Storia di un’intellettuale ebrea, del suo salotto e di un’emancipazione impossibile.
STELLA MANFERDINI
Rahel Varnhagen – Levin alla nascita – fu un’intellettuale ebrea tedesca vissuta nel Diciottesimo secolo la cui storia ci è nota soprattutto per quanto emerge nelle pagine della controversa biografia politica dedicatale da un’altra intellettuale ebrea tedesca: Hannah Arendt. Difatti, nel 1933, a distanza di un secolo dalla morte di Rahel, Hannah avviò, senza portarla immediatamente a termine, Rahel Varnhagen: The Life of a Jewess, sua unica opera biografica. A un capitolo dalla conclusione, Hannah fu costretta ad abbandonare la scrittura e la sua Germania per sfuggire alle persecuzioni antisemite del nazionalsocialismo. Il capitolo mancante vide la luce a Parigi solo nel 1938, mentre l’intera opera fu pubblicata a distanza di vent’anni, dopo lunghi ripensamenti da parte dell’autrice. Nel ritratto che le parole della Arendt ci restituiscono, la storia particolare di Rahel assume un interesse che investe e travolge la Grande Storia della questione ebraica. All’immagine certo approssimativa con cui Rahel Varnhagen era stata fino a quel momento accostata, ovvero quella di organizzatrice di circoli salottieri, Hannah Arendt sovrappone quella di figura drammatica e tormentata dal problema dell’integrazione negli anni in cui l’antisemitismo moderno iniziava a prendere piede in Germania.
Figlia della ristretta minoranza ebrea poteva contare sulle possibilità della famiglia benestante e su una rete di legami di alto rango, Rahel Varnhagen non si sposò prima dei quarantatré anni. Sebbene il padre – il banchiere Markus Levin che, auspicando una totale integrazione, aveva abbandonato ogni pratica di ebraismo ortodosso – ritenesse che il matrimonio della figlia con un nobile tedesco avrebbe posto il sigillo definitivo alla sua approvazione in società, Rahel puntava su una dote di altro tipo. Di sé diceva di non essere attraente, ogni ideale di bellezza estetica le era estraneo: capelli corvini, occhi scuri e un incarnato olivastro le conferivano un volto esotico nella Berlino dalla pelle candida. Autodidatta, si diede interamente allo studio delle arti e delle lettere finché, nel 1790, non inaugurò il suo primo salotto, che altro non era che la mansarda della casa del padre, venuto a mancare nel frattempo. Maestra nella conversazione, Rahel riunì nel suo circolo la Berlino colta di fine secolo, forse illudendosi che quello spazio di libertà, dove i ruoli sociali si annullavano nel piacere del dialogo, potesse vincere i pregiudizi antigiudaici che, fuori dal suo salotto, non avevano mai cessato di esistere.
La cultura – Rahel constatò presto – non era sufficiente. Da sempre, si trovò infatti a combattere sul duplice fronte del pregiudizio legato al genere femminile e all’origine ebraica. Nondimeno, divenne una delle figure fondamentali del Romanticismo tedesco. Le sue opere rimasero a lungo ignorate: teoria politica e critica letteraria erano generi non adatti a una penna femminile e, per quanto Rahel vi si impegnasse, non le guadagnarono alcuna fama. Quest’ultima derivò piuttosto dal suo salotto, considerato tra i più importanti all’epoca della transizione tra Illuminismo e Romanticismo. Nel salon da lei coordinato convivevano visioni e correnti anche discordi: dal pomeriggio fino alla sera inoltrata si leggevano passi, si ascoltava musica, si discuteva delle ultime uscite letterarie o scoperte scientifiche. Per questo era chiamato “La Repubblica degli spiriti liberi”.
Eppure, anche così, Rahel non si sentiva abbastanza integrata, non sufficientemente considerata. Dal 1795 prese a viaggiare tra le capitali della cultura europea per accreditarsi presso le figure più eminenti del tempo. Tra questi, Goethe fu un mediatore d’eccezione tra lei e le ancora forti resistenze verso un’intellettuale nubile ed ebrea. Anche quando, con l’insorgere del pensiero nazionalista, le donne e gli ebri furono interdetti dagli spazi culturali e Rahel dovette chiudere il suo salotto, non si diede per vinta. Dopo aver cambiato più volte cognome – da Levin passò a Robert e poi, a seguito della conversione al cristianesimo, a Friederike Antonie – e una serie di relazioni infelici, all’età non trascurabile di quarantatré anni, infine, si sposò. Nel 1814 si unì in matrimonio al diplomatico Karl August Varnhagen, quattordici anni più giovane, da cui prese il cognome definitivo. In qualità di membro della diplomazia prussiana, Karl August ospitò nella sua residenza i delegati del Congresso di Vienna. In seguito, la coppia si spostò da Vienna a Berlino, in quella che un tempo era casa del re Federico II di Prussia, che Rahel trasformò nel suo rinnovato salon.
Tormentata dal desiderio di un’appartenenza irrealizzabile, ritenendo che una conversione e un cognome bastassero per essere legittimata in società, Rahel non fece altro che negare se stessa per tutta la vita, e per questo viene aspramente criticata nel testo di Hannah Arendt. La negazione del suo essere ebrea la condannò, difatti, all’essere inautentica. Di lei la filosofa Donatella di Cesare ha scritto: “Si sentì sempre una Schlemihl, perseguitata dalla cattiva sorte, dal peso di un’esistenza scandita dalla chimera di un’autenticità impossibile […] simbolo al femminile di un’ebraicità che resisteva oltre l’assimilazione per testimoniare, se non l’altro, il fallimento di quel sogno”. Solamente sul letto di morte Rahel si conciliò con la sua nascita, come testimoniato dalle ultime parole riferite al marito e meticolosamente conservate da quest’ultimo: “Quello che per tanto tempo della mia vita è stata l’onta più grande, il dolore più atroce, la condanna più amara, essere nata ebrea, non vorrei mi mancasse ora, a nessun costo”.
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