Una ragazza del movimento Hashomer Hatzair che si trova in Israele, ci spiega l’arroganza dello Stato d’Israele e le sue conseguenze.
Bianca Ambrosio
Sono venuta in Israele nove mesi fa. Sono venuta come una diciannovenne alla quale premeva approfondire la propria identità. Sono ebrea, ma sono cresciuta in un contesto laico e ho frequentato la scuola pubblica dove ho avuto modo di incontrare persone con retroterra culturali differenti e opinioni diverse. Durante gli ultimi cinque anni ho partecipato attivamente al movimento giovanile di ideologia socialista-sionista Hashomer Hatzair. E’ lì che ho imparato a costruirmi un’opinione critica, ad essere meticolosa nelle mie ricerche e ad interrogarmi su me stessa e la realtà che mi circonda così da tendere continuamente verso un miglioramento. Tengo presente questi valori costantemente. E sono proprio questi valori che avevo in mente quando ho deciso di venire in Israele.
Mi considero sionista, il che significa che supporto l’esistenza di una stato per il popolo ebraico inteso come nazione. Questo non indica però, che io sia conseguentemente obbligata a concordare con la politica assunta da Israele. Credo nello Stato di Israele al fianco di uno stato sovrano palestinese, stati in cui entrambi i popoli abbiano la possibilità di esercitare il loro diritto universale all’ autodeterminazione. Inoltre, sono venuta in Israele piena di orgoglio ed entusiasmo, ma al contempo anche di rabbia e sofferenza. Sono venuta perfettamente consapevole che mi sarei ritrovata ad affrontare dilemmi interiori, in quanto il mio senso di appartenenza a Israele sarebbe facilmente entrato in contrasto con la mia volontà di combattere affinché ad ogni popolo vengano riconosciuti i propri diritti. Ma, nonostante tutto, sono venuta e penso sia stata la scelta migliore che io abbia mai fatto. Sono venuta con la consapevolezza che oggi, per molte persone i significati che ruotano attorno al concetto di sionismo sono cambiati, e che spesso sono lontani dall’ideale nel quale io personalmente credo. Ma, nonostante tutto, sono venuta, e penso sia stata la scelta migliore che io abbia mai fatto. Sono venuta per vivere personalmente quella che per anni è stata semplicemente una “relazione a distanza”; qualcosa a cui, nonostante i miei pensieri contorti e sfocati, mi sentivo legata. La ricorrente reminescenza di un’unione innata.
Ed ora che sono qui, i miei pensieri sono ancora spesso contrastanti e travagliati. La mia mente è ancora spesso offuscata da un velo di confusione, insicurezza e sfiducia. Ma, nondimeno, alcune cose mi si sono rivelate chiaramente. Sono venuta a conoscenza della variopinta e vibrante società israeliana, ed ho trascorso lunghe ore a dibattere sulle problematiche e la soluzioni del conflitto Arabo-Israeliano. Ho lavorato con rifugiati africani, ho partecipato a manifestazioni contro l’occupazione dei territori, ho discusso con cittadini arabi israeliani di Gerusalemme Est, ho assistito all’allenamento dei soldati israeliani e mi sono spesso confrontata con pensatori religiosi. Ho toccato con mano la natura democratica di questo paese leggendo articoli di alto livello critico provenienti da Haaretz, uno dei principali quotidiani israeliani. E d’altra parte ho fatto esperienza delle profonde tensioni all’interno della società quando, durante una conferenza organizzata dalla mia università tenuta da un portavoce dell’Autorità Palestinese, alcuni studenti israeliani non stati capaci di stare seduti e ascoltare. Invece si sono alzati e hanno iniziato ad urlare come galline. Sono cosciente dei problemi della società israeliana e non esito a prendere posizione contro le cause che reputo ingiuste. So bene che lo status quo non può rimanere il perpetuo, interminabile discorso di questo conflitto, ma che alla fine dovrà essere superato.
So anche però, che questo paese è fondato su leggi solide e valori fondanti. Inoltre si interroga quotidianamente sulla sua condotta. So, per esperienza diretta, che i soldati delle migliori unità della Forza di Difesa Israeliana vengono selezionati non per il livello della loro violenza e aggressività, ma grazie alla loro moralità, lealtà e disciplina. So che non c’è alcun obiettivo di far soffrire e affamare un altro popolo e che il dibattito politico non avrà pace finché non verrà trovata la migliore soluzione disponibile. So che la gente è stanca di mandare i propri figli in guerra e che è sempre viva la speranza che per la prossima generazione non si ripresenti la medesima necessità. La grande maggioranza degli israeliani vuole la pace.
Inoltre, mi sono resa conto che non esistono situazione completamente bianche o completamente nere. Mi sono resa conto che Israele è in un stato di guerra permanente sin dalla sua nascita. Mi sono resa conto che ci sono paesi che ne minacciano l’esistenza e che negl’ultimi decenni, Israele ha dovuto confrontarsi con organizzazioni terroristiche e non con stati sovrani. Mi sono resa conto che non si tratta né di un gioco né tantomeno dell’ attraente libro di uno scrittore. Mi sono resa conto che né la comunità internazionale né tantomeno le Nazioni Unite sono risorse affidabili e sulle quali poter fare riferimento per la risoluzione del conflitto. Mi sono resa conto che la Forza di Difesa Israeliana è un’istituzione sine qua non questo stato non avrebbe alcuna garanzia di esistenza. E, sfortunatamente, mi sono resa conto che in periodi di guerra la Realpolitik è cio che conta.
Malgrado ciò, negl’ultimi decenni, Israele ha peccato di ubris. Israele ha dimenticato che – pur essendo di suprema importanza – la sicurezza nazionale (o ciò che si pretende sia sicurezza nazionale) non dovrebbe mai essere il solo impeto, la sola priorità o la sola strategia che guida le sue decisioni. Israele ha dimenticato che dissidenti politici esogeni non possono essere trattati come terroristi che devono essere fermati. Israele ha dimenticato che non è né la legislatrice né tantomeno la pedina principale della politica mondiale, e che determinate azioni – specialmente se seguite da tragedie – esigono spiegazioni. Israele ha dimenticato che gli stati che sostengono il suo diritto all’esistenza e la difendono, necessitano e soprattutto meritano, delle buone motivazioni per farlo. Ha dimenticato che il “contratto sociale” sottoscritto dai suoi cittadini, richiede di essere rispettato con azioni che ne rappresentino i contraenti e non più essere disatteso da azioni autarchiche. E ancora, Israele ha dimenticato che di fianco alla sicurezza i suoi cittadini pretendono anche legittimità.
Nella settimana passata lo stato di Israele ha dimostrato ancora una volta di peccare di ubris. Si è comportato come se fosse più forte, più potente e più legittimato di qualunque altro ente e come se nessun Dio metaforico ne stesse giudicando i movimenti oltraggiosi e arroganti. Ha anche dimenticato però che ad un atto di ubris, segue sempre una nemesi, un “contrappasso”. Ha dimenticato che azioni illegittime non passano inosservate, ma al contrario sollevano un forte clamore. E questo è il prezzo che Israele deve ora pagare: una perdita di vite umane, una catastrofica perdita d’immagine ed una ferma condanna da parte della comunità internazionale. E questo è il prezzo che dobbiamo pagare di continuo per un governo le cui azioni sono lontane dai valori su quali questo paese è nato, un governo che agisce con poca lucidità.
Infine, qualche parola riguardo quei pacifisti sui generis e il ruolo dei media internazionali. Se posso dire, un livello irredimibile di ipocrisia. Un insulto al giornalismo, alla ricerca della verità e all’oggettività che dovrebbe promuovere prima ancora di qualsiasi opinione o giudizio politico. Un diritto negato a tutti coloro che vogliono sapere. E questa è la ragione che mi ha spinto a scrivere il corrente articolo: perché vorrei ricordare a tutti i giornalisti il loro imperativo morale e il loro dovere nei confronti dell’umanità. Perché sono stanca di vedere la propaganda mescolarsi con i fatti e la verità distorta da calibrate lenti di pregiudizio politico. Perché voglio che le persone siano coscienti dei fatti prima di emettere giudizi o prendere una posizione. Perché un’ azione politica non è una missione umanitaria, e ad ogni entità dovrebbe essere data la denominazione che merita. Perché il popolo palestinese non è vittima esclusivamente dell’occupazione Israeliana, ma ugualmente del suo stesso governo, come pure degli stati arabi e della comunità internazionale. E perché la strumentalizzazione di queste popolo da parte degli stessi paesi arabi è deplorevole. Sarebbe giunto il momento che le Nazioni unite e i suddetti paesi trovassero la volontà di domandarsi come mai uno stato palestinese non sia mai stato fondato. E senza dubbio è il giunto il momento per Israele di interrogarsi dove questa politica stia trascinando il suo stesso popolo. Ma forse c’è poco da sorprendersi, dato che non vi è “Niente di nuovo sul fronte occidentale”…e nemmeno in Medio-Oriente.