Alberto Somekh
Nello scorso gennaio ho partecipato all’evento annuale della Orthodox Assembly a Gerusalemme: duecento rabbini da quaranta paesi del mondo riuniti per dibattere i temi centrali dell’ebraismo. La prima sessione era dedicata al tema scottante dell’avvicinamento dei lontani, che nessun forum rabbinico si esime dal trattare oggi. Peraltro, in apertura ci venne detto che quest’anno non si sarebbe parlato degli strumenti e degli obbiettivi, ma si sarebbe affrontato l’argomento da un’angolatura diversa: fino a che punto è lecito spingersi pur di avvicinare chi si è allontanato dall’ebraismo?
Ed è stato posto il quesito: è permesso organizzare il cenone di Natale (sic!) glatt kosher in Comunità per evitare che i membri della stessa vadano a farlo da un’altra parte? Ebbene sì: non il veglione di Capodanno, da molti tollerato come una ricorrenza sostanzialmente laica e mondana, ma proprio la cena del 25 dicembre sotto… l’albero! Prima di interrogarsi sui nuovi fronti del rabbinato ortodosso, occorre precisare che chi presiedeva la seduta e ha lanciato la provocazione era una delle figure più “gettonate” della leadership rabbinica modern orthodox in Israele, noto soprattutto per il lavoro volto al recupero dei discendenti del marranesimo.
Fra i colleghi italiani presenti in sala è corsa un’occhiata di sbigottimento. Giustamente, da noi tutto ciò che sa di ecclesiastico è fuori discussione, “non sale sulla tavola dei Re”, ovvero dei rabbini! Peraltro, sulle presunte analogie fra ebraismo sefardita, iberico in particolare, ed ebraismo italiano molto ci sarebbe da discettare. Entrambi hanno dovuto affrontare nei secoli un difficilissimo rapporto con la religione dominante. Ma per ragioni storiche che qui non è possibile approfondire i compromessi adottati sono stati su questo punto opposti.
I marrani di Spagna hanno abbandonato formalmente l’identità ebraica, ma hanno conservato il sentimento religioso. Quanto all’ebraismo italiano, invece, “Il suo arco è rimasto saldo” (Gen. 49, 24): si è mantenuta forte l’identità ebraica, con un formale ossequio alla Halakhah, ma si è perso quel senso religioso che la sostiene e ne è parte integrante. Per non essere esposto a influenze del credo dominante complice un’eventuale affinità di linguaggio, l’ebreo italiano non solo tiene giustamente lontane dalle sue istituzioni tutte le manifestazioni della religiosità altrui, ma evita di affrontare apertamente il tema della sua stessa spiritualità. Peraltro così facendo, spogliandosi cioè del proprio “motore” ebraico, egli si apre allo svuotamento interiore e all’assimilazione, facendo rientrare dalla finestra ciò che aveva voluto allontanare dalla porta.
Non bastano dunque a mio avviso gli strumenti elaborati nei confronti del marranesimo per affrontare i problemi dell’ebraismo “all’italiana”, che ha una sua specificità e delicatezza. E’ vero che quando si pone al rabbino un qualsiasi quesito halakhico ci si aspetta da lui una risposta facilitante ed egli deve tenerne conto: divieti e rigori li abbiamo già in tasca! Ma è anche vero che dove tutto è kasher, allora più nulla è kasher. Siamo proprio così sicuri che il nostro gregge voglia sempre sentirsi dire di sì? Che la figura del Rabbino “tecnologico” in voga oggi in molti ambienti, con la soluzione a portata di mano per qualsiasi problema, sia alla lunga la più richiesta ed apprezzata? Siamo certi che, percorrendo questa strada, non lasceremo più spazio nella nostra vita ebraica a quella componente di mistero che è competenza del Santo Benedetto?
Se un tempo certi dilemmi interni venivano risolti “alla buona” entro le mura salde delle nostre Comunità, viviamo oggi in un mondo globale che non ce lo consente più. Il confronto con gli altri è vitale. Ma aprirci significa comunque non lasciarci sopraffare o incantare da questo confronto e mettere in luce le componenti migliori della nostra specificità, in modo che proprio il confronto non finisca per travisarle e imporci dei modelli di soluzione inadeguati. Ci giocheremmo il nostro futuro. Occorre invece partire da un’osservazione disincantata di noi stessi, un profondo auto-esame di coscienza condotto con grande reciproca pazienza. Se non ci saranno ebrei italiani non ci saranno più rabbini italiani, poco ma sicuro. Ma è anche vero l’inverso: se non ci saranno rabbini italiani non ci saranno più ebrei italiani.
Pagine Ebraiche, luglio 2010