La parashà inizia con queste parole: “Moshè parlò ai capi delle tribù dei figli d’Israele dicendo: questa è la parola che l’Eterno ha comandato. Chi farà un voto all’Eterno o pronuncerà un giuramento per sottoporsi a un divieto, non dovrà violare la propria parola, ma dovrà fare tutto quello che ha detto” (Bemidbàr, 30: 2-3). L’inizio di questa parashà si contraddistingue dalle altre dal fatto che è specificato che Moshè si rivolse ai capi tribù. Qual è il motivo di questo cambiamento?
Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta che Moshè volle onorare i capi tribù insegnando loro queste regole prima di farlo con il popolo d’Israele. Questo comportamento avvenne anche nelle altre occasioni in cui Moshè insegnò delle nuove mitzvòt al popolo. Il motivo per cui la cosa viene sottolineata in questa parashà è per insegnare che l’annullamento dei voti può essere fatto da un dayàn (giudice) esperto [come lo erano i capi tribù].
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) ha un’altra spiegazione. Egli spiega che questa sezione che tratta dei voti segue la parashà precedente di Pinechàs perché anche in quella parashà si parla di persone che facevano voti di portare dei sacrifici.
R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia, 1512-1585, Cracovia) che fu rav a Cremona, nella sua opera Ma’asè Hashem scrive di non essere è soddisfatto delle due spiegazioni precedenti. Egli afferma che non c’è dubbio che tutti gli insegnamenti di Moshè furono presentati prima ai capi tribù e poi a tutto Israele. La Torà lo ha messo in evidenza solo in questa parashà per via del fatto che nella parashà precedente viene raccontato dello scandalo causato da Zimrì, capo di una casato della tribù di Shim’òn. Quando Moshè venne a sapere che degli uomini israeliti avevano “familiarizzato” con le figlie di Moàv e come conseguenza avevano anche commesso idolatria servendo il Ba’al Pe’or (Belfagor in italiano), egli aveva dato ordine ai giudici d’Israele di punirli per quello che avevano fatto. Proprio in quell’occasione Zimrì si era presentato davanti a Moshè con una principessa midianita, facendo così sapere pubblicamente che l’aveva presa come convivente. Rashì cita un passo midrashico del Talmud (Sanhedrìn, 82) dove viene raccontato che Zimrì rivolgendovi a Moshè gli aveva chiesto: “Questa donna è permessa o è proibita”? E se mi dici che mi è proibita, chi ti ha permesso di sposare Tzipporà figlia di Yitrò? Di fronte a questo scandalo pubblico Pinechàs fece giustizia, uccidendo Zimrì e la sua amante colti “in flagrante delicto”.
R. Ashkenazi spiega quindi che in questa parashà viene sottolineato che Moshè parlò ai capi tribù per fare loro sapere che Zimrì aveva torto. Tzipporà figlia di Yitrò era permessa a Moshè perché egli la sposò prima di ricevere la Torà al Monte Sinai. Solo dopo aver ricevuto le mitzvòt al Monte Sinai divenne proibito sposare una donna non ebrea. E poiché Zimrì era un capo nella sua tribù, in questa parashà viene sottolineato che l’insegnamento fu dato ai capi tribù come avvertimento. Un esempio simile è l’insegnamento dato proprio ad Aharon di non entrare nel santuario senza autorizzazione, dopo la morte dei figli Nadav e Avihu che erano morti per esservi entrati senza un comando divino (Vaykrà, 16:2). R. Ashkenazi nel suo commento accenna a un principio assai importante. Noi osserviamo le mitzvòt perché le accettammo al Monte Sinai. La mitzvà della milà è raccontata nella Torà nel libro di Bereshìt (17:9-15) e così pure la proibizione di mangiare la parte dell’animale con il nervo sciatico (ibid., 32:33). Tuttavia l’obbligo di osservare queste mitzvòt iniziò con il Monte Sinai. Così anche solo quando ci venne data la Torà fu proibito il matrimonio con non ebrei, come è scritto: “Non farete matrimoni con loro; la tua figlia non darai al loro figlio e la loro figlia non prenderai per tuo figlio” (Devarìm, 7:5).