Giacomo Kahn
Il funerale dei tre ragazzi uccisi in Cisgiordania – Eyal Yifrah (19 anni), Gilad Shaar (16) e Naftali Fraenkel (16) – ha mostrato al mondo intero un’immagine del popolo d’Israele affranto, piangente, ma saldo e composto nel suo dolore. Nessun grido, nessuna voglia di vendetta, se non la legittima richiesta di giustizia, di vedere catturati e condannati gli esecutori di questo brutale omicidio. “Loro – ha detto il premier Netanyahu, nell’elogio funebre – celebrano la morte, noi la vita. Loro inneggiano alla crudelta’, noi alla pietà”. Una crudeltà non di questi giorni. Da troppo tempo il fanatismo islamico e il terrorismo palestinese urla: “Itbach al-yahud”, a morte gli ebrei.
Ad Hebron, la città che ospita la Grotta di Macpelà, acquistata da Abramo ed in cui sono seppelliti i Patriarchi – il luogo che forse più della stessa Gerusalemme costituisce la prova del legame tra la terra d’Israele e il popolo ebraico – sono stati assassinati negli ultimi venti anni oltre quaranta ebrei: studenti come Erez Shmuel; padri e figli come Mordechai e Shalom Lapid; gherim (convertiti all’ebraismo) come Rafael Yariri e Margalit Shohat; giovani sposi come Effie e Yaron Ungar; rabbini come Shlomo Ra’anan (nipote del grande rabbino rav Kook) pugnalato al cuore e Elnatan Horowitz; o come la piccola Shalhevet Pass, 10 mesi, uccisa da un cecchino; famiglie intere sterminate come Yosef Dickstein, sua moglie Hannah e la piccola Shuv’el (nove anni).
Poi vi sono le famiglie trucidate nelle loro case: come la famiglia Shabo (la madre Rachel e i figli Avishai, Zvika e Neria), uccisi a Karnei Shomron nel 2001; come la famiglia Gavish (David, Rachel, il figlio Avraham e il nonno Yitzhak), trucidati il 28 marzo 2002 a Elon Moreh; come la famiglia Fogel (Udi, Ruth, Yoav 11 anni, Elad 4 anni, Hadas 3 mesi) sgozzata nel sonno ad Itamar (marzo 2011).
Vi sono i giovani massacrati: come Kobi e Yossi, 16 anni, immobilizzati e lapidati nel 2002 a Tekoa, nel deserto della Giudea; il ragazzino Eliyhau Asheri, rapito mentre faceva l’autostop ed ucciso con un colpo alla testa; Shlomo Nativ (13 anni) massacrato a colpi d’ascia; Yehuda Shoham (cinque mesi), ucciso in macchina sulla strada per Shiloh; Danielle Shefi, cinque anni, ucciso in casa ad Adora; Shaked Avraham, sette mesi, ucciso a Negohot; Noam Apter ucciso a Shiloh; e gli otto studenti (Avraham David Moses, Ro’i Roth, Neria Cohen, Yonatan Eldar, Yochai Lifshitz, Segev Peniel Avichail, Yonadav Hirscheld, Doron Meherete) trucidati nel marzo 2008 nella yeshivah Merkaz Harav di Gerusalemme.
Vi sono gli adulti assassinati lungo le strade: Sara Norman, uccisa mentre andava a Gush Etzion (29 maggio 2001); Avital Wolanski, uccisa lungo la strada per Eli; Yehudit Cohen, Sharon Ben-Shalom, il rabbino Hillel Lieberman, Zvi Goldstein; o Tali Hutel (34 anni, incinta) assassinata nella sua auto a Gush Katif (2 maggio 2004), insieme alle sue figlie Hila (11 anni), Hadar (9 anni), Roni (7 anni) e Merav (2 anni).
Tutte queste persone sono state assassinate (insieme alle altre centinaia di vittime del terrorismo suicida palestinese che ha insanguinato le strade, i bar, i ristoranti di Israele) a prescindere da dove avessero scelto di abitare, se al di qua o al di là della Linea Verde, se nelle città o negli insediamenti. Non è importante. Il terrorismo islamista mira alla totalità del territorio israeliano, non fa differenze: Tel Aviv è come Itamar; Haifa è come Tekoa.
Davanti alla violenza brutale e disumana che si accanisce sui ragazzi – fatta per annichilire e abbattere il morale d’Israele – il popolo ebraico trova una solo risposta: Ani lo azuz mi po`. Io non andrò via da quì. Non c’è altro posto, non c’è’ altro luogo dove andare, dove gli ebrei possano realizzare le proprie aspettative, svolgere la propria missione, siano essi religiosi o non osservanti.
Ani lo azuz mi po`, è una promessa solenne che non impegna però solo gli israeliani. E’ una dichiarazione che coinvolge anche gli ebrei della diaspora, il cui destino è legato al destino di Israele. D’altra parte il terrorismo islamista non fa differenze: obiettivi sono i bambini della scuola ebraica Tolosa, i visitatori del Museo ebraico di Bruxelles, i turisti israeliani di Burgas; gli studenti delle yeshivot o i fedeli che escono da una sinagoga.
Davanti a tanto sangue, alla capacità di sopportazione (quasi viene da dire al martirio) del popolo ebraico, le preghiere per la pace – invocate insieme – rischiano oggi di apparire come una mera esercitazione alla speranza. Quella giornata speciale nei giardini vaticani verrà consegnata alla storia – almeno per ora – non per il miracolo che tutti attendevamo, ma per l’ipocrisia del presidene palestinese Abu Mazen che da un lato invoca un’accordo con Israele, ma dall’altro governa insieme ad Hamas che inneggia all’uccisione e al rapimento dei civili israeliani. Da Eilat a Rosh hanikrà, da Herzlya a Rosch ha Ajin: Ani lo azuz mi po`.
Pubblicato su ‘Shalom’ luglio 2014