Elena Loewenthal
«Non so che cosa farà con me un futuro biografo – credo ben poco», scrive Bernard Malamud a un certo punto della vita. E non ha tutti i torti: pochi eventi segnanti, qualche vicissitudine d’amore, matrimonio, tradimento, un pugno di spostamenti qua e là per l’America, un significativo ma tutto sommato banale soggiorno in Italia. Una vita comune, insomma, che compirebbe giusto novant’anni questo ventisei di aprile, iniziata a Brooklyn da due genitori ebrei originari dell’Ucraina e chiusa il 18 marzo del 1986, per un infarto fatale.
Assomiglia, questa vita, a quella di molti dei suoi personaggi: uomini comuni dalla quotidianità insignificante che neanche l’«evento» della narrazione riesce a spezzare. Anche se l’«evento» in questione è un corpacciuto angelo nero eppure ebreo, come capita al sarto Manischewitz ne L’Angelo Levine: più un disturbo e un turbamento che un benefattore cascato dal cielo, questo essere misterioso ed equivoco che lo sventurato sarto si trova a inseguire per le bettole di Harlem.
Bernard Malamud è stato un maestro del racconto. Ha scritto anche molti romanzi, a incominciare da Il fuoriclasse da cui fu tratto un fortunato film con Robert Redford (Il Migliore, 1986), che apre il primo volume dei Meridiani Mondadori dedicato alla scrittore per la cura di Paolo Simonetti, con un saggio introduttivo di Tony Tanner. Non meno indimenticabili sono L’Uomo di Kiev e Il giovane di Bottega (tradotto anche come Il Commesso), presenti anch’essi in questa indispensabile edizione. Ma la vera sua cifra narrativa è sempre stata il racconto: genere, in fondo, quanto mai attuale, perché a voler fa da sfondo, quanto mai attuale, perché a voler fare della contestualizzazione nel presente ad ogni costo vien quasi da dire che le storie di Malamud, quelle che si aprono e chiudono in un pugno di pagine, sono un po’ come dei tweet di un romanzo che c’è e non c’è, un distillato di narrazione. In questo senso, e venendo su un piano di più ragionata storia letteraria, Malamud è stato il precursore di un certo minimalismo che non si rifugia nel racconto ma lo sceglie come priorità assoluta perché meglio di ogni altro genere esprime la modernità e apre orizzonti narrativi. Perché non è un ripiego in mancanza di più larga ispirazione ma il terreno privilegiato di una grande letteratura.
I racconti di Malamud sono infatti un’esperienza che non sai mai dove ti porterà, quando li cominci: «Feld, il ciabattino, era seccato che il suo aiutante Sobel fosse così insensibile alle sue fantasticherie da non cessare per un attimo di martellare fanatico sull’altro deschetto. Gli lanciò un’occhiata, ma Sobel tenne la testa calva china sulla forma, senza accorgersene». Qui, ne I Primi Sette Anni, la trama che si dipana ha un sapore biblico, e neanche troppo vago. Ma è pur vero che la dimensione naturale di questa ricca messe di racconti è quella esistenziale: Malamud racconta condizioni umane. «Sono una sorta di invenzione, una metafora per certe possibilità e certe promesse umane», ne scrive Philip Roth. I personaggi di Malamud sono esemplari, sono simboli della condizione a lui contemporanea, per lo più tratti da quel mondo ebraico che rappresenta l’emblema dello spaesamento nel melting pot americano. Queste figure, dall’umiltà quasi disturbante, sono costantemente impegnate in una ricerca che non sanno dove li porterà, e men che meno lo deve sapere il lettore. Il ciabattino Feld non ha idea di che cosa passi per la testa del suo aiutante, ma alla fine lo scoprirà. Le scarpe della domestica Rosa faranno uno strano, breve ma impensabile viaggio fra piedi diversi.
Tutto sembra svolgersi in un presente grigiastro, decisamente poco entusiasmante. Eppure Malamud va ben al di là del ritratto sociale, del racconto calcato in una realtà storica all’insegna dello squallore e della meschinità. C’è sempre un che di eroico nell’andamento della trama, per intanto. C’è, soprattutto, la potenza di una grande narrazione, un talento formidabile nel puntare la penna sui particolari, sugli scenari domestici e urbani, sull’impercettibile moto di un sopracciglio. I personaggi di questi racconti sono sempre fotografati in modo mirabile, anche quando sono brevi comparse, immagini bislacche che passano in un sogno: «L’inverno aveva abbandonato le strade cittadine, ma il viso di Sam Tomashevsky, quando entrò inciampando nel retro della sua drogheria, era una tormenta. Sura, che sedeva al tavolo rotondo mangiando pane e pomodoro col sale, alzò gli occhi spaventata, e il pomodoro si fece più rosso» (Il costo della vita).
Ma al di là di questa straordinaria potenza narrativa che fa di Malamud il maestro del racconto contemporaneo, c’è quasi sempre in queste messe di storie anche una chiave di lettura surreale, carica di un sarcasmo che spiazza il lettore, lo sconcerta e lo fa sorridere. Soprattutto, lo mette di fronte alla realtà – anzi lo inchioda con le spalle contro il muro della realtà per quello che è: spesso più assurda che attendibile.
La Stampa – 5.4.14
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