L’assetto del Seder così come lo conosciamo e lo realizziamo risale ai tempi della Mishnah (II sec.). I Maestri che hanno stabilito le regole vedevano nella condizione degli Ebrei del loro tempo soggetti ai Romani una attualizzazione della schiavitù egiziana. Il Seder così come lo svolgiamo non è dunque, nelle intenzioni di chi lo ha codificato, solo il memoriale di un lontano passato, ma è l’espressione ardente di una speranza di prossima liberazione riferita al presente. E’ certamente questa una delle ragioni per cui il Seder si svolge di sera ancorché l’uscita dall’Egitto sia avvenuta materialmente di giorno (Shemot 12, 22 e 41). La notte è, nel pensiero dei nostri Maestri, simbolo dell’esilio: non l’esilio di allora, nella fattispecie, bensì quello di oggi. Il racconto del Seder celebrato a Benè Beràq per tutta la notte, come riportato nella Haggadah, fa probabilmente riferimento al periodo più buio della persecuzione romana. Noi viviamo nella vibrante attesa che spunti una nuova alba, come annunciato allora dai discepoli, rimasti probabilmente all’esterno della sala a guardia dell’uscio: “Maestri, è finalmente giunta l’ora di recitare lo Shemà’ del mattino”.
E’ peraltro noto il concetto di “buio del mattino” (qadruta de-tzafra: Zohar 170a): le tenebre si fanno più fitte proprio quando il giorno è prossimo. R. Eli’ezer Nachman Foà, Rabbino a Reggio Emilia nel XVIII secolo, fa leva su questa argomentazione nel suo commento alla Haggadah. Come nell’esilio si piange di notte, perché nel silenzio il grido di dolore fa più impressione (cfr. Ekhah 1, 2 e Rashì ad loc.), così il giubilo della redenzione deve anch’esso levarsi di notte, in una sorta di contrappasso positivo. In questa chiave egli ci dà un’affascinante interpretazione del celebre Mah Nishtannah. L’analisi che segue è ispirata a questo autore.
מַה נִּשְׁתַּנָּה הַלַּיְלָה הַזֶּה מִכָּל הַלֵּילוֹת
“In che cosa è diversa questa sera da tutte le altre sere?” diviene, nella sua lettura: “In cosa diverge questo esilio presente del popolo ebraico da tutti i precedenti esili?” Nella sua visione l’esilio in cui viviamo, provocato dai Romani, è il più lungo, il più duro, ma sarà l’ultimo, vigilia della redenzione finale. Questa considerazione giustifica l’interrogativo: c’è qualcosa in questa esperienza che la distingue dalle passate in modo da farci intravvedere l’alba della liberazione definitiva? Egli ricostruisce la realtà dell’esilio e ritiene che essa si possa articolare in quattro diverse forme di preoccupazione: a) assimilazione: lasciarci trascinare dai costumi dei popoli presso i quali siamo costretti a dimorare; b) violenze personali e privazioni di carattere sociale cui l’esule è naturalmente esposto; c) senso di precarietà temporale e mancanza di prospettiva, dovuta alla costante incertezza del proprio futuro; d) instabilità di sede: l’esule sa di non poter mettere radici nel luogo in cui si trova, per il rischio costante di essere costretto a uno spostamento. A queste quattro considerazioni darebbero riscontro le quattro domande del Mah Nishtannah così come sono formulate nella Haggadah.
שֶׁבְּכָל הַלֵּילוֹת אָנוּ אוֹכְלִין חָמֵץ וּמַצָּה, הַלַּיְלָה הַזֶּה – כּוּלוֹ מַצָּה
“In tutti gli altri esili mangiavamo Chametz o Matzah, in questo esilio solo Matzah”. Nelle precedenti tragedie della nostra storia l’assimilazione costituiva un grave rischio paventato. Nel pensiero dei nostri Maestri il Chametz, ovvero “il lievito dell’impasto” (seòr she-ba’issah; Berakhot 17a) simboleggia l’Istinto del Male che ci corrompe e ci trascina alla trasgressione. L’attrazione esercitata dagli usi degli altri popoli era dominante: si pensi in particolare all’epoca della dominazione greca, in cui si formò all’interno del nostro popolo addirittura un partito: gli “ellenizzanti” (mityawwenim). Allora la Matzah, che rappresenta l’Istinto del Bene, era solo un’opzione seguita ahimè dalla minoranza, come accade durante l’anno in cui “non ci separiamo dal Chametz”. Nell’esilio presente, invece, ci nutriamo solo di Matzah: riusciamo a vincere la tentazione di assimilarci e questo costituisce un primo segno positivo in vista della redenzione finale. Da notarsi che questa domanda viene rivolta per prima (secondo la Mishnah Pessachim 10, 4, uso mantenuto oggi nelle edizioni della Haggadah di rito ashkenazita): la preoccupazione costituita dall’assimilazione è più forte di tutte le altre.
שֶׁבְּכָל הַלֵּילוֹת אָנוּ אוֹכְלִין שְׁאָר יְרָקוֹת, – הַלַּיְלָה הַזֶּה מָרוֹר
“In tutti gli altri esili pativamo ogni sorta di sofferenza e privazione, simboleggiate dalle verdure, in questo esilio solo amarezza”. In ordine di gravità, la maggiore preoccupazione dopo l’assimilazione sono le sofferenze. Le verdure (yeraqot) simboleggiano le privazioni: solo chi non ha mezzi si alimenta con esse (“è meglio un pasto di verdure ove regni l’amore, piuttosto che un bue ingrassato ove vi sia odio”: Mishlè 15, 17). Daniel, giovane ebreo scelto fra quelli portati alla corte babilonese durante l’esilio per essere educati ai valori della cultura dominante, si nutriva di sole verdure per non venir meno alle regole della kashrut (cap. 1) e così narra il Talmud a proposito della regina Ester (Meghillah 13a su Est. 3, 9). Da qui l’uso codificato di mangiare verdure durante il pranzo di Purim (Remà a Orach Chayim 695, 2). Avere il volto verde (panim moriqot), nel senso di “ingiallire, impallidire” è detto nella Mishnah di una persona sottoposta a pesante stress fisico e psicologico (Sotah 3, 4). La stessa Ester, in procinto di recarsi dal re Achashverosh a perorare la causa degli Ebrei, è descritta nel Talmud come yeraqròqet: pallida (lett. “verdognola”) d’aspetto, come il mirto di cui recava il nome (Hadassah: Meghillah 13b). Se “ogni sorta di verdure” caratterizza gli esili passati, questa volta mangiamo solo erba amara: è l’amarezza del ricordo di un triste passato che ci auguriamo non si presenti più. Nella Mishnah il termine biblico maròr, ancora qui adoperato nella Haggadah, è significativamente sostituito con chazèret (Pessachim 10, 3) da una radice che significa “ritornare”: esprimiamo così l’auspicio che “la (nostra) corona ritorni ai suoi legittimi padroni” (cfr. Wayqrà Rabbà 13, 5).
שֶׁבְּכָל הַלֵּילוֹת אֵין אָנוּ מַטְבִּילִין אֲפִלּוּ פַּעַם אֶחָת, – הַלַּיְלָה הַזֶּה שְׁתֵּי פְּעָמִים
“In tutti gli altri esili non intingevamo neanche una volta, in questo esilio due volte”. La mancanza di prospettive caratterizza la psicologia degli esuli, che anelano alla salvezza ma “non vedono la fine” delle proprie sofferenze. I due intingoli del Seder ci indicano che il tempo ha un andamento finalistico. Il Ben Ish Chay di Baghdad (‘Od Yossef Chay, anno I, P. Tzaw, 9) ci insegna che si comincia intingendo un cibo relativamente dolce in un liquido aspro o amaro (aceto o acqua salata) per ricordarci che nelle umane cose la buona sorte ha un limite e viene inevitabilmente seguita da periodi duri. Il concetto era ricordato al re Shelomoh dall’anello che portava al dito, con la scritta gam zeh ya’avor (“anche questo passerà”). Ma una volta cominciate le sofferenze tornava a guardare l’anello, rileggeva la frase e si rinfrancava: torneranno tempi migliori. A ciò allude il secondo intingolo, costituito da erbe amare in un liquido dolce (il charòsset). Questa visione prospettica è apprezzata solo da chi è in procinto di essere liberato, come noi, che siamo all’ultimo stadio dell’esilio. Quando invece eravamo ancora nel colmo delle sofferenze (gli esili precedenti) non riuscivamo a darci una ragione del tempo che passava e pertanto “non intingevamo neanche una volta”.
שֶׁבְּכָל הַלֵּילוֹת אָנוּ אוֹכְלִין בֵּין יוֹשְׁבִין וּבֵין מְסֻבִּין, – הַלַּיְלָה הַזֶּה כֻּלָנו מְסֻבִּין
“Negli altri esili mangiavamo chi seduti (in modo informale), chi adagiati (sui triclini); in questo esilio siamo tutti adagiati”. Ai tempi della Mishnah si distinguevano due posture durante il pasto: la yeshivah (normale “seduta”) e la hassebah sui triclini. La differenza aveva conseguenze sul modo di recitare la Berakhah di Hamotzì con cui si dava inizio ad un pasto in comune. “Se (i commensali) si erano (semplicemente) seduti a mangiare, ognuno recitava la Berakhah per conto proprio”, perché si trattava di un convegno informale, in cui essi non si erano dati appuntamento; “se invece avevano adottato la hassebah, uno avrebbe recitato la Berakhah per tutti” (Berakhot 6, 6), come tuttora siamo abituati a fare dopo il Qiddush del venerdì sera. In tal caso si tratta infatti di un pasto convenuto. E’ dunque evidente che la hassebah denota una condizione agiata, tipica degli uomini liberi e indipendenti, mentre la semplice yeshivah era assunta da chi doveva mangiare in fretta perché costretto subito dopo a recarsi altrove. E’ una metafora della precarietà spaziale degli esuli, costretti a vagare da una sede all’altra. Non a caso questa domanda non è presente nella versione preesilica del Mah Nishtannah come ci viene presentata nella Mishnah sostituita, come vedremo, da un’altra: mentre infatti gli altri tormenti (assimilazione, sofferenze e mancanza di prospettiva) sono attestati anche in caso di occupazione e persecuzione straniera nella nostra terra, quest’ultimo no. A differenza degli esili precedenti, oggi ci permettiamo di mangiare con hassebah, per segnalare che la liberazione è vicina. Incidentalmente oggi le abitudini alimentari sono mutate e il Seder di Pessach è l’unica occasione annuale in cui adottiamo la hassebah secondo il costume in voga all’epoca dei Romani: per sette volte nel corso della serata e precisamente le tre volte in cui consumare la Matzah è d’obbligo (Motzì Matzah, Korèkh e Tzafùn), nonché per i Quattro Bicchieri di vino, noi mangiamo e beviamo stando reclinati sul braccio sinistro in segno di libertà (derekh cherùt). Quest’ultima considerazione risponde dunque anche a una “quinta domanda”: perché nel Mah Nishtannah non vi sia alcun apparente riferimento alla Mitzwah del vino, che è in realtà compresa nella quarta!
שֶׁבְּכָל הַלֵּילוֹת אָנוּ אוֹכְלִין בָּשָׂר צָלִי, שָׁלוּק, וּמְבֻשָּׁל, הַלַּיְלָה הַזֶּה כֻלּוֹ צָלִי
R. Eli’ezer Nachman Foà si limita a prendere in esame il Mah Nishtannah postesilico, secondo il testo delle Haggadot che noi recitiamo da quando il Bet ha-Miqdash è stato distrutto. Ma al posto dell’ultima domanda la Mishnah ne riporta un’altra, che è stata sostituita perché si riferisce al Qorban Pessach e dunque non è più attuale. “Perché in tutte le notti (d’esilio) noi mangiamo carne arrostita allo spiedo, stracotta o bollita e questa notte solo carne arrostita?” Proviamo a immaginare di inserire anche questa nel quadro interpretativo che abbiamo dato. Anche se oggi non siamo in grado di portare avanti questa fondamentale Mitzwah, l’offerta del Qorban Pessach, con le sue regole e modalità particolari che ci vengono presentate nella Torah, è avvolta in simboli molto profondi e assai precisi, che meritano di essere riscoperti in tutto il loro significato, sempre attuale anche per l’uomo moderno. “E prenderanno ciascuno un agnello per famiglia” (Shemot 12, 3): lo stesso animale non poteva essere diviso fra più famiglie, né essere consumato in case differenti. Il Maharal di Praga spiega che lo scopo del Qorban Pessach è riaffermare nel popolo ebraico il valore dell’Unità, che passa anzitutto attraverso la valorizzazione della stabilità del gruppo. Allo stesso concetto di Unità il Maharal ricollega anche le regole sulla scelta dell’animale e sul modo in cui cuocerlo. L’agnello è simbolo di mansuetudine: non è un animale aggressivo, né adatto per essere sottoposto a fatiche. Le sue energie restano concentrate, anziché disperdersi in più direzioni. Così l’arrostitura allo spiedo (“Non lo mangerete semicrudo, né bollito in acqua, bensì arrostito sul fuoco: la testa con le zampe e le interiora”; Shemot 12, 9), dice ancora il Maharal, ha l’effetto di rassodare le carni facendone traspirare i liquidi, laddove la cottura in acqua ne provocherebbe più facilmente la sfaldatura. Il riferimento simbolico potrebbe essere a un’ulteriore situazione che si verificò come conseguenza dell’esilio egiziano subito dopo la liberazione allorché una cellula di dissidenti stranieri fuorusciti insieme agli Ebrei, il ‘erev rav, provocò una ribellione del popolo ebraico dall’interno. Ciò si verificò solo allora, ma l’Unità del popolo resta comunque un obbiettivo ancora da raggiungere. Quando ciò avverrà, saremo pronti a ricostruire il Bet ha-Miqdash e a riprendere il Qorban Pessach. E allorché saremo di nuovi compatti come l’agnello cotto allo spiedo, torneremo a dire: “questa notte (mangiamo) solo carne arrostita”!