Ad Arezzo un convegno su Jakob Frank
ALBERTO BURGIO
Jakob Frank, chi era costui? Proviamo a rispondere risalendo alla metà del ‘600 quando un ebreo di Smirne, destinato a una sinistra fama, si proclama messia. È il primo dai tempi di Cristo a osare tanto e il gesto sacrilego gli procura una sacrosanta scomunica. Ma Shabbetay Zewi non demorde, fonda una setta, si erge a paladino di una religiosità mistica libera dai rigidi rituali dell’ortodossia rabbinica. E fa proseliti in massa tra Gerusalemme e il Cairo e in tutta Europa, tra le file della diaspora marrana. Due sono i cardini dell’eresia sabbatiana: il peccato come percorso di liberazione, giacché prima di realizzare la redenzione il messia deve discendere nell’abisso del male; e l’abiura della fede dei Padri, interpretata per mezzo della cabala quale prova di messianità. La vicenda sconvolge. Agita la vita delle comunità. E alimenta una nuova forma di mistica messianica venata di trasgressione e di nichilismo.
Questo antefatto segna in profondità la vicenda di Jankiew Lejbowicz, nato nel 1726 a Korolówka, nel cuore dell’altopiano podolico incastonato tra Ucraina e Moldavia. Se Zewi si è detto il messia, Lejbowicz si pretende sua reincarnazione. Assume il nome di Jakob Frank, si immerge nell’eresia sabbatiana e a sua volta la radicalizza. Indica nell’apostasia la via verso la liberazione e nel libertinismo orgiastico una pratica propiziatrice del nuovo avvento. Mescola tradizioni e fedi. Trattiene lo Zohar ma rinnega il Talmud. Si converte e predica la conversione al cattolicesimo. Soprattutto, torna a invocare il peccato estremo come esperienza di riscatto, di sfida e di emancipazione. Eccola qua, in apparenza, la storia di Jakob Frank, «libero Giacobbe». Un capitolo tra i tanti, si direbbe, del messianesimo ebraico. Un piccolo episodio, tutt’al più, nell’intricata matassa dei rapporti tra ebraismo, massoneria ed esoterismo millenarista. Frank come una specie di Cagliostro dei ghetti dell’Europa orientale: e difatti lungo questo solco si pongono i giudizi tradizionali, focalizzati sullo scandalo dell’euforia del peccato. Gershom Scholem, massimo studioso della mistica ebraica, definisce «terrificante» il nichilismo frankista, e ne dichiara «primitiva e selvaggia» l’ispirazione originaria.
Forte di queste valutazioni, Léon Poliakov liquida Frank come un «ciarlatano d’indole sadica», salvo attribuirgli la palma del «genio del male». Insomma, lo scandalo si direbbe esaurirsi nel progetto della redenzione attraverso il peccato. Certo, sordida abiezione, inaudito elogio della perdizione. Ma pur sempre faccenda circoscritta al mondo chiuso delle fedi e delle sette religiose. E invece forse no. Forse il problema è, in questo caso, diverso e più complicato. Tale da spiazzare molte rassicuranti sistemazioni. Il fatto è che la vita di Frank, godibile come un racconto di canaglie, non si lascia archiviare tra i cimeli dell’immoralismo settecentesco.
La catena non si esaurisce tra eresia e nichilismo. La violazione della Legge allude, in questo caso, a una insistita domanda di emancipazione sociale e politica . E si traduce – già in Frank, a maggior ragione in molti suoi seguaci – nella ricerca e nella pratica di un potere sovversivo. Questo avventuriero che si vanta di dominare la morte e di compiere la storia messianica, invischiato lui stesso in tutte le suggestioni della trascendenza popolare, riesce a dar voce a un progetto tenace e a provocare, com’è stato scritto, «una eruzione inusuale di forze creatrici». Sta di fatto che il frankismo accompagna migliaia di ebrei dell’est europeo verso una forma inedita di assimilazione che non comporta la rinuncia alla tradizione ebraica, ma ne promuove una singolare trasformazione. A riporre fiducia in questo «banditore del mutamento dei tempi» furono in milioni. Una «gioia senza limiti» proruppe nella diaspora, alimentata dal culto entusiasta dei fedeli, dall’esagitazione delle folle, da un bisogno anche fisico di un capo che non predicasse la pazienza. L’eresia, qui, si caricò di ben altre valenze.
Alla corte di Frank si imparava non soltanto a sognare, ma anche a uscire dal ghetto . E non si progettava esclusivamente il raggiungimento del vero e della pace interiore, ma anche la conquista di un concreto potere terreno. Frank, il messia militante : «ignobilmente assetato di potere», sostiene ancora Scholem. Ma la vera questione riguarda le fonti della sua visione, e la sua conturbante ambiguità. Il frankismo eccede i limiti dell’eresia religiosa. Intreccia vincoli equivoci col movimento dei Lumi e la massoneria. Penetra nelle file giacobine in Francia, tra le armate di Napoleone, nelle cerchie rivoluzionarie di mezza Europa. Salda legami con l’anarchismo e il movimento operaio ebraico e bundista. Traduce la crisi dell’antico regime in una frenetica istanza di trasformazione. Di qui i sospetti, l’ostilità, il rancore. Quelle conversioni in massa sono sincere, o dissimulano segreti cabalistici dietro la maschera della forma cattolica? Del resto, potrà mai una conversione sradicare la colpa radicale del deicidio? E quell’infiltrarsi, quell’ascendere i gradi degli eserciti e della nobiltà, a che cosa prelude? Dove condurranno quei fitti connubi coi massoni, la promiscuità tra cristiani e ebrei dentro logge dirette da frankisti battezzati e assimilati? Non è difficile capire quanto dirompente possa apparire questa trama. Ebrei irriconoscibili, ibridi, criptati . E legati da oscura fratellanza… Chi si stupirà nell’apprendere che c’è ancor oggi, anche in Italia, chi si diletta a scorgere complotti frankisti in ogni dove, magari annidati tra Mediobanca e Comit, orditi tra Giuseppe Toeplitz ed Enrico Cuccia, passando per Raffaele Mattioli?
Folklore a parte, il problema riguarda l’ambiguo statuto della modernità, la sua generatio æquivoca , per così dire. Che se la ride delle genealogie lineari e manichee care ai teorici della secolarizzazione. Come nel caso della «magia» cinquecentesca, conficcata tra ragione scientifica e pratica demiurgica, anche in questa vicenda la religione esce dai binari e si fa politica. L’attesa di un altro mondo diviene immanenza operosa. L’eresia assume i tratti inquietanti della prassi sovversiva. È questo il contesto nel quale il frankismo incide. Non solo sull’ebraismo moderno e sull’identità ebraica nell’Europa centrale (Hermann Broch, forse Kafka, probabilmente Freud), ma anche sulla costituzione degli Stati, sui processi di emancipazione e democratizzazione delle nazioni europee. E sulle vicende dei moti rivoluzionari borghesi e proletari, sino al primo ‘900. Di questo dibatteranno domani ad Arezzo alcuni tra i maggiori studiosi di Frank e della giudaistica moderna nella giornata internazionale di studi Along the Road to Esau promossa da Roberta Ascarelli e Klaus Davidowicz (www.letterearezzo.unisi.it/upload/ allegati/ESAU.pdf).
Da qualche parte Scholem ricorda che per tre secoli nessuno più ha osato parlare pubblicamente dei due «falsi messia» Zewi e Frank. Ragione di più per tornare a discuterne oggi.
Grazie alla Rassegna Stampa dell’Ucei.