Paolo Salom
Ho letto con attenzione il botta e risposta tra Giorgio Israel e Luciano Belli Paci scaturito da un’intervista a Haaretz data da Gunther Grass. Ora, lasciando da parte per un attimo lo scrittore tedesco che – a me almeno – è parso tendenzioso piuttosto che “ambiguo” (non ha nulla di incerto paragonare i morti ebrei nell’Olocausto ai morti tedeschi – quanti soldati? – significa semplicemente voler confondere vittime e carnefici e dunque mondarsi del Male), vale la pena tornare sul punto in questione: la presunta (negata) sacralità, o unicità, della Shoah. Non desidero approfondire la polemica. E nemmeno scansarla dicendo che in entrambe le posizioni si possono trovare punti di verità. Credo invece che l’occasione confermi quanto sia necessario elaborare una visione condivisa di ciò che è stato. Come scrive David Bidussa nel suo saggio Dopo l’ultimo testimone (Einaudi), stiamo per entrare in un’era in cui il passato potrà vivere soltanto nei racconti registrati di persone appartenenti a un altro tempo, ormai invisibili. E la natura di questa memoria (pensiamo al vaticinio di Primo Levi) è tutt’altro che univoca, universalmente accettata, sicura.
Così stanno le cose, è la conseguenza della condizione umana (persino lo sbarco sulla Luna o addirittura l’11 Settembre sono messi in discussione, per quanto in modo risibile e però accettato da una parte consistente di “opinione pubblica”). Dunque come tramandare da qui in avanti la Shoah ha un’importanza fondamentale, non solo per gli ebrei. Trovo che la categoria di unicum, riferita al massacro ideato, organizzato e attuato contro gli ebrei possa avere una sua validità. Non tanto per l’episodio in sé (è vero che anche Stalin seppe fare altrettanto) ma perché solo gli ebrei, nei secoli di presenza in Europa (lasciamo da parte il Medio Oriente), hanno dovuto affrontare ripetuti massacri e minacce di sterminio che scaturivano dall’humus culturale della cristianità giudeofobica. In questo senso, per quanto tragico, è davvero unico il destino del popolo ebraico. Nella Storia non si conoscono altri momenti analoghi: diversi popoli hanno conosciuto una fine violenta. Mai totale, peraltro, e tuttavia le civiltà precolombiane sono oggi materia per gli archeologi, così come gli indiani americani lo sono per gli antropologi e gli assistenti sociali.
Noi no, gli ebrei no. E tuttavia quel macigno che chiamiamo Shoah, o Olocausto, o sterminio nazista, è lì, nel nostro ieri. Come dobbiamo ricordarlo? A noi stessi e, soprattutto, agli altri? E’ vero, caro Israel, parlarne in società suscita fastidio, spesso, ma anche solidarietà, in pochi casi: ma qui sono io che lancio un allarme. Perché, perdonate la digressione, questa solidarietà postuma si iscrive nella dimensione degli “ebrei accettati solo quando sono vittime”. E di nuovo siamo al centro della nostra necessità: dove mettiamo quel fardello storico, come dobbiamo raccontarlo ai nostri figli e ai figli degli altri? Come possiamo sganciarci dall’incubo di un evento che, forse, vediamo unico perché desideriamo che non si ripeta quando tutto ci dice “è stato perciò potrà essere di nuovo”? Non certo sacralizzandolo, ché la morte di sei milioni di esseri umani non ha nulla di religioso. Ma nemmeno riducendolo a un avvenimento simile ad altri. Perché così non è. La Shoah è la Shoah. Non dobbiamo avere paura di raccontarla per quello che è stata: il tentativo – fallito? – di annientare la testimonianza vivente della pluralità della Storia, dell’assenza di un Destino, delle infinite scelte che le società si trovano a fare nei secoli. Non possiamo dimenticare sei milioni di anime che ora possono abitare soltanto nei nostri ricordi, come in quelli di chi, perdonate il bisticcio, sceglierà di ricordare.
E’ il momento di guardare avanti, sì, però sapendo quello che c’è dietro, sempre più lontano.