SCRITTORI POLACCHI. Centrata sulle vicende di un cognome il cui significato in yiddish è «forte, cordiale», una saga familiare sugli ebrei di Polonia: «Gli Stramer» di Mikolaj Lozinski, da Bottega errante
In un video dell’artista israeliana Yael Bartana titolato Mary-Koszmary (Ombre-Incubi, 2007) l’attivista polacco Slawomir Sierakowski, leader del raggruppamento «Krytyka Polityczna», lancia ai cittadini israeliani un insolito appello: «Ebrei, tornate in Polonia, tornate nel vostro, nel nostro Paese! Vogliamo che facciano ritorno in Polonia tre milioni di ebrei e che abitino di nuovo insieme a noi. Tornate, per favore, abbiamo bisogno di voi». Potrebbe figurare come uno dei primi episodi di «philosemitic violence»: così gli studiosi Elzbieta Janicka e Tomasz Zukowski hanno definito il processo di disseppellimento del passato ebraico della Polonia cominciato dopo la chiusura della parentesi comunista. Un riflesso della visione «pacificata» di quello stesso passato, che si oppone al preteso «estremismo» storiografico – doppiamente «allogeno» in quanto di marca ebraica e anglosassone – incarnato, fra gli altri, da Jan Tomasz Gross che, con I carnefici della porta accanto (Mondadori 2002), aveva denunciato la complicità polacca in molti episodi di saccheggio e di assassinio ai danni della popolazione ebraica, durante la seconda guerra mondiale.
Nel frenetico tentativo della Polonia odierna di ricostruire le tracce della vita ebraica attraverso libri (Il re di Varsavia di Szczepan Twardoch, Sellerio, 2016), spettacoli teatrali, film o documentari (Po-lin di Jolanta Dylewska) ma anche tramite corsi di cucina kosher o visite guidate al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, quel mondo viene raccontato sempre da una prospettiva polacca (e spesso confessionalmente cattolica) ricorrendo nel migliore dei casi al paradigma culturale definito «allosemitismo» da Artur Sandauer, poi ripreso da Zygmunt Bauman: sulla base di attributi sacrali, mitici, esotici, agli ebrei verrebbe attribuita una «alterità» eccezionale che finirebbe con lo scatenare una reazione avversa al di là (?) delle intenzioni dei suoi sostenitori. Questa premessa sembra necessaria per affrontare un testo di non facile lettura, ma di grande interesse: Gli Stramer di Mikolaj Lozinski (traduzione di Francesco Annicchiarico, Bee, pp. 384, € 19,00), saga familiare centrata sulle vicende di un cognome che in yiddish significa «forte, cordiale» e che – spiega Lozinski – «è scomparso dopo la seconda guerra mondiale insieme a quasi tutto il mondo ebraico».
Stramer è il cognome del nonno dello scrittore, fatto non privo di conseguenze: a Lozinski e al fratello Pawel – affermato regista di documentari di scuola kieślowskiana – è stato più volte chiesto da esponenti della destra nazionalistica (e antisemita) polacca di «rivelare i loro veri cognomi». Dunque, e con ovvia provocazione, il «vero cognome» è diventato il titolo di un romanzo fatto di nomi – quelli del «patriarca» Nathan, re-immigrato dagli Stati Uniti in Polonia agli inizi del XX secolo, di sua moglie Rywka e dei loro cinque figli.
Intorno a questi nomi si distribuisce una filigrana semiotica che rimanda al contesto storico, all’ambientazione politica, alle radici religiose. Rywka è il diminutivo di Regina, matriarca disincantata sempre pronta a prendere le parti dei bambini contro il marito violento e dispotico, mentre il figlio Rudolf è stato così chiamato in onore del principe ereditario della casa d’Asburgo che regnava sulla Galizia al tempo della spartizioni della Polonia: il suo diminutivo polacco – Rudek – è facilmente associabile all’aggettivo «rudy», «rosso», in riferimento alla capigliatura ma anche a una possibile vocazione di rivoluzionario, rifiutata in nome del buon senso di marca positivista. Per parte sua, il fratello minore al quale è stato imposto il biblico nome di Salomon rivela una tempra sovversiva uguale se non maggiore di quella del fratello Hesio, che combatterà in Spagna (dove «non vedono un ebreo dai tempi dell’Inquisizione») nelle file delle Brigate internazionali.
Intorno agli Stramer, Lozinski ricostruisce un animato panopticon, immortalando le strade, le piazze, le sinagoghe, gli hederim di una Tarnów scomparsa e meticolosamente ricostruita grazie a lunghe ricerche di archivio. È un teatro stereoscopico affollato di personaggi epifanici come l’ungherese che giunge dalla lontana Pécs a vendere caldarroste, ma che dimostra una sospetta conoscenza dell’yiddish; oppure il calciatore ebreo, dall’incongruo cognome di Schreiber, oggetto di contumelie antisemite perché gioca indossando il talled sotto la casacca azzurra del Sanson, e tuttavia spesso impiegato dalla squadra «gentile» della città, il Tarnovia, per il suo vigore fisico. E, ancora, l’ufficiale degli ulani polacchi con i baffi alla maresciallo Pilsudski, il mendicante ebreo Meyer, il facchino orbo sul cui occhio perduto circolano le dicerie più pittoresche, la stravagante signora a cui è stato affibbiato il nome del bassotto con cui convive more uxorio. O l’erotomane figlio di contadini Flądra, aspirante ginecologo rurale che finirà inevitabilmente curato di campagna. A corollario l’occasionale e non sempre congrua presenza di figure storiche quali Ferenc Molnár, Oskar Kokoschka, Ludwig Wittgenstein o il bolscevico Karol «Radek» Sobelsohn.
Non è difficile avvertire nella prosa di Loziński echi lontani delle fantasmagorie di Bruno Schulz, riferimenti alle narrazioni «ginnasiali» di Witold Gombrowicz e alle grandi saghe di Isaac Bashevis Singer. Ma a caratterizzare anzitutto la struttura del testo è un intento politico, quello di ricostruire una storia forse non del tutto «pacificata» e condivisa, ma sicuramente compartecipata da ebrei e polacchi nel periodo tra le due guerre. Da qui l’insistenza sulla familiarità degli ebrei con la letteratura «grande polacca» e un po’ sciovinista di Henryk Sienkiewicz, le allusioni a un antisemitismo che non oltrepassa mai i limiti della zuffa di strada, e un raffigurare la scelta rivoluzionaria di Hesio e Salek come l’espediente più consono per trovare agli ebrei una collocazione nella società «ariana», pur astenendosi da spargimenti di sangue. Sovversivi gli ebrei lo sarebbero non per scelta, ma per necessità storica, al punto che Loziński si premura di specificare che Salek, vestito secondo i dettami della cospirazione con il bavero del capotto alzato e il cappello ben calcato sulla fronte, «di certo non aveva l’aria di un rivoluzionario». In fondo, il benpensante Rudek «si chiedeva come sarebbe stato il mondo senza Marx», ovvero come sarebbe andata a finire se Hitler e Stalin non fossero mai nati: nel suo anti-hegelismo, un simile interrogativo sembrerebbe persino anticipare il revisionismo storico di Ernst Nolte.
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