“E amerai H. tuo D. con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze”. Questo versetto dello Shemà’ è commentato dalla Mishnah (Berakhot 9,5) e da Rashì. Il cuore rappresenta gli istinti e la Torah ci ingiunge di amare D. sia con l’istinto del bene che con l’istinto del male. Entrambi devono essere messi al servizio della volontà Divina. “Con tutta la tua anima” significa “anche se D. ci portasse via l’anima”, cioé se ci costringesse al martirio come Rabbì ‘Aqivà che pronunciò questo versetto mentre veniva eseguita la sua condanna a morte per mano dei Romani. Infine “con tutte le tue forze” allude al mamon, le forze economiche della persona.
Su quest’ultimo punto Rashì aggiunge una considerazione: avendo già detto che dobbiamo amare D. fino al martirio, c’è bisogno di specificare l’aspetto finanziario? “Forse che esiste qualcuno attaccato più al proprio denaro che al proprio corpo?”, domanda Rashì. Evidentemente sì. Esiste qualcuno per il quale il successo economico è più importante della persona.
La conferma viene da un episodio della Parashat Mattot. Siamo al termine dei quarant’anni di peregrinazioni nel deserto e alla vigilia dell’ingresso in Eretz Israel. Ma due tribù e mezzo esprimono un’idea diversa. Reuven, Gad e metà di Menasheh posseggono molto bestiame. Gli aggettivi che la Torah usa a questo proposito sono rav e ‘atzum meod, gli stessi che adopera in un altro passo per definire la proliferazione del popolo ebraico in Egitto. Nel loro immaginario le bestie prendono il posto delle persone. I proprietari del bestiame evidenziano che il territorio di Ghil’ad situato in Transgiordania e dunque fuori da Eretz Israel è adatto al pascolo di tanta ricchezza e domandano di fermarvisi. Moshe li redarguisce aspramente, accusandoli di disfattismo nei confronti degli ideali nazionali e di voler disertare il progetto di stanziamento nella Terra Promessa. Ma non dice loro di no. Pone loro una condizione: il Ghil’ad sarebbe stato loro se prima avessero assistito militarmente le altre tribù nella conquista di Eretz Israel. Le tribù in questione acconsentirono ad accompagnare le altre finché avrebbero preso pieno possesso del territorio a loro assegnato.
C’è un dettaglio del testo che non passa inosservato. I rappresentanti delle due tribù e mezza si presentarono a Moshe dicendo letteralmente: “(Prima) ci costruiamo qui recinti per le nostre greggi e insediamenti per i nostri bambini” (Bemidbar 23,16). Rashì nota che questi signori antepongono le esigenze del bestiame a quelle dei loro figli e figlie. Moshe avrebbe risposto loro su questo punto, invertendo opportunamente l’ordine: dedicatevi prima all’essenziale e poi a ciò che è secondario. “Costruitevi pure insediamenti per i vostri bambini e recinti per le vostre greggi” (v. 24). L’importante sono i figli, non le bestie. Apparentemente gli interlocutori compresero la lezione. Quando replicarono a Moshe si corressero: “I nostri bambini, le nostre mogli, le nostre greggi e tutti i nostri animali se ne staranno nelle città del Ghil’ad” (v. 26). Ma la riparazione verbale non bastò. Il Midrash e altri commentatori notano che a tradire le due tribù e mezza fu proprio il loro spasmodico attaccamento ai beni materiali. Per questo rinunciarono alla Terra Promessa. Ma quando secoli più tardi sarebbero giunti gli Assiri a esiliare le tribù settentrionali essi furono i primi a dover lasciare la loro terra e, in definitiva, ad assimilarsi (1Cron. 5,26).
Non voglio soffermarmi sul vizio dell’ingordigia e dell’attaccamento al denaro cui questa Parashah dà spunto. Credo che l’argomento sia più sottile e anche più interessante. Il popolo ebraico ha sempre avuto persone o gruppi a tal punto attaccati al hic et nunc, al proprio secolare orticello da mettere in secondo piano l’attaccamento a Eretz Israel e l’avvenire ebraico dei propri figli. Dovunque nel mondo c’è chi dice: costi quello che costi, siamo sempre vissuti nello stesso posto e qui rimarremo. Attenzione. Non è necessariamente un ragionamento da rigettare. Il sostegno della Diaspora è vitale per gli stessi nostri fratelli che abitano in Eretz Israel. Forse è questa la ragione profonda per cui in definitiva Moshe non cassò la proposta di Reuven, Gad e mezza tribù di Menasheh, ma si limitò a sottoporla a una condizione: che essi fossero appunto di sostegno ai residenti in Eretz Israel, in quel momento e per sempre. Naturalmente ciò presuppone nei primi la capacità di sostegno e quindi una certa autosufficienza non solo materiale, ma anche e soprattutto spirituale.
Il problema si pone seriamente quando una Comunità è talmente impoverita spiritualmente da non riuscire a garantire più un avvenire per i propri figli in loco. In tal caso la soluzione non potrà che essere quella di guardare a Eretz Israel. Educare i nostri figli a parlare l’ebraico, incoraggiarli a visitare Eretz Israel, a condividerne le esperienze anche solo per periodi limitati di tempo. Sui giovani fa più presa un viaggio di Taglit che interi corsi di ebraismo teorico, anche ammesso che siano disposti a seguirli. Questo dovrebbe essere al centro delle priorità della vita di una piccola Comunità della Diaspora. Pensare prima ai figli che ai beni. Se infatti ci sono i figli, i beni in un modo nell’altro li seguiranno. Ma se non ci sono i figli, a chi andranno i nostri beni?