Confidenze da una voce ignota. Il testo qui pubblicato è una sintesi della prefazione scritta da Patrick Modiano per il volume di Françoise Frenkel Niente su cui posare il capo, che esce in libreria giovedì 11 febbraio per le edizioni Guanda (traduzione di Sergio Levi, Simona Lari, Claudine Turla, pag. 299, €18)
Patrick Modiano
La copia di Niente su cui posare il capo che, a quanto mi è stato riferito, è riemersa di recente a Nizza da un mercatino di beneficenza della Comunità di Emmaus mi ha provocato una strana impressione. Forse perché fu stampata in Svizzera nel settembre 1945 da Jeheber, la stessa casa editrice ginevrina, oggi non più attiva, che nel 1942 aveva pubblicato L’aventure vient de la mer, traduzione francese del romanzo Donna a bordo di Daphne du Maurier. Apparso a Londra un anno prima, era uno dei tanti romanzi inglesi o americani messi al bando dalla censura nazista, che nella Parigi dell’occupazione venivano venduti sottobanco o perfino al mercato nero.
Non si sa cosa ne sia stato di Françoise Frenkel dopo la pubblicazione di Niente su cui posare il capo. Nelle ultime pagine del libro l’autrice ci racconta come dall’Alta Savoia abbia attraversato illegalmente il confine svizzero nel 1943. Stando alla nota che appare in basso nella quarta di copertina, avrebbe scritto Niente su cui posare il capo in Svizzera, «in riva al lago dei Quattro Cantoni, fra il 1943 e il 1944».
Che fine ha fatto Françoise Frenkel dopo la guerra? Finora, le poche informazioni che sono riuscito a raccogliere su di lei sono le seguenti: l’autrice rievoca nel suo racconto la libreria francese che ha fondato a Berlino all’inizio degli anni Venti — l’unica libreria francese presente in città — e che avrebbe gestito fino al 1939. Nel luglio di quell’anno, lascia Berlino in fretta e furia per Parigi. Ma da uno studio di Corine Defrance si apprende che la Frenkel gestiva la libreria insieme al marito, un certo Simon Raichenstein, di cui però nel libro non si dice nulla. Questo marito fantasma avrebbe lasciato Berlino alla fine del 1933 per andare in Francia con un passaporto Nansen. Le autorità francesi gli avrebbero negato una carta d’identità e inviato un avviso di espulsione. Ma lui rimase a Parigi. E partì per Auschwitz da Drancy nel convoglio del 24 luglio 1942. (…)
E’ davvero necessario saperne di più? Non credo. A rendere speciale Niente su cui posare il capo è l’impossibilità di identificare la sua autrice in modo preciso. Questa testimonianza della vita di una donna braccata nel Sud della Francia e in Alta Savoia durante il periodo dell’occupazione è ancora più sorprendente in quanto sembra la testimonianza di un’anonima, come lo è stato Una donna a Berlino, anch’esso pubblicato in Svizzera, negli anni Cinquanta.
Se pensiamo alle prime opere letterarie che abbiamo letto a quattordici anni, anche dei loro autori non sapevamo nulla, si trattasse di Shakespeare o di Stendhal. Ma quella lettura ingenua e diretta ci ha segnati per sempre, come se ogni libro fosse una sorta di meteorite. Oggi, gli scrittori vanno in televisione e ai festival della letteratura, si frappongono di continuo fra le loro opere e i lettori, trasformandosi in commessi viaggiatori. E noi finiamo per rimpiangere i tempi dell’infanzia quando leggevamo Il tesoro della Sierra Madre pubblicato sotto falso nome da un certo B. Traven, un uomo di cui nemmeno gli editori conoscevano la vera identità.
Preferisco non conoscere il volto di Françoise Frenkel, né le peripezie della sua vita dopo la guerra, né la data della sua morte. Così il suo libro rimarrà per sempre ai miei occhi la lettera di una sconosciuta, rimasta in fermo posta per un’eternità, una di quelle lettere che magari riceviamo per errore, ma che sembravano destinate proprio a noi. La strana impressione che ho provato leggendo Niente su cui posare il capo è la stessa che a volte ci coglie quando sentiamo la voce di una persona di cui non distinguiamo il viso nella penombra raccontarci qualche episodio della sua esistenza. Mi ha ricordato i viaggi notturni della mia giovinezza, non nei vagoni letto, ma negli scompartimenti con posti a sedere, in cui fra i viaggiatori si creava talora un’intimità così forte che qualcuno, sotto la fioca luce da notte, finiva per confidarsi o addirittura per confessarsi. A rafforzare questa improvvisa intimità era la certezza che non ci si sarebbe mai più rivisti. Erano incontri fugaci, di cui custodiamo un ricordo in sospeso, il ricordo di una persona che non ha avuto il tempo di dirci tutto. Lo stesso vale per il libro di Françoise Frenkel, scritto settant’anni fa, ma nella confusione del presente e sull’onda dell’emozione.
Sono riuscito a scoprire l’indirizzo della libreria di Françoise Frenkel: Passauer strasse 39; fra i quartieri Schöneberg e Charlottenburg. Me li immagino in questa libreria, lei e suo marito, che nel libro non compare mai. Simon Raichenstein aveva il passaporto Nansen degli apolidi perché era uno dei tanti immigrati di origine russa. A Berlino all’inizio degli anni Venti se ne contavano più di centomila. Si erano stabiliti nel quartiere di Charlottenburg, che proprio per questo veniva chiamato «Charlottengrad». Molti di questi russi bianchi parlavano francese e suppongo fossero i principali clienti della libreria dei signori Raichenstein. Sicuramente Vladimir Nabokov, che abitava nel quartiere, avrà varcato almeno una volta la soglia della loro libreria. (…)
Nelle ultime cinquanta pagine del suo libro, Françoise Frenkel descrive un primo tentativo fallito di varcare il confine con la Svizzera. Viene portata alla gendarmeria di Saint-Julien per comporre con altri «un gruppo miserabile»: «due ragazze in lacrime, un bambino inebetito e una donna sfinita dalla fatica e dal freddo». Il giorno seguente, insieme ad altri fuggiaschi arrestati, viene tradotta in una camionetta alla prigione di Annecy.
Sono sensibile a queste pagine perché ho trascorso parecchi anni nell’Alta Savoia: Annecy, Thônes, l’altopiano di Glières, Megève, Le Grand Bornand… Il ricordo della guerra e della Resistenza era ancora vivo in quella regione all’epoca della mia infanzia e della mia adolescenza. Impronte digitali. Manette. L’autrice finisce in una sorta di tribunale. Per fortuna viene condannata «al minimo della pena con la condizionale e dichiarata libera». Il giorno dopo viene scarcerata e uscendo di prigione cammina sotto il sole per le strade di Annecy. Il percorso che sceglie a caso mi è familiare. Sente il mormorio di una fontana che sentivo anch’io, nelle silenziose, roventi ore del primo pomeriggio in riva al lago, in fondo alla passeggiata del Pâquier.
Un nuovo tentativo di varcare illegalmente la frontiera svizzera va a buon fine. Alla stazione degli autobus di Annecy prendevo spesso la corriera per Ginevra. Avevo notato che passava la dogana senza mai subire il benché minimo controllo. Ciò nonostante, avvicinandomi al confine, dalla parte di Saint-Julien-en-Genevois, sentivo sempre una leggera stretta al cuore. Forse aleggiava ancora nell’aria il ricordo di una minaccia.
(Corriere della Sera, 8 febbraio 2016)