Nella parashà che leggeremo questo shabbat, la Torà continua a narrarci la storia di Josef che dopo essere stato in carcere ed aver interpretato correttamente il sogno del coppiere e del panettiere, si trova questa volta ad interpretare i sogni “strani” del Faraone.
I sogni sono quelli delle “sette vacche grasse e delle sette vacche magre, e delle sette spighe belle e piene e delle sette vuote e bruciate”; Giuseppe interpreta al Faraone che vi saranno sette anni di grande abbondanza per tutto il paese, a cui seguiranno sette anni di carestia violenta che colpirà, non solo l’Egitto, ma si sentirà fino alla terra di Canaan, dove vivevano il padre ed i fratelli di Giuseppe.
E’ proprio la carestia che fa sì che i fratelli di Giuseppe debbano scendere in Egitto, per acquistare il grano necessario per potersi sfamare.
E’ in questo momento che inizia il dramma, che sconvolge ancora di più, la famiglia di Giacobbe, già sconvolta dalla “morte” di Giuseppe.
Giuseppe, addetto alla distribuzione del grano, riconosce immediatamente i suoi fratelli, ma essi ovviamente non lo riconoscono; erano trascorsi venti anni, da quando avevano venduto il loro fratello alla carovana degli Ismaeliti che lo conducono in Egitto.
Giuseppe all’epoca, aveva diciassette anni, era poco più che un ragazzo; ora ne aveva trentasette ed era un uomo, vissuto e provato da tutte le esperienze.
In Egitto, sia i fratelli che Giuseppe stesso, provano le esperienze peggiori della loro vita; da una parte, Giuseppe soffre perché, avendo riconosciuto i fratelli, non vuole a sua volta farsi riconoscere, per far ripagare, in un certo senso le pene che essi avevano fatto soffrire al loro fratello.
Dall’altro verso i fratelli, sopportano le false accuse e calunnie di cui Giuseppe li accusa, e le peripezie che debbono sopportare, riguardo il loro padre che non li asseconda, nel voler portare Beniamino con loro, in Egitto, secondo ciò che gli aveva ordinato Giuseppe.
Senza ombra di dubbio, questa storia, anche se conosciuta da tutti noi, molto bene ogni volta ci appassiona e ci fa commuovere, soprattutto nei passi in cui Giacobbe si dispera con i figli, dicendo loro di averlo reso privo di quelle cose di cui un uomo non può fare a meno: i propri fogli.
L’atteggiamento di Giacobbe e tutta la sua storia, soprattutto di questo periodo, riflette un atteggiamento a noi tutti noto e cioè, quello dell’Ebreo padre di famiglia, che vive in periodo particolarmente delicato per la sua famiglia in quel momento, come poi però, purtroppo, sarà un po’ il simbolo della sofferenza degli Ebrei nel corso dei millenni della nostra vita.
Sembra quasi di assistere ad un quadretto di vita famigliare, in ambiente ebraico al tempo del Ghetto, quando il più vecchi di casa, entrava quasi in competizione con i più giovani che non volevano capire ed accettare le sue remore ed i suoi timori, dovuti però, alle molteplici esperienze di vita, che lo avevano reso timoroso di ogni cosa, non tanto per se stesso, quanto per il destino dei propri figli e nipoti.
Leggendo la parashà, sembra di assistere ad una moderna “soap opera”televisiva, in cui però l’epilogo avverrà in tempo indeterminato; infatti, nonostante il trascorrere dei millenni, non siamo arrivati ancora ad un traguardo che garantisca una sicurezza definitiva e solida per il nostro popolo.
Anche in questo Shabbat, verranno estratti due Sifrè Torà; nel secondo leggeremo il seguito dei brani che abbiamo letto ogni giorno per tutta la durata della festa di Chanuccà.
Il brano è molto lungo, poiché si leggerà, dall’ottavo giorno dell’inaugurazione del Mishkan, fino al completamento delle offerte sacrificali, che si concludono il dodicesimo giorno (un sacrificio offerto da una tribù per ogni giorno) ed il reso conto di tutte le offerte fatte complessivamente, da tutte le dodici tribù.
Si va oltre la fine della parashà di Nasò (brano di torà a cui appartiene il passo di Torà, che narra dell’inaugurazione del Mishkan) e si arriva a leggere i primi quattro versi della parashà successiva (be haalotekhà), in cui si parla dell’ordine impartito ad Aronne e ad i suoi figli di preparare ogni giorno la Menorà da accendere nel Tempio.
La mizvà, come commentano gli Esegeti biblici, non era tanto quella di accendere la Menorà nel Tempio, quanto quella di prepararla per la sua accensione.
Questo deve insegnare ad ogni essere umano che si accinge a costruire un qualcosa, o a completare un progetto, che non è tanto importante portare a termine l’opera, quanto iniziarla e predisporla per i posteri, proprio come ci insegnano i Maestri della Mishnà:
“lo ‘alekha ha melakhà ligmor” “non sta a te completare l’opera” ma iniziarla, come attraverso la significativa storia del “carrubo” che il Talmud ci narra, in cui il vecchio che si accinge a piantare l’albero di carrubo, è conscio che non mangerà mai i suoi frutti- perché ci vogliono settanta anni perché un carrubo dia i suoi frutti, ma è certo che chi li mangerà, saranno i suoi nipoti.
Shabbat shalom e chag sameach