Il grande pensatore medievale aveva già descritto le tre fasi dell’odio anti-ebraico. L’ultima è quella che stiamo vivendo oggi
Giorgio Berruto
Nella sua Lettera allo Yemen, scritta intorno al 1172 per sostenere la comunità ebraica yemenita (sconvolta da fattori esterni e interni su cui non mi interessa qui entrare), Maimonide articola una visione che mi sembra sorprendentemente attuale del rapporto tra Israele e le altre nazioni, soprattutto alla luce del modo in cui larghe fette di opinione pubblica occidentale considera oggi Israele e il mondo ebraico. Nella Lettera Maimonide distingue tre fasi dello scontro storico tra il popolo ebraico e il mondo circostante: una progressione che parte dalla violenza esplicita, passa per il confronto culturale e sfocia infine nella sovversione ideologica. Nonostante la presenza di riferimenti storici, quella delineata da Maimonide è una filosofia o forse meglio una teologia della storia. Questo non significa che sia meno attuale, ma che le tre fasi vadano intese, un po’ hegelianamente, come momenti della storia delle idee in larga misura sovrapposti, anziché come tasselli precisamente successivi uno all’altro.
La prima fase è per Maimonide quella dello scontro fisico diretto finalizzato all’annientamento e alla persecuzione, in cui Israele viene perseguitato materialmente. È la fase della guerra nel senso tradizionale, cioè militare del termine. I nemici – tra i quali Maimonide menziona Amalek, Nabucodonosor, Tito e Adriano – combattono Israele con la spada, la deportazione, la distruzione. È una lotta aperta e priva di mediazioni ideologiche: Israele è odiato e combattuto per la sua esistenza. Una dinamica analoga si ritrova nell’antisemitismo novecentesco, in particolare quello nazista, che ha portato allo sterminio sistematico degli ebrei europei, e quello arabo soprattutto nel periodo delle guerre arabo-israeliane fino agli anni ’70, scatenate dalla negazione da parte dell’Egitto e di altri paesi del diritto all’esistenza di Israele e dalla conseguente messa in campo di eserciti regolari. Come nel caso delle guerre di cui parla Maimonide, siamo qui di fronte a conflitti militari diretti ed espliciti.
La seconda fase descritta da Maimonide è quella dello scontro delle idee, o se si preferisce della penetrazione e delegittimazione culturale. Questa è la sfida portata dai persiani e soprattutto dai greci e da dinastie ellenistiche come quella dei seleucidi (controparte dei Maccabei nella storia alle origini della festa di Chanukkà). In questo caso la sfida si sposta sul piano culturale e filosofico, con Israele che viene messo sotto pressione non tanto con la violenza diretta, quanto soprattutto con gli strumenti della civiltà e della cultura: lingua, arte, moda, benessere, filosofia. Il pericolo non è più la distruzione bensì l’assimilazione, cioè la dissoluzione delle peculiarità della tradizione ebraica nella civiltà dominante. Fiumi di inchiostro sono stati versati su quanto questo modello sia stato presente nell’Ottocento borghese in cui regolarmente agli ebrei che bussavano alla porta delle loro nuove patrie veniva chiesto come “biglietto d’entrata” la rinuncia alle peculiarità ebraiche, e talvolta anche un vero e proprio certificato di battesimo. Ma anche oggi questa dimensione si ritrova in una forma di antisemitismo relativamente meno riconoscibile eppure profondamente radicata nei circuiti culturali e intellettuali europei e americani: l’appartenenza ebraica viene descritta come chiusa, etnica, tribale, legata a pregiudizi e usi atavici, incapace di universalismo, mentre lo stato di Israele è presentato come un corpo estraneo al Medio Oriente, un’anomalia coloniale, un’entità “bianca” senza legittimità né storica né culturale. Questo antisemitismo è sovente mascherato da analisi geopolitica, sociologica o antropologica, ma dal 7 ottobre (proprio dal 7, cioè prima della risposta militare israeliana a Gaza) a parere di chi scrive sempre più spesso deliberato, esplicito, espresso senza nascondimento e anzi con vanto.
La terza fase è quella dell’appropriazione ideologica e del rovesciamento dei valori e, per Maimonide, è anche la più pericolosa. Qui i nemici non si limitano né a combattere Israele dall’esterno né a combatterlo con la cultura, la forza delle idee e le lusinghe dell’assimilazione, ma si appropriano del cuore della sua eredità, che svuotano e rovesciano di senso. È il caso secondo Maimonide del cristianesimo e dell’islam, che pretendono di continuare, sostituire e dare forma nuova alla rivelazione ebraica – il cristianesimo come “vera Israele”, l’islam come rivelazione ultima e definitiva che riassume, rilegge e deforma le rivelazioni precedenti – utilizzando il linguaggio della Torà ma sovvertendone, almeno da un punto di vista ebraico, il significato. Una dinamica in qualche modo analoga si osserva oggi nell’uso selettivo e manipolato del linguaggio dei diritti umani, una categoria del discorso filosofico nel Novecento nutrita in modo decisivo dal pensiero ebraico (sia attraverso i temi e le sensibilità, sia nella biografia di numerosi suoi padri e madri), che oggi viene rivolta contro lo stato di Israele con accuse di “genocidio”, “infanticidio” e “crimini contro l’umanità”. Siamo di fronte a una inversione semantica: il linguaggio sviluppato per proteggere minoranze ebraiche e altre identità vulnerabili (donne, omosessuali eccetera) e descrivere lo sterminio nazista diventa uno strumento di delegittimazione di Israele. In questa terza fase lo scontro si presenta nella forma del giudizio morale universale: chi parla in nome dei “diritti umani” pretende di farlo in nome di una verità superiore. L’ideologia intersezionalista, secondo la quale schierarsi senza sfumature contro Israele è imprescindibile per affrontare temi come i diritti civili, l’emergenza climatica o le difficoltà dell’integrazione, rappresenta la punta di diamante di questa tendenza.
Un classico come Maimonide è tale forse anche per la capacità di mantenere tutta la sua forza anche quando viene catapultato fuori contesto, come ho provato a fare. Da una violenza frontale visibile si passa a una violenza ideologica sottile ma non meno temibile e infine all’appropriazione e all’esclusione: esclusione dalla rivelazione ieri, secondo il filosofo andaluso; esclusione dall’umanità oggi, nella diffusa vulgata dell’odio antisemita a malapena celato sotto il velo della comunque inaccettabile demonizzazione dello stato di Israele. La terza fase, oggi, corrisponde alla messa al bando dall’umanità di Israele – lo stato e la comunità di Israele –, accusata di disumanità, in nome di una presunta “vera Israele” dei diritti umani. Per Maimonide, proprio l’ultima fase rappresenta la prova più difficile. Resistere senza cedere, mantenere le proprie convinzioni nel mezzo della tempesta senza farsi annientare o confondere è la strada che indica.