Guido Vitale
In questi tempi di risultati elettorali sempre giocati sul filo di una piccola differenza percentuale nei consensi raccolti dagli schieramenti contrapposti, gli esiti delle elezioni per il Consiglio della Comunità ebraica di Milano e quelli per l’elezione dei delegati al prossimo congresso dell’Unione delle comunità ebraiche italiane ci offrono per una volta un responso chiaro. Raramente segnare un confine fra il successo e l’insuccesso è stato tanto agevole. Quella della lista Per Israele, una delle tre in competizione per il consiglio della comunità milanese, ha costituito un’affermazione molto significativa. I consiglieri assegnati a questa formazione sono 10 su 19 (5 sono stati conquistati dalla lista Chai e 4 dalla lista Kadima) e da soli potrebbero teoricamente bastare a costituire una maggioranza di governo. Se poi si creasse un’alleanza più ampia, la governabilità sarebbe ovviamente ancora più stabile.
Ma l’esito elettorale non costituisce una novità solo sotto il profilo della governabilità. L’aspetto più importante di questo risultato, infatti, è rappresentato dalle nuove prospettive che si aprono per la comunità e per l’ebraismo italiano nel suo complesso.
In queste elezioni hanno detto la loro ampie componenti che per troppo tempo si sono sentite al margine delle strutture comunitarie. Sono le stesse, probabilmente, che vivono oggi la comunità e la propria identità più profondamente e più vivacemente. Sono quelle che esprimono un maggior dinamismo sotto il profilo del tasso di natalità, del desiderio di far studiare i propri figli, dell’attaccamento alle tradizioni. Ma sono anche le stesse che per molti anni si sono sentite al margine di comunità gestite in una maniera ingessata ed eccessivamente formale da personaggi sempre meno capaci di rappresentare la massa degli ebrei italiani e sempre più ideologizzati ed autoreferenziali.
Il voto, come dimostra per esempio il risultato dei seggi elettorali operativi nella scuola comunitaria, frequentati da famiglie che hanno scelto di far studiare i propri figli in questo istituto che costituisce il vero cuore della comunità, ha quindi assunto anche un significato liberatorio. Quello di riappropriarsi della gestione di una comunità che molti hanno sentito in passato lontana. A quella che a torto o a ragione era sembrata a molti la comunità dei tecnocrati si contrappone ora la comunità delle gente. E si aprono le premesse di un grande rinnovamento, perché l’esigenza espressa da chi è andato a votare deve necessariamente trovare risposte concrete.
Facendo le debite proporzioni e con alcuni distinguo, lo stesso discorso potrebbe valere anche per il futuro dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.
Ma il successo elettorale costituisce solo la premessa, non la realizzazione compiuta di un progetto alternativo. Qui sta la sfida ed il problema che ci accompagnerà nei prossimi mesi.
Per riuscire a governare la comunità e l’Ucei in un modo diverso, più vivo, più vicino alle esigenze degli ebrei italiani, infatti, le forze nuove che si profilano all’orizzonte dovranno offrire prova di grandi capacità e di grande intelligenza.
Il dibattito sul “che fare” mi sembra di conseguenza di grande attualità.
Prima di tutto, credo, sarebbe utile dimostrare misura ed apertura, creando alleanze ampie che rafforzino il ristretto margine di maggioranza, ma anche che coinvolgano forze diverse e determinanti nell’ambito della comunità. Ma contemporaneamente si dovrebbe evitare la tentazione dell’ammucchiata, del consociativismo a tutti i costi, che nella passata gestione comunitaria ha finito per esplodere in maniere assai poco edificanti.
Fare l’opposizione (se lo si fa con serietà ed impegno) non è un’infamia, e tantomeno una vergogna. È altrettanto utile, importante, difficile e necessario che fare il governo.
In secondo luogo bisogna evitare di fare in modo che la vittoria di qualcuno sia vissuta come l’allontanamento di altri. Milano è già la prima realtà italiana a mostrare le crepe di una tendenza a una diversificazione insanabile fra gruppi ebraici che alla lunga rischia di portare a divisioni molto profonde. Oggi che la lista vincente è percepita (a torto o a ragione) come la più fedele alle tradizioni bisogna intensificare gli sforzi per riavvicinare chi si è allontanato.
Gettare ponti, aprire le porte, tendere la mano, coinvolgere tutti. Da questo punto di vista credo sia legittimo essere ottimisti. Proprio molti esponenti di Per Israele, infatti, si sono battuti assieme ad altri per la realizzazione del progetto Kesher (un’iniziativa culturale di grande valore e di grande vivacità) mirato ad aumentare il grado di coinvolgimento della gente. Sarebbe paradossale se proprio la loro vittoria finisse per costituire motivo di separazione e di allontanamento.
Ma soprattutto, l’attività appena iniziata dal nuovo rabbino capo di Milano Alfonso Arbib ha già assunto una connotazione molto chiara e forte. Parlare ai giovani, coinvolgere gli indifferenti e gli assimilati, aprire la porta a chi non riesce ancora a vivere la comunità nel suo pieno significato, sono certamente obbiettivi che fanno parte delle sue priorità.
Infine, serve un’analisi seria di come tradurre i programmi e i grandi princìpi in fatti concreti. Un capovolgimento come quello registrato a Milano, importanti novità come quelle che si profilano all’Unione, si muovono partendo anche da una reazione emotiva.
E l’emotività può costituire una risorsa preziosa solo a condizione che sia appoggiata su un grande senso di concretezza. Anche da questo punto di vista l’ottimismo sembra giustificato. In seno al nuovo Consiglio, infatti (e in particolare all’interno a Per Israele) sono ben rappresentate personalità più ricche di slanci emotivi ed altre portatrici di misura, di ragionamento e di concretezza. Tutti, in ogni caso, devono comprendere che non si vive di soli comizi, non si può andare avanti a forza di slogan, anche se sono quelli, talvolta, a portare il successo elettorale. Ed il rischio di vincere la battaglia dei consensi elettorali per perdere poi la conquista di un nuovo modello di comunità, più vero, più sentito, più vivo, più confacente alle esigenze degli ebrei che la vivono, sarebbe meglio evitarselo. Sarebbe un rischio che gli ebrei milanesi e gli ebrei italiani davvero non possono permettersi il lusso di correre.
direttore@mosaico-cem.it
Milano 30/05/06
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