Dopo aver distinto tutte le dodici tribù nei vari accampamenti, la Torà in questa parashà detta le regole per poter vivere all’interno di esso.
Potremmo definire una sorta di “regolamento condominiale”, in cui ogni abitante di ogni tribù conosceva le regole della idoneità alla vita collettiva e sapeva quando, in seguito a qualche impurità o malattia, doveva essere allontanato da esso.
La caratteristica di queste regole era quella di riguardare, prima il privato, poi la famiglia e quindi la società – il popolo.
Infatti tutto il racconto si conclude solo dopo l’episodio e le regole dedicate alla “sotà” che è la moglie dubbia di adulterio, problematica che riguarda tutto il popolo e che, insieme alle regole del “nazir” colui o colei che decidevano di astenersi, per voto dal fare e mangiare alcune cose, riguardano la società di allora al completo.
Alla fine di tutte queste legiferazioni, la Torà conclude con la “bircat cohanim” la “benedizione sacerdotale” considerata un dovere per il Sacerdote, che faceva da intermediario fra il popolo e D-o.
La benedizione si conclude con le parole “ve samù et shemì ‘al benè Israel va anì avarechem” “e porranno il mio nome sui figli d’Israele e Io li benedirò”; questo ci insegna che per il Signore Iddio tutto il popolo si manteneva sullo stesso piano, senza alcuna differenza ed il Sacerdote impartiva loro una benedizione senza distinzione alcuna.
Una cosa che invece ha destato curiosità nei maestri è l’inizio della benedizione, in cui è detto:
“co’ tevarechù et benè Israel amor lahem” – “così benedirete i figli di Israele dicendo loro”.
L’espressione “amor lahem” secondo i commentatori sarebbe abbastanza superflua, in quanto “amor” è un imperativo del verbo LOMAR in seconda persona singolare (avrebbe dovuto dire, visto il resto della frase, “imrù lahem” – “dite loro” e non “dì loro”) , mentre il resto della frase è al plurale.
C’è ancora qualcos’altro da dire: quando il cohen impartisce in sinagoga la bircat cohanim, recita una berachà iniziale che dice “benedetto sii tu o Signore nostro D-o re del mondo che ci ha santificati con la santità di Aharon e ci ha comandato di benedire il suo popolo di Israele con amore”.
La Torà, fanno notare i maestri, quando comanda una mizvà, non esprime mai o quasi mai, la parola amore, anzi, essa è una mizvà che va fatta senza alcuna esitazione o sensazione.
A questo punto i nostri maestri fanno notare che, benché i sacerdoti si trovassero in una condizione super partes rispetto al resto del popolo, erano pur sempre degli esseri umani, che vivevano di sensazioni; per cui c’era quello a cui erano più affezionati, c’era quello più antipatico e quello che si comportava in modo più sfrontato.
Essi però nei confronti di tutti dovevano comportarsi nello stesso modo imparziale, impartendo loro una benedizione con tutto l’amore.
C’è ancora un’altra spiegazione all’espressione “amor lahem”; fanno notare i commentatori che la parola “amor” in italiano antico è l’espressione poetica del termine amore e quindi, dato che il Signore conosce tutto, ha voluto esprimere una sensazione umana, in una lingua allora sconosciuta che avrebbe poi chiarito l’intenzione della Torà stessa.