Susanna Nirenstein
In “Abbandono” la scrittrice svedese indaga sul passato rimosso e sulle sue origini ebraiche. Senza retorica o buonismo
Elisabeth Åsbrink è stata sempre tormentata da un senso di non appartenenza: nata a Stoccolma, giornalista, si accorgeva di essere diversa e di pensarla in modo differente dagli altri; non era bionda ma scura, la madre era inglese, il padre un ebreo ungherese sopravvissuto alla Shoah arrivato bambino in Svezia nel 1956, la nonna una figlia di tedeschi cristiani approdati in Inghilterra a fine ’800, il nonno un ebreo di Salonicco legato da un patto indissolubile con l’ebraismo sefardita cacciato dalla Spagna nel 1492.
Elisabeth sentiva di avere un’identità multipla che non si rispecchiava nemmeno nei supposti valori svedesi, la pretesa eticità assoluta ad esempio, quando invece durante il nazismo il paese aveva usato la neutralità per salvarsi dalla guerra, continuare a fare affari col Terzo Reich, respingere fino al ’43 gli ebrei perseguitati (una serie di dubbi da cui nacque il suo secondo libro Made in Sweden).
In fondo le sue perplessità identitarie, il suo modo di riflettere per interrogativi, sono gli stessi che l’avevano portata a 1947, il primo titolo pubblicato, un’intuizione geniale col ritmo di un memoir e la precisione di un reportage sull’anno che significò un punto di svolta per il mondo intero, perché allora, mentre ogni possibilità era ancora aperta, «tutto si mosse in modo vibrante», dall’indipendenza dell’India alla fine del Mandato britannico in Palestina e al piano Onu per la partizione rifiutato dagli arabi, dalla scrittura di 1984 di George Orwell all’istituzione della Cia, dalla nascita del termine genocidio al primo atelier di Dior che proponeva una donna nuova.
Ora i coltelli di Elisabeth Asbrink si sono affilati, il bisogno è entrare nella carne viva della famiglia: per vedere la propria estraneità deve capire la solitudine della madre e della nonna, e osservare da vicino le radici divelte da cui sono nati a migliaia di chilometri di distanza il padre e il nonno. La sua esistenza è cosparsa di frammenti aguzzi, di vite difficili. La forma che decide di adottare per Abbandono, il volume in uscita come gli altri con Iperborea, è la fiction per quanto cosparsa di notizie vere, dove lei si chiama Katherine, a volte solo K., ed è una “guerriera” che vuole cacciare l’oblio. La strada scelta ritrae tre donne, tre generazioni. La nonna Rita, la mamma Sally, se stessa. Ci sono tristezza, paura, distruzione. E ben presto anche rabbia, una vicenda famigliare cosparsa di tabù che passa per Londra, Stoccolma, Salonicco, un tuffo nella storia d’Europa.
Tutto inizia con Rita, nel ’49 è il giorno dopo il suo matrimonio, a 54 anni. Qualcosa la rende comunque infelice. Il modo in cui riavvolge il filo della memoria cosparso di segreti, all’inizio è lento, passa per una famiglia di modesti tedeschi arrivati a Londra per scuotersi la miseria di dosso: anche Rita, che nasce in Inghilterra, andrà a lavorare presto, ma dalle pulizie passerà a fare la contabile con una certa soddisfazione mentre sua sorella Mabel è centralinista. Una sera però incontra Vidal in una sala da ballo: è amore all’improvviso, e presto arriva Sally. L’ostacolo è enorme, Vidal è buono ma non vuole sposarla: è ebreo, fedele all’identità sefardita della famiglia e lei — che non ha idea di cosa voglia dire essere ebrei e due volte sradicati, dalla Spagna, da Salonicco — non si vuole convertire.
E così la figlia Sally cresce vedendo poco il padre, anche se, quando nasce una seconda figlia, lui sarà più presente: Sally non lo ama, e quando l’Inghilterra sarà percorsa negli anni Trenta da rigurgiti fascisti, dalle scritte antisemite, capisce che vuole cancellare la parola ebreo dal suo vocabolario. Sally sputa rabbia da tutti i pori, appena nell’età della ragione vola a Stoccolma, lontana: il destino non la lascia in pace, si innamora di Endresz Gyorgy, ebreo. Anche questo matrimonio non funzionerà.
Ecco, Elisabeth/Katherine è frutto di tutto questo, anche a casa di sua madre è proibito dire ebreo. Per Katherine è come crescere senza un braccio, senza un sé. Le fatiche per riavere la sua storia sono mirabolanti. Noi, in cerca delle tracce sefardite di suo nonno Vidal, la lasciamo a Salonicco dove i nazisti deportarono 49.000 ebrei.
Della comunità non c’è più traccia: distrussero anche il grande cimitero ebraico. Quelle infinite lastre bianche furono subito riusate per pavimentare piazze, chiese, viali, bagni di scuole, giardini e sono ancora lì. Elisabeth scende nei meandri del tempo. Urlando elegge Salonicco “capitale dell’oblio” e della colpevole indifferenza.
Il libro
Elisabeth Åsbrink, Abbandono (Iperborea, Traduzione Alessandra Scali, pagg. 320, euro 18,50). In libreria dal 31 agosto