Ionatan Somekh – Derashah shabbath mattino
Le cinque figlie di Tzelofchad erano caratterizzate da forti valori ebraici: l’episodio nella parashà di Pinechas ne rivela alcuni in particolare tra i quali un forte senso dell’identità familiare e nazionale, nonché un enorme attaccamento verso la terra d’Israele. Una grande fiducia in qualcosa è rivelata da un approccio pratico a quella cosa; le figlie di Tzelofchad non solo avevano fiducia nel fatto che sarebbero entrate in terra d’Israele, ma anche si preoccupavano già di un aspetto più pratico relativo alla terra: in che modo avrebbero potuto perpetuare il possesso ereditario che sarebbe spettato a loro padre nella terra?
Le parashiot di Pinechas e Mattot-Mas’è vengono lette tra o subito prima del periodo di tre settimane tra il 17 di tammuz e il 9 di av. I due digiuni ricordano, tra le varie disgrazie, i due più grandi peccati commessi dal popolo ebraico durante il viaggio nel deserto, rispettivamente il peccato del vitello d’oro e il peccato degli esploratori. Entrambi i casi avevano rivelato una evidente mancanza di fiducia in H.: nel caso del vitello d’oro il popolo era ricaduto nella loro inclinazione all’idolatria acquisita durante la schiavitù egiziana, rinnegando temporaneamente la rivelazione Divina, il Patto, la propria vera identità e valori. Nel secondo caso non avevano avuto fiducia nel fatto che certamente sarebbero entrati nella terra d’Israele. Focalizzandoci soprattutto sul peccato degli esploratori, in quanto quello riguardante la terra d’Israele, possiamo addurre la scarsità di fiducia del popolo a una venuta meno dei valori. Quello che il popolo aveva visto era sé stesso come un’entità esterna che doveva compiere l’impresa di impadronirsi di una terra altrui abitata da popoli più forti.
Quello che è venuto a meno era l’attaccamento alla terra che avrebbero dovuto possedere; si erano dimenticati che quella terra è la propria terra, promessa da H. ai patriarchi e che già l’origine del popolo ebraico era in quella terra (Yaaqov era nato in terra d’Israele ed era poi sceso con i 70 familiari in Egitto). Per questo quella generazione non poté entrare in terra d’Israele. Peggio di tutti, Datan e Aviram i quali dissero a Moshè (Bemidbàr, cap.16, vv. 13-14):” Non è forse poco per voi che ci avete fatto salire da una terra stillante latte e miele per farci morire in questo deserto… e pure non ci avete portato in una terra stillante latte e miele per darci un’eredità di un campo e di una vigna, vorresti forse ingannare questa gente? Non saliremo!”. Datan e Aviram si permettono addirittura di definire la terra d’Egitto, la terra dove erano stati stranieri e schiavi, con il medesimo appellativo della terra d’Israele, “una terra stillante latte e miele”, e insinuano che il popolo non sarebbe mai riuscito a raggiungere la destinazione e che essi stessi non avrebbero mai ricevuto un possesso ereditario in Israele, perciò: “Non saliremo!”. Datan e Aviram rivelano di essere persone stazionarie e prive di valori, incapaci perciò di avere una fiducia in un obiettivo comune. Tutto ciò che conta per loro è un modello estremamente materialistico tale da definire l’Egitto una terra stillante latte e miele.
Era preferibile per loro rimanere schiavi in terra straniera pur di conservare un podere personale ed è quello che esattamente richiedono da Moshè, un campo e una vigna, ma che reputano che Moshè non sarebbe stato capace di fornire loro. Datan e Aviram rappresentano proprio il modello di persone fisse sulla propria casetta, o meglio sul campo e sulla vigna e niente deve togliere loro queste cose, anche a costo di privarsi della propria identità, libertà e valori. Qualunque obiettivo più elevato è troppo oneroso ai loro occhi e di conseguenza rispondono: “non saliremo!” “A noi non interessa e dunque non muoviamo un dito: tutto quello che vogliamo è ‘il campo e la vigna’”. Non a caso, Datan e Aviram finirono inghiottiti dalla terra.
I figli di Reuven e Gad esprimono un approccio non dissimile, anche se meno accentuato. Anch’essi, abituati ai pascoli del Bashan, perdono l’intensità del loro attaccamento verso la terra d’Israele e pur accettando l’impegno di combattere per la conquista della terra assieme al resto del popolo, decidono di rimanere al di là del Giordano. Similmente a Datan e Aviram, le tribù di Reuven e Gad hanno in mente per prima cosa i loro ‘pascoli’; la terra è invece un valore secondario. Non a caso Moshè ricorda loro tutto ciò che era successo con il peccato degli esploratori e come quell’evento aveva impedito alla generazione precedente di entrare a prendere in possesso la terra. Queste tribù furono le prime a venire esiliate, in quanto quelle che meno avevano desiderato vivere in Israele.
Non così le figlie di Tzelofchad le quali sì chiedono: “Dateci un retaggio in mezzo ai fratelli di nostro padre”, ma è proprio questo che rivela quanto il valore della terra fosse di primaria importanza nei loro cuori e nello loro menti, tale da presentarsi da Moshè e di fronte a tutta l’assemblea per trovare una soluzione di fronte a questo problema legale. Le figlie di Tzelofchad erano al corrente che nel diritto ebraico solo i figli maschi ereditano, eppure, a causa della consapevolezza di valori ebraici quali quello della terra e quello di mantenere il nome della casa paterna (vedi la legge del Levirato), si rendevano conto che qualcosa non tornava: davvero se un uomo scompare senza figli maschi, l’eredità passa direttamente ai suoi fratelli, lasciando le figlie senza nulla? E che cosa dire del principio di garantire la continuità del nome paterno? La forza dei loro valori, spingono le cinque figlie ad andare da Moshè e vedere se non c’è un ulteriore pezzo di libertà che porti a una risposta alle loro domande. Alla profondità del quesito, Moshè deve consultare il parere Divino e difatti le figlie di Tzelofchad avevano ragione: se non ci sono figli maschi, le figlie femmine ereditano. La verità ora è venuta fuori per intero e grazie alle figlie di Tzelofchad la soluzione è stata trovata.
Le figlie di Tzelofchad recano un elevato messaggio: rimanere stazionari, accontentarsi della situazione presente e lasciar perdere tutti gli altri valori vuol dire solo chiudere la porta in faccia a sé stessi e agli altri, e all’identità di tutta la comunità. È solo mettendocela tutta, scavando in profondità nei valori e mai accontentandosi di una situazione temporanea che si perpetua la propria identità e di quella di tutta l’assemblea; è solo controproducente ripetersi: “Questo è tutto, non c’è altro da aggiungere, mi accontento di quello che ho adesso e non m’interessa nient’altro”. Infatti è stata proprio la grandissima connessione con i valori ebraici a spingere le cinque figlie a ricercare più a fondo, a porre domande ed è stato proprio grazie alla domanda e alla ricerca che un altro pezzo di verità è venuto in superficie.
Che le figlie di Tzelofchad ci servano d’esempio e d’ispirazione.
“Hashivenu H. elekha vehashuva, chadesh yamenu keqedem” (Ekhà 5, 21)