L’intervento del presidente di Lev Chadash sul dibattito su riformati e Comunità italiane
Ugo Volli
Caro Piazza, come presidente della più vecchia e maggiore sinagoga riformata italiana, Lev Chadash di Milano, sento il dovere di intervenire nel dibattito che avet aperto con Claudio Canarutto. Non voglio entrare in grandi temi storici, filosofici e teologici, che meritano maggiore pacatezza e tranquillità, ma solo in quella che tu chiami “noioso problema istituzionale”.
Tu sembri innanzitutto suggerire che l’Ebraismo riformato non sia “un altro tipo di concepire la comunità, ma tout court un’altra religione”. Questo non è sostenibile. Non solo perché gli atti che compiamo, i gesti che facciamo, le parole che diciamo durante le nostre tefillot sono sostanzialmente gli stessi di tutto l’ebraismo, con differenze più di minhag che di halakha. Non solo perché i nazisti non hanno fatto distinzione ammazzando allo stesso modo ebrei chassidici e riformati, oltre che laici e quant’altro. Ma soprattutto perché non fa distinzione lo Stato di Israele, che ci classifica tutti come ebrei e come ebrei consente l’alyà ai gherim reform (ci sono stati alcuni casi anche di nostri iscritti). E infine perché chi di noi come me viene da famiglie ebraiche continua a essere iscritto alla sua comunità, a pagare le tasse e a votare, a essere contato nel minyan anche da rabbini perfettamente ortodossi e ben consapevoli della nostra attività in Lev Chadash. Se l’Ebrasmo riformato fosse un’altra religione, aderirvi per un ebreo vorrebbe dire abiurare, dover uscire dalla comunità, non aver diritto alla cittadinanza israeliana ecc.; di fatto nessuno ha mai sostenuto questo, nessuno ha mai messo in dubbio il mio ebraismo. Vorrei aggiungere che sul piano dottrinale noi siamo molto più vicini al mainstream ortodosso di quelli che credono che sia arrivato il Mashiah, con tutte le conseguenze che questo comporta.
In definitiva l’Ucei, che in base all’intesa con lo Stato rappresenta tutti gli ebrei italiani, ortodossi e rifomati, laici e messianisti, non può non porsi il problema dell’esistenza delle varie organizzazioni di ebraismo modernista. Anche perché non sono dei fenomeni locali o bizzarri. La World Union of Progressive Judaism, cui appartiene Lev Chadash, rappresenta oltre due milioni di fedeli ed è di gran lunga l’organizzazione religiosa ebraica più diffusa nel mondo, cui vanno aggiunti i Massortì, i Ricostruzionisti e le altre forme non tradizionali di pratica ebraica. Tutti quanti, ortodossi o meno, dobbiamo poi fare i conti con quella maggioranza del popolo ebraico che non ha interessi religiosi e si presenta in sinagoga solo per ricordare i propri morti, per sposarsi (magari obbligata dalla legge, come in Israele), ma sostanzialmente è atea, agnostica o indifferente. Da Freud ad Einstein, molti dei più illustri ebrei del Novecento appartengono a quest’ultima categoria, e così i padri fondatori dello Stato di Israele. Il fatto è che l’ebraismo è popolo, prima che religione. E al nostro popolo si appartiene condividendo il suo destino storico, che si compiano o no scrupolosamente le mitzvot.
Sul piano internazionale non è vero, come affermi, che non vi siano istituzioni comuni. In Francia e Germania riformati e ortodossi convivono nelle istituzioni comunitarie (tipo Alleance Israelite); il Bené Berit è prevalentemente reform, la European Region della Word Union of Progressive Judaism è membro dell’European Jewish Congress; organizzazioni come Maccabi e Hashomer Hatzair mescolano le diverse forme di ebraismo. Potrei continuare molto a lungo, ma non voglio annoiare nessuno. In Italia poi c’è il problema della rappresentanza di tutto l’ebraismo che l’Intesa attribuisce all’Ucei. La quale ne è ben consapevole, come mostra la mozione sui movimenti non ortodossi approvata all’ultimo congresso e anche l’istituzione di una commissione di studio sul tema, decisa quest’estate dal Consiglio e composta fra l’altro da illustri rabbanim. La minaccia di abbandono che tu agiti un po’ scompostamente non ha senso, sarebbe un gesto insensato sul piano politico, economico e rappresentativo.
In breve: o l’ebraismo italiano rinuncia all’Intesa e ciascuno va sulla sua strada, e magari si riformula l’organizzazione ebraica su un modello anglosassone, secondo cui non si appartiene a una congregazione e non a una comunità territoriale (ma siamo capaci di affrontarne le conseguenze, anche solo in termini economici? Lev Chadash vive senza una lira di denaro pubblico, senza otto per mille o altro; quante comunità sarebbero capaci di fare altrettanto?). Oppure dovrà prendere atto in un modo o nell’altro di noi, includerci come individui o come comunità. Anche perché noi costituiamo una rete di protezione e di raccolta per l’ebraismo. Di fatto, piaccia o meno, i giovani fanno matrimoni misti e le comunità non sono attrezzate per accogliere i loro figli. Questo è emerso anche al recente moked sul ghiur. Potrà essere vero che essi non si sacrificano abbastanza, ma di fatto la maggior parte di queste coppie percepisce di essere respinte dalle comunità. Noi abbiamo scelto dall’inizio di non celebrare matrimoni misti, ma lavoriamo sodo per recuperare i loro figli (e anche padri e madri che, respinti, facilmente si allontanano dall’ebraismo). I nostri ghiurim sono seri, implicano studio e un percorso di preparazione piuttosto lungo. Ma si basano sull’accoglienza, sulla gioia e l’orgoglio di recuperare delle scintille di ebraismo; non sulla diffidenza e il dubbio. Non chiediamo la conversione delle madri, non guardiamo con sospetto le famiglie, cerchiamo di trasmettere la bellezza dell’ebraismo in cui crediamo.
Se l’ebraismo italiano è in crisi, questa non è demografica, come si dice, ma di adesione, di capacità di conservare i propri membri: noi siamo la forza che cerca di resistere, non rinunciando alla nostra identità ebraica, ma sforzandoci di renderla accogliente e cercando nella nostra tradizione quelle posizioni che possono permetterci di rispondere alle domande della modernità, per esempio sulla parità di diritti delle donne. Queste posizioni nella storia della halakha ci sono, l’ebraismo italiano ne ospitava alcune fino a un paio di decenni fa (per esempio sul ghiur dei katanim, autorizzato dallo Shulkhan Arukh e oggi sostanzialmente abbandonato per eccesso di ricore). Noi ci sentiamo eredi di questa bella e aperta tradizione dell’ebraismo italiano e rivendichiamo oggi il nostro posto, perché non siamo né un elemento disgregatore né una causa di assimilazione, ma un suo possibile rimedio, un elemento dinamico e responsabile di quella realtà unitaria che è l’ebraismo italiano.
Un cordiale shalom
Ugo Volli
Presidente di Lev Chadash – Milano