Israele, scontro frontale tra i fondamentalisti e le istituzioni. Da Londra ad Anversa: no alla modernità, sì alle leggi.
Francesca Paci
All’ingresso della Yesodey Hatorah Jewish School di Amhurst Park, periferia Est della City londinese, una foto autografata della Regina Elisabetta II accoglie ogni mattina i 500 figli con i boccoli detti «peot» e le 700 figlie in severo abito scuro d’uno degli ultimi «shtetl» d’Europa. Qui, a ridosso di quell’enclave anglo-musulmana punteggiata di minareti nota come Londonistan, vivono circa 20 mila ebrei ortodossi, un terzo della comunità haredi, disseminata tra Anversa e Parigi, che si veste, mangia, parla alla maniera degli antenati polacchi di tre secoli fa. «Il rapporto tra i gruppi chassidici europei e il paese in cui risiedono non ha nulla della conflittualità esplosa nei giorni scorsi a Gerusalemme» nota lo storico Ariel Toaff, professore emerito all’Università Bar Ilan di Tel Aviv e autore del saggio «Il prestigiatore di Dio».
Vale a dire contraddizione zero tra lo studio dei precetti rabbinici e Sua Maestà britannica: «Tutti negano il primato dello Stato sulla religione e obbediscono esclusivamente alla Torah ma chi non abita in Israele si adegua alla legge del governo guidato da non ebrei accontentandosi di osservare usanze e riti nel quartiere». Il codice interno è rigido: abbigliamento modesto, separazione tra i sessi, alimentazione regolata dalla «kashrut» senza carne di maiale, cavallo o coniglio, famiglie giovani e prolifiche con le donne al lavoro e gli uomini curvi sui libri come nei romanzi di Isaac Bashevis Singer. Quello esterno si piega, più o meno volentieri, alla Costituzione inglese, francese, belga. Chiunque si sia addentrato almeno una volta nei vicoli del quartiere ebraico di Anversa, dove, come nel Medioevo, otto famiglie su dieci guadagnano tagliando diamanti e le altre si occupano di transazioni immobiliari, commercio d’antichità judaica o cambiavalute, attività che sottraggono poco tempo allo studio della Torah e possono essere facilmente svolte in casa da mogli e figlie, conosce l’atmosfera da fortino impermeabile alla modernità.
«Il primo scontro tra gli ortodossi e il resto della comunità risale alla fine del 1600, quando nella Polonia meridionale un gruppo di oltranzisti contesta gli strumenti da macellazione», spiega lo studioso David Bidussa, che per la casa editrice La Giuntina ha curato il volume di Yosef Yerushalmi «Assimilazione e antisemitismo razziale». Il resto è un processo d’allontanamento che culmina nella frattura di duecento anni dopo: da un lato gli ebrei integrati al mondo post rivoluzione industriale, dall’altro gli ortodossi e gli ultra, custodi dell’immobilismo biblico. Le migrazioni di fine ‘800 verso le prosperose capitali europee e gli Stati Uniti li vedono già separati in casa, fratelli talvolta coltelli fino al battesimo dello Stato d’Israele, coronamento del sogno sionista per i primi e per i secondi colpevole anticipazione dell’ancora attesa venuta del Messia al punto che oggi le sinagoghe più oltranziste dello Yemen incoraggiano la fuga verso New York anziché verso Gerusalemme.
«Gli haredim rifiutano comunque l’integrazione con la società in cui vivono, gentile o ebraica non ortodossa» nota Anna Foa, docente di Storia moderna e autrice del libro «Ebrei in Europa». Se in Israele la diatriba su chi abbia il diritto di governare e secondo quale principio investe la sfera politica, a Londra come a Parigi si compone nell’esibizione quasi folklorica di un’alterità: «Grazie alla totale assenza di conflittualità generazionale le comunità ortodosse europee tendono a chiudersi in autoghetti in cui, compatibilmente con le leggi nazionali, possano tutelare le proprie tradizioni, dalle scuole religiose private tipo yeshiva all’uso della lingua yiddish».
Se la routine quotidiana impone loro di ricorrere all’inglese o al francese, inimmaginabile sentirli parlare ebraico: «L’ebraico è sacro. Ben Yehuda, il padre dell’ebraico moderno, fu accusato d’averlo profanamente laicizzato e suo figlio, che se ne serviva per comunicare con il cane, venne brutalmente aggredito». «Diversamente da quelli americani, militanti in modo postmoderno e in parte simile all’islam politico, gli ebrei ortodossi europei resistono arroccati in un mondo premoderno» chiosa Bidussa. Il pendolo dell’identità oscilla tra passato e futuro come i rabbini in preghiera con il tallit sulle spalle.