Intervista a rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma
Ai recenti stati generali dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane la Federazione Italiana dell’Ebraismo Progressivo (Fiep) ha chiesto rappresentanza all’interno dell’Unione. Qual è l’opinione dei rabbini italiani su questo tema?
L’orientamento di alcuni rabbini con cui mi sono confrontato è unanime: l’attuale struttura dell’Unione delle Comunità non deve essere cambiata. Questo non toglie che si possano stabilire rapporti rispettosi di collaborazione con altre realtà. Ma la prima cosa è quella di definirci per quelli che siamo e non cambiare la nostra natura. L’Unione è quella che è e non deve cambiare i connotati. Può stabilire rapporti con altre realtà che raccolgono persone che hanno un diverso modello identitario e religioso. Qualcuno vorrebbe fare dell’Ucei una struttura “ombrello” che raccolga le varie correnti dell’ebraismo. Ma l’ebraismo progressive non è semplicemente una corrente, è un’altra cosa.
Quando c’è stato l’attentato a Pittsburgh qualcuno ha commentato che il killer non ha fatto distinzione tra diverse denominazioni ebraiche. Sul versante opposto qualcun altro ha detto che quel luogo (che si definisce “conservative yet progressive”) non doveva essere definito una sinagoga. Per quanto ci riguarda, a Roma abbiamo fatto nel nostro bet ha-keneset una commemorazione solenne delle vittime di quel bet ha-keneset. In quel bet ha-keneset andrei a fare omaggio ma non andrei a dire una normale tefillà.
Comunque c’è stata una commemorazione.
Le vittime erano ebree, ma avrebbero certo meritato una preghiera anche se non lo fossero state. Cadute in quanto identificate come ebree da eliminare. Ma si dovrebbe stare attenti a non lasciare la definizione di ebraicità in mano agli antisemiti.
I gruppi progressivi chiedono rappresentatività davanti allo Stato, otto per mille, ecc. Se non possono essere incluse nell’UCEI come si può fare? Dovrebbero crearsi un’Unione a parte?
L’ideale sarebbe un’altra intesa. Non credo però che lo Stato italiano abbia intenzione di aprire un tavolo e di fare una nuova intesa con una realtà che al momento attuale è di consistenza numerica abbastanza esigua rispetto alle altre realtà che hanno stipulato intese con lo Stato. Se ci riuscissero sarebbe un risultato da non ostacolare assolutamente. Un’altra strada (se ne parla in ogni legislatura ma poi va costantemente in fumo) potrebbe essere la legge sulle libertà religiose che dovrebbe stabilire i termini con cui le diverse confessioni si rapportano nella società e con lo Stato. Però l’Ucei ha sempre guardato queste varie bozze che si sono succedute con una certa cautela perché potevano mettere in discussione importanti risultati raggiunti con le Intese.
Stavo pensando ai modelli esistenti in altri Paesi: per esempio il Congresso Mondiale Ebraico raccoglie tutti gli ebrei indipendentemente dalla denominazione.
Il Congresso Mondiale Ebraico ha una storia tutta sua, non so se rappresenta tutti gli ebrei, comunque è un’organizzazione transnazionale. Ci sono Paesi in cui non ci sono rappresentanze ebraiche unitarie, altri Paesi con rappresentanze unitarie di varie denominazioni e altri Paesi ancora in cui ogni denominazione se ne sta per conto suo; quindi i modelli sono differenti. Quello che succede in Italia è il risultato di una lunga storia dovuta alla saggezza di chi ci ha preceduto. Saggezza che ha messo insieme personaggi di diversa identità più o meno religiosa, più o meno laica, concordi sul fatto che ci dovesse essere un unico corpo nel quale formalmente si rappresenta l’ebraismo nominalmente ortodosso senza interferenze nelle scelte private del singolo. Altrove può succedere che se una persona si definisce ortodossa s’intende che osserva tutte le mitzvot possibili e immaginabili ed è inconcepibile che si definisca ortodossa una persona che non è osservante; da noi questa separazione non c’è stata e s’è capito che conveniva trovare questa formula di compromesso che ha presentato dei vantaggi indiscutibili perché ha messo tutti insieme. Ora questo succedeva quando la presenza di ebrei riformisti in Italia non era organizzata. La novità di questi ultimi anni è l’organizzazione di questi gruppi in varie strutture che ora si sono federate. È una novità che ci pone di fronte a delle scelte. Per tornare alla domanda originaria, noi dobbiamo ridefinirci e confermare senza esitazione che il nostro è un ebraismo che si struttura formalmente con l’ortodossia.
Vorrei rivendicare la paternità di una mia battuta vecchia di più di quarant’anni che poi ha fatto strada: a coloro che chiedevano chi sono gli ebrei italiani rispondevo: l’ebraismo italiano è formalmente ortodosso, ideologicamente conservative, di pratica reform e di religione cattolica. Eppure fino ad ora siamo riusciti a trovare una via comune senza rinunciare alla definizione ortodossa.
A tuo parere il modello dell’ebraismo italiano ortodosso e unitario si può salvare?
Si deve salvare.
Quindi questo modello implica che anche persone non osservanti stanno dentro la comunità.
Certamente sì. Ci sono sempre state e continueranno a starci. Nelle scelte individuali c’è libertà (che è differente dal dire che tutto sia lecito), pur di non scardinare le scelte aggregative comuni fondamentali, come il bet hakeneset, l’osservanza delle feste e i servizi religiosi come la kasherut.
Più complessa è la questione dei ghiurim.
Questa domanda mostra come in realtà dietro all’opzione riformista ci sia il problema fondamentale dei ghiurim, e soprattutto dei ghiurim dei figli di madre non ebrea. L’ebraismo italiano aprendosi a realtà internazionali e uscendo dal suo tradizionale isolamento ha dovuto fare i conti con altri modelli, che non hanno accettato la prassi locale italiana consolidata; questa prassi sembra un’abitudine di secoli, ma in realtà non è così: era strisciante nella prima metà del secolo scorso, e poi è cresciuta con un enorme picco intorno agli anni ’70 e ’80, quando c’è stata la moltiplicazione di questi fenomeni. Quindi quello che viene rappresentato come un’antica tradizione italiana è in realtà un fenomeno inizialmente molto contenuto che poi è esploso. E il problema è stata l’esplosione, insieme all’apertura dell’Italia all’esterno: i nostri ragazzi e ragazze vanno in giro per il mondo e se hanno passato determinati percorsi che altrove non si fanno rischiano di non essere riconosciuti come ebrei.
Una cosa per me veramente irritante è l’uso improprio che si fa della memoria di rav Toaff, che quando era in vita e al potere veniva attaccato duramente da tutta la gente che adesso lo loda per quanto, a loro dire, era aperto e liberale. Io posso assicurare, per averlo conosciuto molto da vicino, che quando sentiva parlare di riformati e conservative esprimeva la più totale disapprovazione. Certo, aveva, ereditato dal padre, un approccio diverso ai ghiurim dei minori. Ma usarlo come icona dell’ebraismo ritualmente rilassato è veramente un falso e una cattiveria.
C’è chi dice che anche all’estero ci sono vari modelli di ebraismo ortodosso che possono essere riconosciuti. Per esempio a Torino dal 2010 al 2013 c’è stato un approccio un po’ più “all’italiana”, anche se comunque più rigoroso di un tempo.
All’interno dell’ortodossia ci sono decisamente vari modelli e varie posizioni. Quello che è successo a Torino, però, è stato un fenomeno molto limitato e ristretto, in termini temporali e numerici: possiamo considerarlo una sorta di “sanatoria” (nel mondo ortodosso talvolta le sanatorie si fanno). Però le difficoltà oggettive rimangono e sono in tanti a subirne le conseguenze: chi non si vede riconosciuto e se ne sorprende e si addolora; chi pensa che non vi siano dubbi sul modello precedente e che vada ovunque bene e non comprende il quadro attuale; chi, come i rabbini, cerca almeno di difendere il pregresso (a volte con le unghie e con i denti) ma non può continuare con le politiche di un tempo. Ma al di là delle polemiche, c’è un’accresciuta consapevolezza del fatto che bisogna essere molto più cauti in queste procedure, che occorrono modelli di identificazione più forti. E lo capiscono, anche se non lo accettano, anche i maggiori oppositori.
Oggi i ghiurim sono fatti solo dai batè din [tribunali rabbinici] riconosciuti. Un rabbino comunitario non può più fare quello che gli pare. Non si fa più così da nessuna parte. O meglio si fa ma non è riconosciuto. A cominciare dall’ Italia in cui da anni c’è in proposito una delibera dell’Assemblea dei Rabbini Italiani.
All’interno dell’ebraismo ortodosso non ci sono approcci diversi, correnti diverse?
Certamente ci sono correnti diverse, ma in tutti i sensi. E chi pensa e accusa il rabbinato italiano di rigidità non si rende conto che da altre parti è considerato di “manica larga”.
Non ci sono situazioni di manica ancora più larga che comunque sono riconosciute all’interno dell’ortodossia?
Ci sono molti freelance, talora non tanto cristallini, ma il fenomeno è ora molto più controllato e si sta riducendo.
Alcuni affermano che prima o poi un atteggiamento di chiusura, per quanto giustificato da valide ragioni, determinerà inevitabilmente una rottura nel modello italiano unitario.
Ti correggo: chi dice che è un atteggiamento di chiusura? È una chiusura degli automatismi, ma non delle procedure. Io ho fatto un calcolo per quanto riguarda i tempi più recenti, e mi riferisco alla realtà romana: abbiamo recuperato all’ebraismo, chiedendo condizioni molto più forti, circa la metà del potenziale bacino. Parlano di chiusura le persone che vogliono le cose automatiche, ma dove portano? Ci sono dati pubblicati: su cento persone che hanno fatto la procedura del ghiur “automatico” a Roma in quest’ultimo secolo, solo 16 si sono sposati con ebrei. Si minaccia la rottura ma il dato reale è l’abbandono.
Il motivo per cui molti parlano di chiusura sta nel fatto che per il ghiur si richieda un livello di osservanza molto superiore alla media della comunità, per cui la persona a cui viene richiesto non si trova poi a suo agio nella comunità perché è troppo osservante per poter frequentare gli altri. Mi pare che questo sia un po’ il paradosso dell’ebraismo italiano.
Un paradosso che qualcuno potrebbe risolvere al contrario in maniera estremistica dicendo: visto che non ci sono le condizioni non si fanno i ghiurim. In lode (ammesso che sia una lode) del rabbinato italiano, che è considerato nella pubblicistica attuale solo in termini spregiativi, c’è stata invece una volontà di risolvere questi casi; tanti non l’avrebbero fatto.
Non esiste in nessun luogo al mondo una comunità che sia al 100% ortodossa e al 100% osservante.
Ci sono diverse modalità aggregative. Altrove è intorno alla sinagoga, il che impone un’identità religiosa specifica. In Italia il polo aggregativo è la comunità. È il risultato di una storia complessa, e anche di leggi imposte in periodi autoritari come quella del 1930; siamo stati capaci di tirar fuori una cosa buona da una legge di epoca fascista e trasformarla in un modello. E, come si è detto prima, in uno strano compromesso. Perché l’identità ebraica è assai complessa e al nostro interno la componente religiosa, nel sentire collettivo, può essere variamente influente. Ma per la legge italiana, a cominciare dalla Costituzione, la differenza e la specificità ebraica non è etnica, né storica o culturale, men che mai razziale, ma solamente religiosa. Che ci piaccia o no, per lo Stato le comunità e l’Ucei sono enti religiosi. Presumibilmente di un’unica religione. Propongo qui questa riflessione: si gioca molto sul fatto che lo statuto dell’UCEI non parla necessariamente di ebraismo ortodosso. In realtà le Intese difendono un modello religioso ortodosso: stabiliscono per esempio delle garanzie per il rispetto del sabato (come gli esami che non si fanno), o il calendario religioso con due giorni di moed; non sono affatto sicuro che nella galassia dei movimenti progressive queste regole siano condivise; temo che siano invece considerate solo un optional folkloristico.
Rimane il problema dei ghiurim.
Se lo dici ai riformisti, o progressive, ti diranno che le differenze sono anche su altri fronti, per esempio quello dell’assoluta parità di genere.
Su questo tema si possono trovare soluzioni anche all’interno dell’ortodossia?
Sono soluzioni faticose ma non sono escluse dall’orizzonte. L’ortodossia deve misurarsi con fonti, tradizioni, costumi, cose che il sistema progressive può invece smantellare in cinque minuti. E in campo ortodosso ci si chiede anche perché bisognerebbe avere fretta a correre appresso a ogni variazione di paradigma culturale.
Al di là dei ghiurim, secondo te è auspicabile la partecipazione di non ebrei nella vita delle comunità?
Bisognerebbe vedere quali modalità di partecipazione. Escluderei l’elettorato attivo e a maggior ragione passivo. Che coniugi, parenti, amici partecipino ad attività culturali e persino religiose è un fatto che succede ogni giorno. Non sono per l’esclusione, ma non accetterei l’integrazione indistinta.
Ritieni che le attività dell’Unione del Giovani Ebrei Italiani debbano essere riservate solo ai giovani che sono effettivamente ebrei (e quindi non, per esempio, ai figli di solo padre ebreo)?
Devono essere riservata ad ebrei o al massimo a quelli che hanno in corso un processo di ghiur.
L’Ugei può continuare a far parte di organizzazioni come l’Eujs (European Union of Jewish Students) se i suoi membri partecipano ad attività europee mentre alcuni ragazzi europei non possono partecipare a quelle dell’Ugei perché non sono halakhicamente ebrei? Qualcuno mi ha raccontato che ci sono stati problemi. Ti risulta?
So che ci sono stati, quando le attività sono state svolte in Italia. Non cercherei di essere tranciante con situazioni che vanno risolte con un po’ di buonsenso ogni volta che si pongono. Piuttosto è da tener presente che con la storia che ci portiamo appresso rischiamo invece che quando qualcuno dei nostri ragazzi va in attività all’estero non venga riconosciuto come ebreo. Anche questa ipotesi è assolutamente da considerare, non è affatto teorica. È appunto per impedire che questo accada che il rabbinato italiano deve avere credibilità e autorevolezza anche all’estero.
Per concludere il discorso, credi che il modello italiano, oltre ad essere salvabile, effettivamente si salverà? Ci sarà una crescita in Italia degli ebraismi non ortodossi?
È prevedibile che i vari movimenti che adesso si chiamano progressive troveranno adepti in Italia. Sarà una realtà in crescita e sarà alimentata dal fenomeno dei matrimoni misti e del ghiur. Quindi in breve tempo queste comunità saranno composte di persone che sono ebree per la halakhà ortodossa (e che forse manterranno la doppia iscrizione) e di molte altre, forse già oggi la maggioranza, che non lo sono. Cosa poi succederà è tutto da vedere. C’è da augurarsi uno scambio non polemico di visioni, e ciascuno si sceglierà il suo campo. Non vedo il motivo per cui ci debba azzannare, ma nemmeno confondere i principi e le regole. Bisogna capire che ci sono differenze anche radicali e incolmabili, e ci sono punti su cui ci sono interessi comuni e si può collaborare rimanendo ciascuno nella propria struttura. Su temi come sicurezza e sepolture c’è già una collaborazione. Su altri temi la vedo più complessa, ma non insolubile.
Quindi non ci sarà una rappresentanza unitaria davanti allo stato.
Io penso che l’Ucei, che in questo momento rappresenta la stragrande maggioranza degli ebrei italiani, possa esercitare – ovviamente concordando al suo interno e con la controparte – una tutela o una garanzia per certe cose.
Molti di noi e dei nostri lettori non sono osservanti. Il rabbinato italiano auspica che continuino a mantenersi all’interno delle comunità ortodosse?
Certamente.
C’è chi dice che i rabbini italiani auspichino una comunità di soli osservanti. Pochi ma buoni.
C’è qualcuno che fa il terrorista e mette in giro queste voci. Vorrei sapere se tra tutti i rabbini che conosci qualcuno ti ha mai detto una cosa del genere, onestamente. Il rabbino si limita a dire: “sarebbe bello se tu facessi così”.
Non vorrei far nomi, ma direi che il discorso dei pochi ma buoni qualcuno effettivamente lo fa.
È un tema che è stato deformato mediaticamente. È stato esasperato. L’hanno attribuito pure a me. Io dico: meglio tanti ma buoni.
Cosa vuol dire “ma buoni”?
Non puoi pretendere che un rabbino non auspichi una comunità in cui crescano l’osservanza, lo studio della Torà, ecc. Altrimenti che ci sta a fare? I rapporti interconfessionali? Il burocrate dei ghiurim?
Ritieni che i media dell’Ucei parlino di questi temi nel modo adeguato?
L’ho detto e lo ripeto: l’informazione ufficiale dell’Ucei avrebbe bisogno di una redazione: non solo come ora una redazione professionale agli ordini del direttore (peraltro molto bravo lui e i suoi collaboratori) ma una redazione politica rappresentativa che tenga presente le diverse sfaccettature e sensibilità dell’ebraismo italiano senza privilegiare, come fa ora, solo certi pensieri. Non è però che io sia contento della tua gestione di Ha Keillah, beninteso, ma voi almeno siete un’associazione privata.
Cosa ci rimproveri esattamente?
Rimprovero è una parola grossa. Trovo che nell’Ha Keillah di cinque-dieci anni fa ci fosse più confronto.
Su quali temi?
Su tutti: politica israeliana, rapporti col governo e politica italiana, religione ecc. Comunque ne avete diritto: siete un’associazione privata e fate quello che vi pare. A differenza di quella testata che invece deve rappresentare tutti ed è pagata con i soldi dei contribuenti.
Cosa pensi del risveglio dell’ebraismo del sud Italia?
È un fenomeno storicamente molto interessante che va certamente seguito ma che pone grandi difficoltà per l’ampiezza del territorio che disperde le energie. Ci sono piccoli nuclei e singoli individui che si risvegliano in un luogo o nell’altro. Da un certo punto di vista è molto positivo, dall’altro pone dei problemi. Bisogna seguirlo ma c’è anche una questione di scarsezza di risorse e di priorità di scelta, dove indirizzare le nostre energie.
In quale misura l’ebraismo italiano deve attenersi alle pressioni che arrivano da fuori (come è accaduto per esempio nel caso dei carciofi)?
Io raccomanderei di verificare la fonte delle informazioni: su Roma non c’è stata nessuna pressione, nessuno ci ha detto nulla e noi non abbiamo fatto nulla. È stata una polemica costruita ad arte sulla base di informazioni parziali. In Israele hanno bloccato una partita di carciofini sott’olio (che non veniva da Roma ma da un’altra parte) perché erano infestati. Di lì si è scatenato il panico e alcuni giornalisti hanno messo in giro queste voci senza controllare.
In conclusione mi permetto di entrare in un altro tema un po’ delicato. Molti di noi percepiscono nell’ebraismo italiano un clima di scarso rispetto reciproco e la difficoltà a mantenere il libero confronto delle idee. Ci sono state violenze verbali, campagne diffamatorie sui social network, maldicenza. Talvolta abbiamo avuto la sensazione che da parte del rabbinato non ci sia stata molta fermezza nel condannare questi episodi.
Quando nessuno sa come lamentarsi abbastanza, la colpa è dei rabbini che non protestano. Seguo regolarmente Facebook e direi che la violenza è bipartisan e che dire a qualcuno “usa termini più cortesi” è tempo sprecato. Ho raccomandato l’uso corretto dei media e della comunicazione in più occasioni private e pubbliche, nei discorsi di Kippur, ecc. Non so a cosa serva: bisognerebbe prendere persona per persona e invitarla alla calma; forse dirà di sì, ma dopo cinque minuti ricomincia. Però non diciamo che la colpa è dei rabbini che non rimproverano, anche perché ciascuno vuole che si rimproverino gli altri. Non è un fenomeno solo di oggi: c’è anche nella tefillà quotidiana una preghiera contro la maldicenza e la violenza verbale, quindi è una piaga antica. Quello che c’è di nuovo è che i social offrono il megafono.
Tu percepisci una situazione perfettamente bipartisan?
Sì, non è che ci siano da una parte i violenti e dall’altra i raffinati.
A noi risulta che ci sia stato anche un tentativo di aggressione fisica.
Forse non sono aggiornato io o non siete voi aggiornati. Se parliamo dello stesso episodio, senza nessuna giustificazione da parte mia, è un caso vecchio di anni fa e isolato.
intervista di Anna Segre