Maria Novella De Luca – 28 gennaio 2022
Nato e cresciuto al Portico d’Ottavia, Gabriele Sonnino da ventisei anni è il custode della grande sinagoga di Roma. Quale migliore guida per entrare nel cuore della comunità? Reportage
Roma. È poco dopo l’alba – caldo, freddo, pioggia o vento – che ogni mattina, da ventisei anni, Gabriele Sonnino apre le porte del Tempio Maggiore. Nel silenzio delle prime ore del giorno, sotto la volta stellata della cupola con la luce che filtra dalle vetrate art nouveau, Sonnino, shammash (cioè custode) della più grande e antica sinagoga di Roma, prega nella quiete della grande aula vuota e si prepara ad accogliere chi arriva per la funzione del mattino. Tira fuori i talled, prepara le kippot per chi non le avesse, i tefillin, “sveste” i rotoli del Sefer Torah che poi rabbini leggeranno dal pulpito.
Cinquant’anni, quattro figli, un sorriso largo, gli occhi limpidi e la tendenza a far trasparire le emozioni, Gabriele Sonnino, nato e cresciuto al Portico d’Ottavia, “romano da generazioni, mia madre lavorava alla scuola ebraica, qui dietro noi ragazzini giocavano a pallone”, il nonno paterno morto ad Auschwitz, trenta parenti mai più tornati dai campi di sterminio, è il motore quotidiano e la memoria storica della sinagoga. Ha incontrato due papi e chi – ogni giorno – con un proprio dolore o una propria gioia entra per pregare, per trovare conforto. Dietro le tre funzioni quotidiane, un matrimonio o un funerale, le luci di Hannukah o le cerimonie di Pesach o di Yom Kippur c’è lui, Sonnino, spesso con il suo frac nero che spicca sul pulpito accanto al talled bianco e blu dei rabbini.
“Uno dei momenti che preferisco è accogliere i bambini. Portano gioia e allegria. Ci devi scherzare pur nel rispetto del luogo. Non sapete che commozione quando incontrano i sopravvissuti della Shoah, che vengono con al collo i fazzoletti dei deportati. E raccontano. Anzi, raccontavano, perché sono morti quasi tutti. L’ultimo incontro con le scolaresche, prima che il Covid ci fermasse, l’ha fatto Sami Modiano, che per fortuna è ancora con noi”.
Ed è in una mattina fredda ma luminosa che Gabriele Sonnino, insieme ai rabbini Alberto Funaro e Cesare Efrati, ci apre le porte del Tempio Maggiore, cuore della comunità ebraica romana. Per un viaggio a più voci dentro i riti e i segreti di questo edificio massiccio affacciato sul Tevere, iniziato alla fine dell’Ottocento e inaugurato nel 1904, quando finalmente agli ebrei fu permesso costruire sinagoghe monumentali, proprio lì, in quello stesso quartiere, anzi nel ghetto, nel quale per secoli erano stati segregati. Là dove oggi una lapide ricorda un bimbo di due anni, Stefano Gaj Taché, ucciso nell’attentato terrorista palestinese del 9 ottobre 1982. Era un sabato e la sinagoga era gremita, si celebrava anche un bar mitzvà, il piccolo Stefano morì, suo fratello e altre quaranta persone rimasero gravemente ferite. Là dove, ancora, alle spalle del Tempio, un’altra lapide rammenta a chi passa il rastrellamento nazista degli ebrei il 16 ottobre 1943, i mille portati via, i sedici soltanto che tornarono. E una scritta, forse la più straziante: “E non cominciarono neppure a vivere” in ricordo dei neonati uccisi nei lager.
La lezione del maestro
È il Morè (maestro) Funaro, così lo chiama affettuosamente Sonnino, a svelare come si svolge la vita nel Tempio Maggiore. Insieme a Cesare Efrati, suo allievo, e, nella vita, medico, così come Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità romana. “Anche io, come Gabriele, sono figlio del luogo. Sono nato in questo quartiere e non ne sono mai uscito, non mi sono mai trasferito. Conosco tutti, le famiglie, le storie. Se faccio una passeggiata sulla piazza sono tante le persone che si avvicinano: ‘Morè permette una parola’, ‘Maestro avrei questo problema…’. Del resto sono cinquant’anni che la mia vita è la sinagoga, insegno l’ebraico ai ragazzi del liceo, insegno al collegio rabbinico. La mia più grande soddisfazione non è soltanto vedere crescere i miei allievi e diventare maestri, come Cesare che mi sta qui accanto, ma poter celebrare la maggiorità religiosa dei figli dei figli dei miei allievi o il loro matrimonio. Si crea un legame che va oltre l’insegnamento dell’ebraico, dello studio della Torah (il Pentateuco). È condivisione dei problemi quotidiani, di un modo di vedere la vita”.
E spesso è proprio Gabriele Sonnino, “l’uomo che apre le porte del Tempio”, a fare da tramite tra chi è in cerca di un consiglio e i rabbini. Tramandare. Ricordare per non dimenticare. Essere moderni nell’antico. Spiega il rabbino Efrati: “Il senso della sinagoga oggi è proprio questo. Accanto alle preghiere tradizionali che recitiamo quotidianamente, qui da noi a Roma con il rito italiano e la particolarità dei canti, accanto a una liturgia che ripercorre le strade dei nostri antenati, ogni giorno, al Tempio, vengono persone che pregano perché hanno avuto una gioia o un lutto, una perdita o invece una nascita, chi sta per sposarsi o piange un parente. E così, in quest’aula, dove ci si riunisce in tutti i momenti importanti della comunità, come fu per l’ultima guerra di Israele, le emozioni degli uni e degli altri si compenetrano”. Un’aula a croce greca, i matronei laterali, le pareti dipinte con i colori dell’arcobaleno. Piante di dattero e cedri del Libano secondo il gusto eclettico di inizio Novecento, la cupola stellata a base quadrata, l’altare (Tevà) dietro il quale protetto da un sontuoso drappo rosso c’è “l’Arca Santa”, l’armadio sacro (Aron Ha Kodesh) dove sono custoditi i rotoli della Torah che tre volte alla settimana Sonnino tira fuori per le funzioni e devono essere letti con l’aiuto di una “penna” per non toccare la pergamena. Non ci sono immagini di Dio, la religione ebraica ne vieta la raffigurazione.
Toc, toc, toc
Sonnino cammina indicando oggetti, cose, arredi. Svela, con un sorriso, che ogni mattina, prima di girare la chiave nel portone del Tempio, bussa tre volte. “Nel caso ci fosse qualche anima che sta ancora pregando, le do il tempo di andare via. La mia vita è qui dentro, da ventisei anni. Ci venivo da bambino con mio nonno materno. Mi sedevo vicino al coro. Mio padre, invece, era orfano e cresciuto al “Pitigliani”, l’istituto per i bimbi ebrei senza famiglia. Il Tempio è sempre stata la mia seconda casa. Ascolto le storie, conosco gli eventi felici e tristi dei membri della comunità, apro le porte ai visitatori che arrivano da tutto il mondo per ascoltare i nostri canti. Ecco, guardate l’organo, è antico e prezioso. Faccio da tramite con i rabbini, mi occupo dell’organizzazione pratica delle cerimonie. Ero ancora un ragazzo quando in sinagoga arrivò papa Wojtyla. Non ho assistito a quell’incontro, ma ho provato l’emozione di collaborare con il cerimoniale vaticano per preparare la visita di Benedetto XVI e poi di papa Francesco”.
E allora di quell’evento del 1986 che ha segnato la storia del Novecento, ossia il primo ingresso di un pontefice al Tempio Maggiore, bisogna ascoltare i ricordi di Alberto Funaro. “Ero in ufficio, con il rabbino Toaff, quando lui mi disse: “Sto per ricevere un cardinale importante”. Si chiusero nella stanza di Toaff, l’incontro durò oltre un’ora. Uscito il cardinale, Toaff mi chiamò: “Alberto, mettiti seduto, ho una notizia enorme: il Papa vuole venire in visita al Tempio”. Mi mancò il respiro. Ero giovane, per me l’emozione fu enorme. Il resto fa parte della Storia, con quella visita si sono ricucite ferite millenarie. Dopo Wojtyla ho avuto l’onore di incontrare Ratzinger e Bergoglio, credo di essere stato l’unico rabbino” scherza Funaro “ad aver accolto in sinagoga ben tre papi”. Insieme ai “maestri” Funaro ed Efrati, Sonnino apre l’armadio sacro, tira fuori i rotoli della Torah, mostra le fasce che proteggono le pergamene, i paramenti che le vestono. “Essere shammash vuol dire aprire le porte del Tempio. Un privilegio. Indimenticabile per me resta una domenica di tanti anni fa, quando tutti i reduci romani dei campi di sterminio celebrarono insieme, qui in sinagoga, le nozze d’oro. Poi, due anni fa, la visita del presidente Mattarella, l’incontro con gli allievi delle scuole ebraiche. Era il febbraio del 2020. I bambini hanno cantato e regalato al presidente il pane del sabato, gli inni hanno riempito di gioia ogni angolo del Tempio”. Mattarella che il 3 febbraio del 2015, nel giorno del suo insediamento al Quirinale, decise di ricordare proprio l’attentato del 1982 e il piccolo Stefano Taché che venne ucciso: “Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano”.
Sul Venerdì del 28 gennaio 2022
https://www.repubblica.it/venerdi/2022/01/28/news/sinagoga_rabbino-335206002/