Lo scrittore americano Jonathan Rosen ha messo a confronto in un libro due mondi che sono agli antipodi soltanto in apparenza
Per me Internet è la concretizzazione di un approccio frammentario alla lettura che già da prima sapevo essere caratteristico del mio incontro con i libri e con il mondo. Di ciò mi resi conto quando mi misi a cercare il brano di John Donne che mi aveva confortato dopo la scomparsa di mia nonna. Lo cercai a lungo nell’edizione della Modern Library Complete Poetry and Selected Prose . Confesso che ricordavo la citazione non da un corso universitario ma dalla versione cinematografica di 84, Charing Cross Road con Anthony Hopkins e Anne Bancroft. Il libro, un best-seller del 1970, è una raccolta di lettere scritte da una donna americana innamorata della letteratura inglese e un libraio britannico il quale le vende vecchie edizioni di Hazlitt, Lamb e Donne rilegate in pelle, che presumibilmente ha acquistato a sua volta a poco prezzo dalle biblioteche di case immense i cui proprietari hanno fatto bancarotta dopo la guerra. Il libro è una sorta di lamento funebre sulla scomparsa di un certo tipo di cultura della carta stampata. La donna americana ama la letteratura ma scrive anche sceneggiature per la televisione, e a un certo punto compra le Conversazioni immaginarie di Walter Savage Landor per farne un adattamento radiofonico. Così decisi di andare in biblioteca e di prendere in prestito una copia di 84, Charing Cross Road sperando di trovarvi il brano di John Donne, ma purtroppo, nel libro, non ve n’era neanche l’ombra. Il testo dell’adattamento teatrale invece lo menziona ma non lo riporta interamente. Vi è solo una breve disquisizione sul Sermone 15 (la donna americana si lamenta che le hanno mandato una versione ridotta del sermone di Donne, mentre a lei piacciono le versioni integrali).
A questo punto decisi di affittare di nuovo la videocassetta ed eccolo finalmente, il brano di Donne, letto meravigliosamente dalla voce fuori campo di Anthony Hopkins, anche se non si faceva alcuna menzione della fonte e quindi era impossibile ritrovarlo. E come se non bastasse il brano non era completo. Dapprincipio la mia ricerca su Internet non riscosse più successo di quella in biblioteca. A dire il vero all’inizio ero convinto che per ripescare un libro dalle immense profondità marine di Internet fosse sufficiente digitare qualcosa sulla tastiera, ma quando arrivai a visitare il sito Web della biblioteca di Yale mi resi conto che la maggior parte dei volumi non esistevano ancora in versione telematica. Ero invece convinto che il mondo si fosse completamente digitalizzato e, sebbene avessi a lungo paventato e persino deriso quest’idea, ora mi rendevo conto di quanto trovassi deludente e frustrante il fatto che non si fosse realizzata. Come ultimo tentativo provai a cercare la frase «Dio impiega diversi traduttori». Ed eccola rintracciata! Il brano che cercavo non lo trovai in un’edizione accademica ma grazie al fatto che un fan di John Donne l’avesse inclusa nella sua home page . Per un attimo, là nello smisurato e glaciale cyberspazio, mi sentii vicino a mia nonna, vicino a John Donne e vicino a quello sconosciuto che a quanto pare di lavoro fa il programmatore. I versi che cercavo erano tratti dalla Meditazione XVII di Devozioni per occasioni d’emergenza , che in effetti è il testo più famoso che Donne abbia mai scritto e che contiene anche il passo «non mandar mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te».
La mia ricerca mi aveva portato da un film a un libro a una sceneggiatura a un computer per poi tornare a un libro (alla fine scoprii che c’era, il brano, nella mia edizione della Modern Library, ma chi poteva immaginarsi che fosse la continuazione di «Nessun uomo è un’isola»?). Avevo fatto tutta questa fatica per rintracciare un passo che una persona colta trent’anni fa probabilmente avrebbe saputo citare a memoria. Dopo tutto, forse queste parole sono diventate così famose solo perché Hemingway se ne è appropriato per il titolo del suo libro. Comunque sia, se i libri della biblioteca fossero stati trasferiti interamente su supporto telematico, e se Donne e Hemingway e 84, Charing Cross Road fossero apparsi tutti insieme, simultaneamente, sul mio schermo, in fondo non mi sarebbe dispiaciuto.
Forse i libri hanno uno spirito che permette loro di vivere anche al di là dei loro corpi rilegati. Ma questo non significa che io non tema la scomparsa del libro in quanto oggetto, in quanto corpo. John Donne immagina che le persone, quando muoiono, diventino come dei libri, ma cosa succede quando sono i libri a morire? Rinascono forse in una forma più eterea? È forse dal corpo devastato del libro che ha origine Internet? Se questo fosse vero, mi confermerebbe un’altra somiglianza che vedo tra Internet e il Talmud, il fatto cioè che anche il Talmud è nato in parte da una perdita. Talmud ha offerto ospitalità virtuale a una cultura sradicata, e ha avuto origine dal bisogno tipicamente ebraico di riporre la cultura nelle parole come se si trattasse di bagagli ed errare in lungo e in largo per il mondo. Il Talmud divenne essenziale per la sopravvivenza degli ebrei dopo la distruzione del Tempio – la casa di Dio pre-talmudica – da quando cioè le pratiche legate al Tempio, quei rituali fatti di sangue, fuoco ed espiazione fisica smisero di esistere. Dopo che gli ebrei perdettero la loro casa (la terra di Israele) e Dio perdette la sua (il Tempio), la condizione degli ebrei cambiò: divennero il popolo del libro e non più il popolo del Tempio o della terra. E divennero il popolo del libro poiché non avevano nessun altro luogo in cui vivere. Questa perdita fisica spesso non è tenuta in considerazione ma per me si trova al cuore del Talmud e in un certo senso ne spiega la vastità. Ma anche Internet, per quanto ci ripetano in continuazione che dovrebbe servire a unire le persone, produce dentro di me un senso di diaspora, una sensazione di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso.
La legge e la tradizione di un popoloIl Talmud è il complesso dell’esegesi della Legge orale ebraica (la Mishnah ), raccolto in due compilazioni: il Talmud palestinese o di Gerusalemme, (IV secolo d.C.) e il Talmud babilonese (V secolo d. C.). Il testo talmudico è formato dalla Mishnah e dalla discussione degli espositori o amorei (è indicata con il nome di Gemarâ o complemento): esso mira al chiarimento dei punti oscuri e allo sviluppo di una vasta casistica sia etica che rituale. Di conseguenza, il Talmud è un’opera redatta in centinaia di anni, che ha accolto testi ed esperienze diverse, siano esse nate da una mente isolata o da un centro di studi. Per questo Jonathan Rosen ha scritto «Il Talmud e Internet», viaggio tra due mondi simili. Un’opera uscita l’anno scorso negli Usa, ora tradotta da Silvia Maglioni nella collana di Einaudi «Stile libero». Di essa abbiamo qui dato il capitolo riguardante la ricerca di un passo di John Donne e il parallelo che ne deriva tra il Talmud e Internet.