Arrestare i militanti di Roma per le opinioni xenofobe è controproducente. Se fossero liberi di parlare, sarebbe ancora più facile dimostrare i loro errori
Fabrizio Rondolino
Dopo gli orribili episodi di violenza razzista esplosi a Torino e a Firenze l’opinione pubblica si aspettava una giusta reazione dello Stato. La reazione c’è stata, ed è stata mediaticamente clamorosa: cinque attivisti del gruppo romano di estrema destra «Militia» arrestati, altri 11 sotto inchiesta. I reati? Associazione per delinquere finalizzata alla diffusione dell’odio razziale ed etnico, minacce, procurato allarme, apologia di fascismo. In pratica: «centinaia di scritte xenofobe sui muri di Roma», come hanno riportato i giornali.
La colpa dei razzisti di «Militia», dunque, è di essere razzisti. Cioè di manifestare un’opinione considerata odiosa e intollerabile. Sembra che nei loro piani ci fosse anche qualche attentato: ma, grazie al cielo, nessun imputato ha commesso il minimo atto violento. Il leader del gruppo, Maurizio Boccacci, si definisce «anarcofascista», sostiene che la Shoah sia «la più grande menzogna della storia», ammira Hitler e Priebke e odia «ebrei e negri». Sono tutte opinioni: orribili, nefaste, irricevibili. Ma sono opinioni, e nessuno dovrebbe avere il diritto di censurarle, né tantomeno di trasformarle in reato penale.
Misurare la pericolosità di un’azione è relativamente semplice; ma come si misura la pericolosità di un’idea? Valutarla in base alle conseguenze materiali di cui potrebbe essere causa non è semplice: prese alla lettera, ci sono affermazioni della Bibbia o del Corano che suonano come istigazioni all’omicidio. Applicare un criterio storico è impossibile, perché dovremmo mettere fuori legge non soltanto il comunismo, ma più o meno tutte le religioni, nel cui nome sono stati perpetrati massacri inauditi. Entrare nel merito delle varie opinioni, per valutarne ad esempio la compatibilità con il buonsenso, è a dir poco rischioso, perché anche il buonsenso è mutevole: centocinquant’anni fa negli Stati Uniti la schiavitù era per molti un’idea morale.
L’Occidente ha cominciato a porsi questi interrogativi nel Seicento, all’epoca delle grandi guerre di religione, e ne ha cavato fuori il pensiero liberale e l’idea di tolleranza. La coabitazione di idee diverse – questo il succo – è preferibile alla guerra civile. È da questa intuizione che nasce la modernità: senza il principio di tolleranza non avremmo né la scienza, né il libero mercato, né la democrazia. È il libero confronto delle idee che muove il mondo.
Il principio liberale ha una grande utilità pratica: consente di confutare le opinioni errate (o inutili, o superate) e di compiere, collettivamente, un passo verso la verità. Il presupposto perché il gioco funzioni è che la verità appena conquistata non sia considerata un dogma, ma un’opinione largamente condivisa. Diceva John Stuart Mill che l’unico modo per estirpare un’idea sbagliata è farla circolare il più possibile, così che possa venir confutata dal maggior numero di persone con il più vasto arco di argomenti. È un metodo che s’adatta perfettamente alle idee razziste, xenofobe, antisemite, negazioniste. Considerarle un reato (come purtroppo avviene non solo in Italia) non è soltanto una violazione evidente del diritto di ciascuno ad esprimere liberamente il proprio pensiero, ma è anche, e più pericolosamente, un aiuto insperato ai razzisti e agli antisemiti, aiutati nel reclutamento dalla segretezza e dall’aura di martirio.
Come ogni proibizionismo, anche quello delle idee alimenta un mercato nero; ed è qui, nella semiclandestinità, che il passo dall’opinione al gesto esemplare, dall’idea all’azione violenta può farsi possibile, se non probabile. Discutiamo invece liberamente del razzismo, e facciamolo con i razzisti. Anziché mandarli in galera, andrebbero invitati nelle scuole e ai talk show. Non sarà difficile dimostrare l’inconsistenza scientifica, l’aberrazione morale, la pericolosità pratica delle loro idee.
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