Riflessioni sulle virtù e i limiti del rinnovato tradizionalismo israeliano, capace di cambiare non solo la società, ma anche la tradizione
Rav Hayim Navon – Makor Rishon – 1.12.2025
Il 24 di Tishrei 5784, 9 ottobre 2023, il giornalista Roi Sharon ha documento i combattenti del battaglione 12 di Golani che cantavano “canti di sfida”. Nel giorno del massacro, Golani perse 73 combattenti; fu il giorno più nero nella lunga storia della gloriosa brigata. Fu impressionante ed incoraggiante vedere i combattenti riunirsi in cerchio due giorni dopo la tragedia, e gridare come loro abitudine: “Chi è pazzo? Io sono pazzo!”. Mi entusiasmai per loro e stavo per passare oltre, al video successivo. Ma poi vidi sullo schermo come il canto si affievoliva, e uno dei Golanchik iniziava a gridare dal centro del cerchio: “Ivdu” – e tutti gridavano dopo di lui: “Ivdu!“. “Et Hashem” – “Et Hashem!“. “Besimchà” – “Besimchà!”. E poi tutti insieme, un’intera compagnia in lutto danzava e gridava: “Ivdu et Hashem besimchà, ivdu et Hashem besimchà!” (Servite il Signore con gioia, servite il Signore con gioia!)
Non sapevo come decifrare questa scena sconvolgente. Non avevamo soldati così dai tempi del re Davide. Le storie e i video continuarono ad affluire nei giorni seguenti: migliaia di soldati non religiosi chiedevano di essere equipaggiati con tzitzit militari prima di entrare a Gaza; ragazze laiche separavano la challà e si impegnavano a osservare lo Shabbat; battaglione dopo battaglione marciavano verso Gaza con il suono dello shofar e l’accettazione del giogo del Regno dei Cieli. Nei mesi successivi iniziammo a sentire anche delle manifestazioni di fede degli ostaggi mentre erano in cattività – e grazie a Dio, anche al loro ritorno.
Sarebbe stato troppo facile classificare questi fenomeni sotto il proverbio inglese “non ci sono atei nelle trincee“, e presentarli come una moda temporanea causata dal combattimento. Ma la “tradizionalizzazione” della società israeliana continua una tendenza marcata iniziata molto prima del massacro, e non si sta affievolendo nemmeno nelle fasi finali della guerra. Come canta Ben Tzur, questa è “una generazione di anime assetate“. È interessante che il ritorno alla tradizione sia già apparso nelle sue fasi iniziali nel mondo musicale israeliano, ed è particolarmente evidente ancora oggi. Non si può aprire una radio oggi senza sentire canti che esprimono fede. Nei giorni in cui viene scritto questo saggio, il successo maggiore su TikTok israeliano è la bella canzone di Kfir Tsafrir “Be’ezrat Hashem”, una canzone d’amore religiosa per lo Stato d’Israele – e torneremo sulla connessione semplice che esprime tra il Dio d’Israele e lo Stato d’Israele. In ogni caso, questa non era la situazione nel campo musicale nella mia infanzia, e questa non è la situazione oggi in nessun altro paese occidentale.
Gli Stati Uniti sono considerati il paese più religioso dell’Occidente, eccetto Israele, ma nel XXI secolo la religiosità degli americani sta diminuendo. Secondo una ricerca dell’istituto PEW, nel 2007 solo il 16% degli americani si definiva senza religione, mentre nel 2021 la percentuale è salita al 29%. Secondo una ricerca del Wall Street Journal, nel 1998 il 62% dei residenti degli USA dichiarava che la religione era molto importante per loro, ma nel 2023 solo il 39% diceva così, e tra i giovani la percentuale è ancora molto più bassa. Ci sono ricercatori che identificano germogli di rinascita religiosa tra la Generazione Z in America negli ultimi uno-due anni, e Charlie Kirk ha amplificato questa ondata, ma è troppo presto per dichiarare che si tratta di un processo significativo e sostenibile. Per ora, molte delle chiese gigantesche degli Stati Uniti sono ancora vuote. Mentre i giovani israeliani sfidano i loro presidi laici chiedendo di mettere i tefillin a scuola, è difficile trovare l’equivalente americano di questo fenomeno.
Non solo pietre rotolanti
Il processo unico di tradizionalizzazione si aggiunge ad un altro fatto eccezionale riguardo agli ebrei in Israele: questa è l’unica società occidentale che ha bambini – infatti, sempre più bambini. Fino all’inizio del XXI secolo, i processi demografici in Israele erano simili, più o meno, ai processi in tutto l’Occidente. Circa un quarto di secolo fa, la demografia israeliana si è separata dalla demografia europea e americana, e da allora si sono allontanate sempre più. Quando abbiamo viaggiato in Europa alcuni anni fa, le persone si fermavano e chiedevano di farsi fotografare con noi, perché non avevano mai visto così tanti bambini in un unico posto. Eravamo due famiglie con quattro figli ciascuna, una composizione che in Israele è lontana dall’impressionare qualcuno; in Europa eravamo una sensazione. I demografi prevedono costantemente che la natalità in Israele sta per diminuire, perché questo è ciò che sanno fare: prevedere un allineamento con le tendenze globali. Nel frattempo non sembra che abbiano ragione.
È difficile trovare una spiegazione razionale per questi due processi unici. Pensatori conservatori nel mondo più ampio citano Israele come esempio del fatto che in una società tradizionale ci sono famiglie sane e molti bambini, e anche come esempio del fatto che in una società familiare c’è fede religiosa e simpatia per la tradizione. Entrambe queste spiegazioni sono abbastanza convincenti, ma la combinazione di entrambe crea un argomento completamente circolare: Israele è familiare perché è tradizionale, e tradizionale perché è familiare – e non è chiaro quale sia la scintilla che ha avviato questo circolo virtuoso.
La teoria più convincente riguardo al crollo demografico dell’Occidente è chiamata “la seconda transizione demografica”. Questa è una teoria complessa che è riuscita a prevedere il calo continuo che vediamo nella natalità, e l’ha collegata anche a fattori ideologici: chi assorbe una visione liberale-progressista tende a legarsi meno alla famiglia e a portare al mondo meno bambini. Questa teoria ha ricevuto critiche severe, perché implicava che una società molto laica e molto liberale non è sostenibile: semplicemente non avrà abbastanza bambini per continuare la sua esistenza nelle generazioni future. Nonostante le critiche, la realtà rafforza molto queste conclusioni.
Come detto, questa analisi non risolve l’enigma dell’unicità israeliana. Probabilmente è corretto dire che Israele è meno laica di altri paesi occidentali, e probabilmente per questo ha anche più bambini. Ma perché lo Stato d’Israele diventa sempre meno laico? Cosa lo rende così eccezionale? Alcuni dicono: perché è coinvolto in un conflitto nazionale continuo. Ma i nostri rivali in questo conflitto, le varie società musulmane, non sono influenzate da esso nello stesso modo. L’Iran, per esempio, soffre di un forte calo nella natalità, e apparentemente anche nella fede religiosa dei giovani. Perché proprio in Israele il conflitto nazionale si traduce in forza di fede e forza familiare?
Dopo che le spiegazioni sociologiche crollano, tendo a cercare spiegazioni nel campo dello spirito. Mistici e loro seguaci potrebbero cercare di formulare in questo contesto teorie spirituali più dettagliate, e forse riusciranno a illuminare i nostri occhi. Per ora mi accontento dell’intuizione che quando il popolo d’Israele ritorna alla Terra d’Israele – scatta qualcosa tra i due elementi. Mi sembra che stiamo vivendo le benedette onde d’urto del ritorno degli esiliati.
Questa analisi parziale può illuminare il contrasto tra ciò che accade nel resto dell’Occidente e ciò che accade da noi. Se prendiamo come punto di partenza arbitrario gli anni ’60, il simbolo culturale più forte era la “pietra rotolante”. Questa immagine divenne il nome di una band di grande successo, di una rivista musicale leggendaria e anche di una meravigliosa canzone cantata da Bob Dylan. Tutti questi sfidavano un proverbio comune di origine latina: “Su una pietra rotolante non cresce muschio“. Il significato originale dell’espressione era una condanna per una persona senza radici, senza famiglia e comunità, che rotola da un posto all’altro e da un’occupazione all’altra. I “figli dei fiori” trasformarono questa immagine in un grido di battaglia: noi siamo pietre rotolanti, non legati a nulla e non radicati in nessun contesto – e così è meglio vivere.
Questo individualismo estremo, alienato dalla tradizione, dalla famiglia e dalla comunità, è diventato un’assunzione fondamentale della cultura occidentale. Il fatto è che è molto difficile mantenere questa illusione nello Stato d’Israele degli ultimi decenni. Chi vede il popolo d’Israele tornare alla sua terra, chi legge i versetti della Bibbia e vede il loro compimento – non potrà quasi immaginare di essere una “pietra rotolante”. Semplicemente, la situazione storica costringe gli ebrei in Israele a riconoscere che fanno parte di qualcosa più grande di loro. L’israeliano che partecipa al giuramento di suo figlio nell’esercito israeliano al Muro Occidentale, o che sta lì la sera di Yom Kippur con altri 100.000 israeliani e prega le Selichot, ha molta difficoltà a vedersi come una pietra rotolante, solitaria e autonoma. Si può ipotizzare che questo sia almeno parte di ciò che ci rende più familiari e più tradizionali.
Eccellente considerando l’alternativa
Fin qui le lodi del rinnovato tradizionalismo israeliano, e fin qui sull’eccitazione giustificata che suscita in noi. Ma a questo punto voglio aggiungere un’affermazione: la rinnovata tradizionalizzazione della società israeliana cambia non solo la società, ma anche la tradizione. E questo cambiamento ha anche un certo prezzo spirituale.
Molti educatori nell’educazione religiosa si lamentano negli ultimi anni di una tendenza dei loro studenti e studentesse a sminuire l’osservanza dei precetti. Pochissimi diplomati dell’educazione religiosa diventano atei; moltissimi di loro si trovano sul continuum tradizionalista. Il fatto è che questo è l’altro lato della medaglia del processo di rafforzamento della tradizione nella società israeliana – e forse addirittura lo stesso lato.
Se c’era un mainstream israeliano trent’anni fa, era molto laico, alienato dalla religione e in larga misura anche dalla nazione, e quindi molto meno seducente per i nostri allievi. In quei giorni, relativamente pochi diplomati delle yeshivot e degli ulpan volevano essere eretici tel-aviviani che votavano per Meretz o per il Partito Laburista. Il mainstream israeliano si è consolidato da allora in un posto completamente diverso, e molti dei nostri studenti sentono oggi che possono essere israeliani medi che ammirano il Beitar Yerushalàyim, Bibi e Dio, senza alienarsi da tutti i valori assorbiti in casa del padre, e d’altra parte – senza essere identificati con un settore minoritario religioso eccezionale e prominente. Non buttano via la kippà, ma vi ricamano sopra il simbolo di Golani e la trasferiscono in tasca.
Questa analisi dà una proporzione diversa ai processi che preoccupano noi educatori. Richiediamo e ci aspettiamo che i nostri allievi siano più devoti alla Torà e ai precetti, e così deve essere, ma a livello macro c’è un certo conforto in questo riconoscimento: nella comprensione che le nostre difficoltà educative sono un sottoprodotto di un processo grande e positivo che sta attraversando il popolo d’Israele. E tuttavia, le difficoltà rimangono – e non caratterizzano solo i giovani, ma anche noi, i loro genitori e insegnanti adulti.
A livello personale, possiamo e dobbiamo imparare molto dal processo spirituale impressionante che si svolge davanti ai nostri occhi, dall’entusiasmo che lo accompagna e dall’amore di Dio che esprime. Ma a livello ideologico è necessario anche notare delicatamente ciò che manca in questo nuovo aggregato. Chiarisco ancora, che il mio giudizio complessivo sul nuovo tradizionalismo è molto positivo. Quando Mark Twain era vecchio gli chiesero una volta come stava, e il vecchio scrittore rispose: “Eccellente, considerando l’alternativa”. Questo è anche il mio sentimento riguardo al miracolo del nuovo tradizionalismo, a cui tra poco proporrò un altro nome. E tuttavia, dopo questa affermazione necessaria, bisogna a volte ignorare l’alternativa avvizzita e interrogarsu sui limiti di questo “eccellente”; non potrebbe essere ancora più eccellente.
Perché sono ebreo
Il concetto di “rinnovato tradizionalismo” è vicino ad essere un ossimoro, e tuttavia lo userò per ora, finché non proverò a proporre un sostituto concettuale. Come al solito, questa ondata include diverse sfumature molto diverse tra loro. Include, prima di tutto, un’aggiunta di forza e fiducia in sé ai tradizionalismi di vecchia data, che non sono mai scomparsi dalla società israeliana, e che hanno contribuito alla nostra società per lungo tempo un contributo unico ed eccezionale. Ma molti dei nuovi tradizionalismi sono diversi in vari aspetti dal tradizionalismo medio di una volta. Di solito non sono legati a una sinagoga specifica, conducono vite personali abbastanza liberali, e ignorano certi precetti per i quali il tradizionalista di un tempo avrebbe dato la vita.
Questo cambiamento deriva in parte da un’altra corrente che influenza la nuova tradizionalità: la spiritualità personale, privata. A volte arriva in versione New Age, a volte in versione Breslov – come nella canzone di super-successo “Hashem Yitbarach tamid ohev oti” (Dio benedetto mi ama sempre) – e spesso in versione completamente privata. Quando uno scrittore come Uzi Weil ha dedicato due anni fa un intero capitolo nel suo libro “Succede che una persona nasca in una terra straniera” alla sua esperienza di preghiera, c’era in questo una novità sia da un punto di vista sociale che spirituale. Da un punto di vista sostanziale è difficile chiamare questa tendenza “tradizionalità”, perché non ha un legame stretto con istituzioni tradizionali consolidate. E tuttavia, nel contesto specifico della società israeliana di oggi, questa mossa si aggiunge ad altre sfumature, più tradizionali, del risveglio spirituale in Israele; spesso anche nella stessa persona.
Ma in questo saggio voglio concentrarmi su un’altra, terza sfumatura della nuova tradizionalità in Israele – una sfumatura che ha ha avuto una grande accelerazione a seguito della guerra, ma esisteva decisamente anche prima. Si tratta di un fenomeno spirituale che penetra in profondità anche nel pubblico religioso, e mi sembra anche nei circoli ultra-ortodossi, e quindi non è certo che si possa continuare a parlarne come “tradizionalismo”. In effetti, si tratta di un nuovo stile di ebraismo, che sembra essere diffuso in tutti i settori. Forse si potrebbe chiamarlo “ebraismo nativo“: i nativi della Terra d’Israele pieni di fiducia onorano in modo naturale e semplice il Dio della Terra, che sta alla loro destra. Come canta Eyal Golan: “Il Santo Benedetto veglia su di noi, quindi chi può contro di noi – perché non abbiamo un altro stato”.
Questa identità religiosa è parallela alla dichiarazione del profeta Giona: “Ivri anochi ve’et Hashem Elohei hashamayim ani yaré” (Sono ebreo e temo il Signore Dio del cielo) (Giona 1, 9). Questo versetto descrive un’identità di fede semplice e diretta, che deriva direttamente dall’identità nazionale: poiché sono ebreo temo Dio, perché questo è ciò che fanno gli ebrei. Questa è una frase bellissima, e contiene molta forza spirituale e umana – ma se si comprendono le sue parole letteralmente, non riflette affatto la realtà. Giona dice queste parole mentre si stropiccia gli occhi: solo un momento prima i marinai l’hanno svegliato con forza dal suo sonno profondo – un sonno in cui era sprofondato mentre Dio portava sulla sua nave una terribile tempesta. Chi veramente teme Dio, non va a dormire quando Dio minaccia di affondare la sua nave. L’affermazione “temo Dio” non descrive qui una posizione emotiva specifica, ma una tessera di membro del fan club. Come tutti gli ebrei, dice Giona, è ovvio che sono nella squadra di Dio – quello stesso Dio che in questo momento Giona ha rifiutato di portare la Sua parola, e ha rifiutato persino di rimanere sveglio mentre Dio gli parlava con un grande vento e una grande tempesta. Successivamente Giona si pentì nel ventre del pesce, e lì pronunciò una preghiera sincera e profonda; ma il suo punto di partenza era completamente diverso.
L’ebraismo nativo che Giona formulò all’inizio del suo libro deve anch’esso essere una parte importante della nostra esistenza spirituale. Ma se si isola questo messaggio e lo si vede come il tutto, può intrappolarci in un vicolo cieco spirituale: in uno stile di vita in cui Dio si integra certamente in modo naturale e semplice, ma solo finché è disposto a svolgere bene il ruolo destinatogli al servizio della società israeliana. Se mi perdonate l’esagerazione, a volte mi sembra che Dio sia richiesto qui di agire sulla scala tra consigliere per la sicurezza nazionale e ufficiale capo dell’educazione – e non molto oltre. Si tratta di un fenomeno molto più religioso e molto meno civile di ciò che i sociologi chiamano “religione civile”; e tuttavia, la sua dimensione religiosa non è abbastanza ampia e profonda.
L’ebraismo nativo tende a fondere completamente il Dio d’Israele nella nazionalità ebraico-israeliana. All’inizio della guerra prevaleva il fenomeno di osservanti dello Shabbat dal grembo e dalla nascita che dichiaravano con orgoglio di navigare di Shabbat sui siti di notizie per essere aggiornati su ciò che accade al fronte. Non sto parlando della madre ansiosa per suo figlio combattente, quella che tra un incubo e l’altro in una notte tormentata senza sonno, non ha resistito e ha sbirciato nel telefono. Sto parlando di persone che hanno presentato la loro profanazione dello Shabbat non come una resa perdonabile all’istinto del male, ma come una scelta consapevole e lodevole dell’istinto del bene.
O un altro esempio: in diversi minyanim hanno iniziato a cantare “Hatikvà” alla fine della preghiera di Neilà. Questa è una canzone meravigliosa e importante, ed è chiaro che la sua aggiunta alle preghiere di Yom Kippur è stata fatta con buone intenzioni; dall’idea che una cosa importante ed emozionante va insieme ad una seconda cosa importante ed emozionante. Ma questa combinazione esprime una certa confusione della sensibilità religiosa: non tutte le cose buone vanno insieme. Il Brit Milà (circoncisione) è emozionante e “Kol Nidrei” è emozionante, e tuttavia non inviteremo un chazzan a cantare “Kol Nidrei” durante la cerimonia della Milà. La combinazione di “Hatikvà” con Neilà ha più senso se si presume che la strada verso Dio passi solo attraverso lo stato del popolo d’Israele e le sue istituzioni – ma cosa nelle nostre fonti può giustificare questa supposizione?
Parte di coloro che sono più permissivi sulla questione della conversione traggono la loro posizione da una concezione simile: l’appartenenza al popolo d’Israele passa attraverso lo stato, e non attraverso Torah e precetti. Se così, ogni soldato che ha un padre ebreo e una madre non ebrea è in pratica già ebreo in virtù del suo servizio militare, sia che abbia accettato il giogo dei precetti sia che non l’abbia fatto – e questo nonostante il semplice fatto che nell’IDF ci sono anche soldati drusi.
Negli ultimi anni mi imbatto spesso nell’affermazione che i dettagli della Halakhà sono un fenomeno diasporico, destinato solo a preservare l’unicità ebraica tra i gentili. Mi stupisce sempre sentire questa affermazione da persone intelligenti, perché comporta fingere che i cinque libri della Torah si riducano al libro della Genesi e a metà del libro dell’Esodo, e che delle 63 trattati della Mishnà ci sia arrivato solo il trattato Avot. Il libro del Levitico è molto precedente all’esilio, e trattati come Shabbat e Kelim furono formulati e redatti nella Terra d’Israele, con tutti i dettagli halakhici dettagliati che appaiono in essi. Mi sembra che questa affermazione derivi anch’essa fondamentalmente da un’esperienza di ebraismo nativo, che riduce il nostro incontro con Dio solo all’arena nazionale e statale. Da qui è breve la strada al disprezzo per i dettagli halakhici, che sono il respiro dell’ebraismo in tutta la sua storia. Ma l’ebraismo della Halakhà non è un sostituto diasporico per una nazionalità sana, ma una linea caratteriale fondamentale nella nostra infrastruttura spirituale.
Il Mishkan (Tabernacolo) è menzionato estesamente in tre dei libri della Torah. Nel libro dell’Esodo, il Mishkan è il luogo della Presenza Divina elevata; nel libro del Levitico, il Mishkan è una casa per il servizio halakhico meticoloso; nel libro dei Numeri, il Mishkan è il fulcro attorno al quale si riunisce l’accampamento d’Israele e marcia in guerra. Stiamo cercando oggi di saltare dal libro dell’Esodo al libro dei Numeri, saltiamo con i nostri studenti da un tour emozionante delle Selichot a una presentazione emozionante sulla guerra, rinunciando al Mishkan del Levitico. Il modo in cui Chi ci ha donato la Torah ha organizzato i suoi libri ci insegna che questo non può funzionare.
Definire l’indefinibile
Quando indico questo difetto dell’ebraismo nativo, non c’è nelle mie parole alcuna riserva anemica dalla concezione di “Ki Hashem Eloheikhem haholekh imakhem lehilachem lakhem im oyveikhem lehoshi’a etkhem” (Perché il Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri nemici per salvarvi) (Deuteronomio 20, 4). Questo è un versetto esplicito nella Torà – e come si può avere riserve su di esso? Si può avere riserve solo dall’approccio che lo trasforma nell’unico versetto della Torà. La concezione di Dio come Dio degli eserciti d’Israele è senza dubbio una delle porte del grande palazzo del servizio di Dio – ma questa è solo una porta, e non l’intero palazzo.
I sionisti religiosi si connettono in modo naturale e giustamente a uno stile spirituale che enfatizza il valore religioso dello Stato d’Israele. Ma proprio chi riconosce questo valore religioso e ha studiato così tanto su di esso nel bet midrash, deve chiarire a tutta la società israeliana che questa è solo la punta dell’iceberg della nostra esistenza religiosa; che sotto la superficie dell’acqua si nascondono giacimenti molto più profondi all’infinito di profondità spirituale.
Ho notato che il rinnovato ebraismo nativo non sempre apprezza abbastanza la Halakhà e i suoi dettagli. Ma questa non è tutta la storia – e non è nemmeno l’asse centrale. Accanto ad essa si può trovare l’impoverimento della varietà emotiva del mondo religioso. I Salmi e le preghiere presentano un quadro complesso e delicato della nostra posizione davanti al Creatore del mondo: Lui ama sempre, ma chiede anche sempre. Anche un canto popolare come “Anim Zemirot” dichiara: “E ti videro vecchiaia e gioventù, e i capelli della tua testa nella vecchiaia e nella nerezza. Vecchiaia nel giorno del giudizio e gioventù nel giorno della battaglia, come un uomo di guerre le cui mani sono forti per lui”. A volte sembra che nel nuovo ebraismo nativo non ci siano giorni di giudizio; solo giorni di battaglia.
Sto cercando di definire qui l’indefinibile – la nostra posizione davanti al Creatore del mondo – e quindi sono costretto ancora e ancora a usare esempi. Da molte persone ho sentito dopo il massacro di Simchat Torah che erano arrabbiati con Dio. Non sto parlando di familiari in lutto nei loro giorni di lutto e disperazione, ma di israeliani medi, che hanno preso a cuore – come tutti noi – il terribile disastro e il grande dolore. Una volta mi fischiarono le orecchie quando sentii la frase incredibile: “Che prima Lui chieda scusa a noi!”. Su qualcosa del genere disse Elifaz il Temanita: “Può un mortale essere giusto davanti a Dio?! Può un uomo essere puro davanti al suo Creatore?!” (Giobbe 4, 17). Luigi XIV, il “Re Sole”, disse dopo la sua sconfitta nella battaglia di Malplaquet: “Ha Dio dimenticato tutto ciò che ho fatto per Lui?”. Questa non è la risposta spirituale a cui aspiriamo. Non vengo a giudicare gli arrabbiati, e credo che Dio non mostrerà verso di loro un atteggiamento simmetrico, e non si arrabbierà con loro per la loro rabbia. Mi chiedo solo dove sia scomparsa tutta l’ampia gamma di sentimenti religiosi che i nostri padri hanno descritto. Ho incontrato non poche persone che sono saltate da un abbraccio rilassato con Dio alla rabbia contro Dio, e hanno saltato tutto ciò che sta tra questi due estremi, ovvero i sentimenti che agitarono i nostri padri per generazioni innumerevoli in situazioni simili: timore, colpa, supplica, dipendenza, conforto. Dove sono scomparsi tutti questi?
Si tratta di un processo spirituale di molti anni, che ha molte fonti diverse, ma la guerra l’ha accelerato e focalizzato molto. Un rabbino che amo e stimo scrisse alcuni anni fa una “confessione (viddùi) positiva” da recitare a Yom Kippur. In questa confessione una persona loda le sue virtù e i suoi successi, invece di denunciare i suoi peccati. Pseudo-confessioni di questo tipo diventano virali ogni anno nel mese di Elul, e mi causano grande dolore. È vero che Rav Kook scrisse qualcosa sulla dimensione positiva che può avere la confessione, ma lo scrisse in un’era in cui l’atmosfera dei Giorni Terribili era un’oppressione deprimente senza riserve. Nei giorni in cui era consueto che le persone venissero alla sinagoga la vigilia di Yom Kippur e chiedessero al gabbai di frustarle, Rav Kook doveva aggiungere anche una goccia di incoraggiamento alla miscela spirituale timorosa. Nei nostri giorni, quando la disponibilità a piegarsi davanti a Dio è quasi scomparsa, non togliete da noi l’unico giorno che ci ricorda ancora che non è Dio che lavora per noi, ma noi che lavoriamo per Lui.
Mi sembra che la nostra sicurezza in sé nel campo spirituale sia legata anche al fatto che spesso ci troviamo davanti al nostro Dio non come stranieri e residenti davanti ai loro signori, ma come padroni di casa, come nativi della terra che celebrano con il Dio della terra. E come nel campo della sicurezza, anche nel mondo dello spirito, l’arroganza può generare una concezione distruttiva. Non è così che la Torah ci ha istruito: “Ki li ha’aretz ki gerim vetoshavim atem imadi” (Perché mia è la terra, poiché siete stranieri e residenti presso di Me) (Levitico 25, 23). Non è bene legare troppo strettamente la nostra connessione al Creatore del mondo con la nostra identità come israeliani orgogliosi.
La popolarità dell’ebraismo nativo in Israele rafforza molto la posizione pubblica del sionismo religioso. Non è un caso che molti leader di Israele cerchino scrittori religiosi per i loro discorsi, e non è un caso che scrittori di discorsi non religiosi cerchino a volte di imitarli. I sionisti religiosi si connettono in modo naturale e giustamente a uno stile spirituale che enfatizza il valore religioso dello Stato d’Israele. Ma proprio chi riconosce questo valore religioso, proprio chi ha studiato così tanto su di esso nel bet midrash, deve chiarire a tutta la società israeliana che questa è solo la punta dell’iceberg della nostra esistenza religiosa; che sotto la superficie dell’acqua si nascondono giacimenti molto più profondi all’infinito di profondità spirituale.
Contrariamente alla bugia che Ben-Gurion inserì nella prima frase della Dichiarazione d’Indipendenza, non è nella Terra d’Israele che nacque il popolo ebraico. La Torà si sforza molto di minare la nostra sicurezza in sé, e di chiarirci che non siamo un popolo nativo in questa terra. Ancora e ancora ci ricorda che non abbiamo iniziato nella Terra d’Israele: “Arameo errante era mio padre, e scese in Egitto e vi soggiornò con poca gente” (Deuteronomio 26, 5). Ancora e ancora ci ricorda anche che non siamo garantiti di rimanervi per sempre: “E la terra non vi vomiterà quando la contaminerete, come vomitò la nazione che era prima di voi” (Levitico 18, 28). Una coscienza sabra-nativa si riflette agli occhi della Torà come una minaccia non meno che come un’opportunità: “Quando genererai figli e nipoti e invecchierete nella terra e vi corromperete e farete un’immagine scolpita di qualsiasi forma e farete il male agli occhi del Signore tuo Dio per provocarlo” (Deuteronomio 4, 25).
Tutt’altro che un critico infuriato
Pochi giorni prima del massacro di Simchat Torah ho letto parole scritte da uno dei seguaci del rinnovamento ebraico, che sminuiva l’importanza degli antichi piyutim ashkenaziti delle Selichot che lamentano ancora e ancora massacro, tormenti e sofferenza. “Come è rilevante tutto questo alla nostra esistenza, nell’Israele prospera del 5784?“, si chiedeva lo scrittore. Dopo due anni ho letto dallo stesso individuo auspicare “un nuovo linguaggio religioso a seguito della guerra”, e mi sono ricordato della storia che mio padre di benedetta memoria amava raccontare. Alcuni anni dopo che prosciugarono il lago Hula, si scoprì un forte calo nella qualità dell’acqua nel Kinneret. Le autorità idriche invitarono in Israele una commissione di esperti dall’Italia, affinché raccomandassero come migliorare la situazione. Dopo una lunga ricerca, la commissione presentò una raccomandazione: bisogna creare a nord del Kinneret un piccolo lago, in cui tutto lo sporco nelle acque del Giordano possa depositarsi. I dirigenti israeliani furono perplessi: “Avevamo qui un lago – e l’abbiamo prosciugato”. Questo è ciò che dico a chi cerca oggi un nuovo linguaggio religioso, dopo aver calpestato con disprezzo il linguaggio complesso e delicato che i nostri padri formularono: avevamo qui un lago – e l’avete prosciugato.
Per evitare che la discussione affondi nelle consuete convenzioni, è importante sottolineare che non sto affatto parlando del divario tra la tradizione ashkenazita e quella sefardita. Ho menzionato un esempio dalla sinagoga ashkenazita solo perché è la sinagoga in cui prego di solito. La maggior parte di ciò che è stato scritto e detto sulle differenze tra la tradizione sefardita e quella ashkenazita non è accurato, e di solito non è nemmeno vicino ad esserlo. Un amico di famiglia andò una volta alle Selichot in una sinagoga sefardita, il gabbai gli offrì una tazza di tè con menta, e lui sedette e apprezzò molto con gli altri fedeli i bellissimi canti delle Selichot. E poi il gabbai si avvicinò a lui con grande furore, indicò le sue gambe incrociate del nostro amico e gli gridò: “Come stai seduto? Cos’è qui, un caffè?!”. Il cliché sul piacevole calore sefardita e la gioia ha una certa base nella realtà, ma l’esistenza reale è molto più complessa. Il timore ha sempre avuto un ampio spazio accanto all’amore. Anche l’esistenza spirituale rinnovata che sto cercando di descrivere qui è necessariamente più complessa delle formule in cui sto cercando di comprimerla; ma per ora è molto meno complessa dei modelli spirituali che conoscevamo in passato. Davanti ai nostri occhi sta crescendo un nuovo ebraismo nativo, che ha molta forza e bellezza, ma mi sembra che la sua gamma spirituale sia molto limitata rispetto a qualsiasi tradizione ebraica antica a me nota.
È difficile dire tutto questo senza apparire come un critico infuriato. Chi segue la mia scrittura sa che di fronte all’esplosione di amore per il Creatore del mondo che si rivela in questi giorni nella società israeliana, sono molto più commosso che infuriato. Il punto di vista che ho presentato qui non è altro che una nota a margine di un trattato di entusiasmo giustificato. Poiché non pochi si identificano con l’entusiasmo, e non ho trovato chi formulasse le necessarie riserve ai suoi margini, mi trovo costretto a farlo. Non ho dubbi che stiamo assistendo qui a un evento spirituale grande ed eccezionale; se solo meriteremo di rispondere ad esso nel modo corretto e appropriato, che elevi e promuova ulteriormente questo processo.
La descrizione che ho presentato è necessariamente troppo generale, e quindi necessariamente anche troppo semplicistica. Più di questo: poiché Dio nostro non è un’astrazione teorica, ma un Dio vivente ed esistente, l’incontro con Lui ha sempre effetti inaspettati. Chi inizia a pregare il Dio degli eserciti d’Israele, si troverà spesso nel mezzo della preghiera davanti al vecchio nel giorno del giudizio – e infatti abbiamo visto non pochi fenomeni di questo tipo, apparentemente tra l’altro tra i redenti dalla cattività, sulle loro storie spirituali sconvolgenti. Questo può certamente accadere – purché siamo aperti a questo sviluppo desiderabile, all’approfondimento e all’espansione della vita religiosa, alla comprensione che il nostro incontro con Dio attraverso la vita nazionale è solo un percorso in uno svincolo gigante; che l’ebraismo nativo è un eccellente punto di partenza, ma un punto di arrivo limitato.
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