morashà non basta ed hanno ragione: non basta neppure a me (sono tra i promotori della Sinistra per Israele). Però non è intelligente non tenerne conto e non è neppure utile per la causa di Israele continuare ad indicare “la sinistra” tout court come il nemico, adattandosi alle esigenze ed allo stile inconfondibile della pura e semplice propaganda berlusconiana.
Cordiali saluti e auguri di buon lavoro.
Luciano Belli Paci
Buongiorno! In veste di caporedattore vi posso umilmente ricordare che il nostro settimanale Diario, che indubbiamente è un settimanale di sinistra doc, pubblicò diversi mesi fa la storia di una coppia palestinese gay costretta a fuggire da Gaza e tenacemente aiutata da organizzazioni (sempre gay, gli stessi gay ebrei che non piacciono a rav Somekh, per intenderci) israeliane?
Ah, se non leggeste solo il Foglio vi accorgereste che la realtà è meno manichea…
Marina Morpurgo