Il libro di Bemidbàr (Nel deserto) è anche chiamato “homesh hapekudim”, il libro dei censimenti, perché contiene il resoconto del censimento del popolo d’Israele, eseguito per ben due volte: una prima volta dopo l’inaugurazione del Tabernacolo, in pratica solo pochi mesi dopo l’uscita dall’Egitto, e una seconda volta alla fine delle peregrinazioni nel deserto. Sappiamo quanto sia problematico l’uso di fare i censimenti, cosa la Torà proibisce espressamente, tanto che anche quando dobbiamo “contarci” per verificare se c’è o meno un minian non possiamo fare uso dei numeri, ma dobbiamo usare un verso composto da dieci parole. L’opposizione da parte ebraica a questo uso, perdere il proprio nome ed essere paragonati a un numero, è sempre stata molto forte e non è un caso che i nazisti abbiano deciso di incidere un numero su ognuna delle persone deportate e internate nei campi di sterminio o di lavoro.
L’impressione che il numero sia simbolo di potenza è molto forte e una collettività si sente o viene considerata tanto più potente quanto è più numerosa. La polemica sorta nelle nostre Comunità tra i sostenitori del “pochi ma buoni” e di chi vorrebbe includere quante più persone possibile è ben nota: entrambe le posizioni hanno una loro consistenza e il problema se la “qualità” debba essere privilegiata rispetto alla “quantità” è sentito in molte società e in molte strutture, specialmente quelle dedicate alla formazione.
Cosa ha da dirci la parashà di Bemidbar e più in generale la Torà sulle scelte che vengono fatte:
• Innanzi tutto la tribù di Levì viene scelta per svolgere compiti “sacerdotali” , nonostante sia composta da meno della metà dei membri della tribù più piccola;
• Israel viene scelta come ‘Am segullà (popolo tesoro) non perché gli ebrei costituivano un popolo numeroso, ma al contrario: “che l’Eterno ha dimostrato particolare affettoNon è stato perché eravate più numerosi di tutti i popoli per voi e vi ha prescelto: al contrario, fra tutti i popoli voi siete il popolo più esiguo” (Deut. 7: 7): la sfida che implica il raggiungimento della kedushà, santità, non può essere proposta a tutti, ma a un numero limitato di persone.
• Lo stesso concetto viene applicato anche all’interno della stessa tribù di Levi, nella quale i livelli della kedushà vengono attribuiti a un numero sempre minore di persone: ai figli di Aronne, poi ad Aronne, come Gran sacerdote che potrà entrare una sola volta all’anno nel Santo dei santi, il luogo in cui erano conservati l’Arca Santa e le tavole della legge.
E’ interessante notare la terminologia con cui la Torà indica il censimento: “Censite, letteralmente alzate la testa di tutta l’assemblea dei figli di Israel secondo le loro famiglie secondo i loro casati, con il numero dei nomi ogni maschio secondo le loro teste”. La Torà parla del censimento rivolto a ogni persona con il suo nome, cosa che trova eco nel Talmud: Perciò è stato creato un solo uomo, per insegnarti che chiunque distrugge una sola persona di Israel, il testo lo considera come se avesse distrutto un mondo intero; e chiunque mantiene in vita una sola persona di Israel, il testo lo considera come se avesse mantenuto in vita un mondo intero (Sanhedrin 37a). La Torà non sottolinea tanto il numero da cui è composto il popolo di Israele (seicentomila), ma il nome di ogni singola famiglia: nel collettivo c’è ciò che si trova nella singola persona e singola famiglia.
La domanda se sia preferibile investire nella quantità o nella qualità si trova, per esempio, anche nell’agricoltura: è preferibile una agricoltura intensiva o biologica di nicchia? L’aumento della popolazione del pianeta sembra non lasciare alternative, ma non è un caso che sorgano poi progetti specifici per un’agricoltura biologica che, per forza di cose, può raggiungere solo una parte limitata della popolazione: in questo modo tuttavia viene indicato quale sarebbe il modo ideale per produrre nel campo agroalimentare.
Rav Moshè Bochko, capo della Yeshivà di Montreux da lui fondata, si è dedicato alla creazione di studiosi e rabbini per le Comunità europee ed ha formato molti rabbini. Nell’analizzare il problema del rapporto tra quantità e qualità, sceglie alcuni esempi trattai dalla storia ebraica:
• Rabbi El’azar ben ‘Azarià, appena nominato Capo del Sinedrio, a differenza di Rabban Gamliel suo predecessore, decise di liberalizzare e di accogliere tutti coloro che desideravano studiare nel Beth hamidrash. Rabban Gamliel, invece, selezionava le domande e investiva le sue energie solo nelle persone in cui il comportamento esteriore fosse espressione della propria intima essenza (erano cioè “Tokhò kevarò”, l’interno pari all’esterno, Berakhot 28a).
• Rabbi Akivà era riuscito a creare un numero enorme di allievi (dodicimila coppie di allievi: un numero immenso per quei tempi), ma dopo la morte di tutti i suoi studenti – che ricordiamo nel periodo dell’Omer – decise di concentrare i suoi sforzi solo su sette allievi: rabbi Yehudà, rabbi Nechemià, rabbi Meir, rabbi Yosè, rabbi Shimon bar Yochai, rabbi Eli’ezer figlio di rabbi Yosè Haghelilì, rabbi Yochanan Hasandelar. Alla luce della nuova situazione decise di dedicare i suoi sforzi alla formazione di soli sette allievi, chiedendo a loro di essere migliori degli allievi precedenti: quei sette allievi riempirono tutta Erez Israel di Torà (Kohelet Rabbà 11).
Rav Bochko mette a confronto due diversi insegnamenti di Hillel che vengono ricordati separatamente nel trattato di Avot ( 1, 14) e in quello di Sukkà (53a ), ma poi vengono ricordati assieme in sequenza (Avot derabbi Natan, cap. 12):
Se io non sono per me chi sarà per me? E quando io sono per me stesso cosa sono io?
Se io non sono qui, tutto è qui, e se io non sono qui chi è qui?
Queste due massime sono tra loro collegate.
La prima sottolinea quanto sia importante per ogni persona occuparsi del rafforzamento della propria identità, ma nello stesso tempo ognuno deve capire che la forza del singolo dipende e si alimenta da quella della collettività: la forza e l’influenza del singolo non possono essere esplicate se non all’interno del collettivo.
La seconda massima si riferisce a un episodio accaduto durante la Simchat Bet hashoevà, quando masse di popolo si recavano a Gerusalemme per Sukkot e per sette giorni c’era una grande festa, una gioia enorme si avvertiva in tutta la città, tanto che si diceva: “ Chi non ha visto la gioia di Beth hashoevà non ha visto una gioia nella sua vita”. Hillel entra nei cortili del Santuario e vede una grande massa che gioisce tutta assieme come se fosse una sola persona. Proprio allora Hillel avverte il pericolo della perdita dell’identità del singolo. Cosa fare allora? Grida a gran voce: se la mia essenza come singolo è qui, tutto è qui e la collettività trae un vantaggio dalla mia presenza in questo posto; ma se la mia identità viene sbiadita e confusa e assorbita da quella della massa, allora la forza della collettività è solo nella sua quantità, ma non riassume in sé anche il valore di ogni membro. Quindi se io non sono veramente qui, chi è veramente qui?
In queste due massime possiamo riassumere il rapporto tra collettività e singoli: nella grandi manifestazioni di massa il pericolo è che ognuno perda la propria identità e pertanto la manifestazione non avrebbe più alcun senso. Qualità e quantità devono sempre essere in equilibrio tra loro. La qualità di ogni singolo deve sempre essere presente e partecipe anche nelle riunioni di massa. La storia ebraica ha dimostrato che spesso i pochi hanno prevalso sui molti.
A buon intenditor, poche parole!
Scialom Bahbout
Testi in ebraico
אם אין אני לי מי לי, וכשאני לעצמי מה אני
ואם אין אני כאן הכל כאן, ואם איני כאן מי כאן
Moshe Bochko (1917 – 2010)
Nato in Svizzera nel 1917. Il padre Yerachmiel Eliahu e la madre Rivka Shternbukh. ll padre aveva studiato in Lituania. Nel 1927 fonda la Yeshivà Etz Haim a Montreux da lui guidata e poi da lui trasferita, assieme ai suoi allievi, in Israele nel 1986. La Yeshivà fu l’unica Yeshivà esistente nell’Europa occidentale a quel tempo. Il figlio Moshè che oltre che rav svolgeva attività commerciale, ereditò il progetto paterno e lo diresse fino al 5745, quando la Yeshivà e i usoi allievi furono trasferiti in Israele. Rav Moshè chiese al figlio Shaul di dirigere la Yeshivath Hesder che oggi si trova nell’Yishuv Kochav Yair..
Tra le sue opere: Heghyonè Moshè sulla Torà e l’attualità e Heghyonè Moshe sul Talmud. Rav Moshè aveva un particolare metodo di interpretare il Talmud e ne ha lasciato traccia nei suoi scritti.