Emanuele Ottolenghi
NEL LORO PROGETTO E NELLE LORO “SCOPERTE” CHOC SI SENTE IL FUMUS PERSECUTIONIS VERSO IL NAZIONALISMO EBRAICO
Adriano Sofri si chiedeva se lo storico israeliano Benny Morris fosse impazzito. Se lo sono chiesti in parecchi negli ultimi tre anni. Morris ha inaugurato quasi vent’anni fa il filone della nuova storia israeliana, autoproclamandosi iconoclasta dei miti fondatori d’Israele in nome della verità storica. Altri lo hanno rapidamente seguito, non solo ergendosi a custodi della verità, ma presentando la riscoperta del passato come un atto di contrizione nazionale, strumentale a influenzare il processo di pace tra Israele e i palestinesi, che era contemporaneo alla loro produzione accademica.
Ma dal 2000 le cose sono cambiate e la pace è sfumata. I nuovi storici sono diventati agguerriti e militanti, asservendo la penna alla causa palestinese. Morris invece, coccolato fino ad allora come il beniamino della sinistra liberale filopalestinese, ha pubblicato una raffica di articoli e interviste in quotidiani e periodici in lingua ebraica e inglese, schierandosi dalla parte d’Israele nella più recente fase del conflitto, e accusando i palestinesi di non volere, né di aver voluto mai la pace. Qualcuno ha travisato una “conversione” dello storico, senza notare che manca negli scritti recenti di Morris una men che minima ritrattazione dell’opera passata. Morris non ha insomma cambiato idea sulla sua lettura del passato, semmai è sceso in campo dalla parte d’Israele, al contrario di quanto ci si poteva aspettare dalla natura dei suoi scritti. Forse dunque il “tradimento” di Benny Morris riflette la vera natura della nuova storia: non riesaminazione spassionata del passato, ma progetto politico. Sapere quel che accadde non è fine a se stesso ma strumentale a polemiche politiche che nulla hanno a che fare con la conoscenza.
La colpa di Morris quindi non starebbe nella storia che scrive, ma nell’uso che ora ne fa. Per questo motivo il suo compagno di strada e complice accademico, Avi Shlaim, si è azzuffato con Morris sul quotidiano liberale inglese The Guardian, attaccando Morris in un articolo del febbraio 2002, intitolato Il tradimento della storia. Il tradimento non consiste nel travisare i fatti del passato, ma nel prendere le parti di Israele. Da due anni ormai non si parlano più. Shlaim, seraficamente, sostiene che Morris non fa più parte del club dei nuovi storici, avendone tradito la causa. Vien da chiedersi quale sia il criterio di appartenenza al club dunque, visto che il disaccordo non è sulla storia, ma sul presente. Morris, per canto suo, continua imperturbabile sulla sua strada, con una nuova versione del suo libro sul problema dei rifugiati, di prossima uscita in Inghilterra, poco lusinghiera nei confronti d’Israele (Cambridge University Press). Non rinnega nulla e, chi conosce i suoi scritti, non solo il poco tradotto in italiano, sa bene che lo scontro tra Shlaim e gli altri nuovi storici da un lato, e il “nuovo” Morris dall’altro ha a che fare con la politica del presente, non con la storia del passato.
No, Morris non è improvvisamente impazzito. La natura dei suoi scritti rimane uguale, e se era scioccante la sua intervista su Haaretz del 9 gennaio scorso (alla quale Morris pubblica una secca replica di smentita una settimana dopo), lo storico dovrebbe trovare scioccante tutto quello che Benny Morris ha scritto in precedenza, perché, in parole povere, non è mai stato serio lavoro storico ma solo petulante e moralistica polemica.
Ma chi sono i nuovi storici israeliani, cosa sostengono e perché scatenano tanta curiosità, tante emozioni, tanto livore? Benny Morris non è solo, di pochi giorni fa è l’uscita in libreria della traduzione italiana del libro di Shlaim, Il Muro di Ferro; altri testi, non ancora tradotti in italiano, offrono una radicalmente riveduta e (s)corretta versione della storia recente del conflitto araboisraeliano.
A prima vista, la nuova storia rappresenta il tentativo di correggere la storia nazionalista che avrebbe caratterizzato la produzione accademica israeliana precedente. La posizione dei nuovi storici è che quanto detto e scritto prima di loro non era produzione accademica ma propaganda al servizio dell’ideologia nazionale: non solo la loro è un’interpretazione diversa della storia, ma i loro avversari sarebbero dei prezzolati, che hanno prostituito i valori dell’etica professionale accademica in nome degli interessi nazionali, dominando l’accademia per soffocare le voci di dissenso e mettendo a tacere la verità, nascondendo aspetti imbarazzanti e moralmente indifendibili del passato in nome dell’ideologia, in difesa dell’establishment, e per amor patrio. Se di revisionismo si tratta dunque, quello israeliano si presenta come un fenomeno positivo di transizione da una storiografia intesa come agiografia ufficiale, a volte apologetica e trionfalistica, a una più spassionata, critica, e quindi più oggettiva e imparziale lettura della storia nazionale. Chi contesta questa versione delinea un quadro leggermente meno roseo, accusando i nuovi storici di essere non un correttivo salutare alle distorsioni della storia in nome dell’interesse nazionale, ma una versione riveduta e corretta della propaganda anti sionista e anti israeliana, che sacrifica l’integrità professionale e intellettuale dei suoi fautori in nome di un’agenda ideologica.
Occorre quindi determinare se studiosi come Morris e Shlaim non siano colpevoli degli stessi “misfatti” di cui accusano i loro predecessori, e che invece di una storia nazionalista da rivedere e ridimensionare, il vero oggetto del contendere sia altro: ideologia, identità nazionale, e agenda politica e normativa che i nuovi storici sperano di imporre a Israele attraverso la loro produzione accademica e pubblicistica.
Esiste indubbiamente un elemento oggettivo di novità dietro i nuovi storici, cioè di materiale d’archivio divenuto disponibile a partire dagli anni Settanta che ha favorito la ricerca storica del periodo della fondazione d’Israele. Eppure esistevano già fonti ufficiali che offrivano versioni molto poco “ufficiali” e manichee, che peraltro nuovi storici non citano. L’apertura degli archivi, di per sé, non ha prodotto grosse novità. Molte delle “rivelazioni” dei nuovi storici storici erano già apparse in articoli e libri pubblicati in ebraico, e la faticosa reinterpretazione del passato era già cominciata, passando dagli ambienti accademici al pubblico e al sistema scolastico israeliano. I nuovi storici in questo senso non scoprono nulla di nuovo. La novità sta nel branding di se stessi come eroi controcorrente e nel marketing della loro vulgata al grande pubblico internazionale attraverso la pubblicazione dei loro scritti in inglese.
Inevitabilmente, il dibattito ha assunto un livore che tradisce la dimensione metaaccademica della polemica. Il punto infatti non è soltanto quello di stabilire (o ristabilire) la verità storica. Il periodico ripensamento di assodate verità è indubbiamente un principio sano in ogni disciplina e gli eventi che portarono alla fondazione di Israele non sono eccezione. Ma va anche aggiunto che il paradigma dominante non va sempre e comunque scardinato per partito preso. Il fatto che certi eventi storici e la loro interpretazione e narrazione scolastica possano incidentalmente confermare o rafforzare un sentimento nazionale non li rende per questo meno veri. Che la storia abbia in passato servito gli scopi della propaganda di entrambe le parti è indubbio. Quel che occorre dimostrare è che la “nuova storia” non sia una versione riveduta e corretta di vecchia propaganda.
Per studiosi come Morris e Shlaim quanto è stato rimosso, ed è loro compito rivelare, serve a negare qualsiasi legittimità al progetto sionista. La loro narrazione storica assume toni moralistici e svela la sua vera missione: non di rivedere il passato per amor di verità, ma per influenzare il corso degli eventi. Essi descrivono la loro missione come uno strenuo ed eroico sforzo di sfatare i miti e raccontare agli israeliani in che cosa veramente consista il loro passato collettivo di nazione. Nel fare ciò si presentano come vittime di un establishment che li imbavaglia, e questo nonostante che siano tutti cattedratici (tutti in Israele salvo Shlaim, a Oxford), che i loro libri e articoli vengano pubblicati in Israele e altrove e che vadano a ruba, e che i loro testi siano immancabili in ogni corso serio sul conflitto mediorientale. La loro autodifesa di scrittori samizdat controcorrente è romantica ed eroica, ma strumentale e inesatta.
Per uno Stato post nazionale
Qual è dunque la “rivelazione” dei nuovi storici? L’accusa ai padri fondatori dello Stato d’Israele, che furono anche responsabili del suo consolidamento, di aver fatto una scelta cosciente di nascondere le imbarazzanti verità di un progetto moralmente discutibile e costitutivamente difettoso – lo Stato ebraico – arruolando in questo loro “complotto” contro la verità il mondo accademico per scrivere e diffondere una versione ufficiale della storia.
La nuova storia quindi si presenta come uno sforzo accademico di mettere a nudo gli aspetti meno nobili del sionismo, in nome di due scopi: innanzitutto occorre “ristabilire la verità storica”, screditando le sue precedenti versioni. Ma se la “narrazione sionista” informa la memoria e l’identità collettiva e nazionale d’Israele in modi che esigono una rettifica, la conseguenza è la modifica dell’immagine di sé degli ebrei come nazione, investiti del diritto all’autodeterminazione nella loro terra ancestrale. Rivedere la storia non soddisfa soltanto le esigenze di una scolastica più critica e spassionata, ma anche la più nobile aspirazione politica di minare le fondamenta morali del sionismo per poterne sostituire il risultato politico più evidente e duraturo – lo Stato ebraico d’Israele – con un’esperienza politica diversa e nuova, cioè uno Stato post nazionale “di tutti i suoi cittadini”, privo di ogni connotazione nazionale ebraica, e immagine di valori liberali multiculturali. Più di tutto, nel contesto del Medio Oriente e dello scontro tra istanze nazionali ebraiche e palestinesi sul futuro della terra contesa tra i due nazionalismi, la nuova storia spera che, attraverso la delegittimazione del sionismo e della validità normativa e morale della sua ideologia per mezzo di un radicale ripensamento della storia recente, possa emergere un’opzione politica binazionale che sostituisca il sionismo, soppiantandolo con un’alternativa politica per i nuovi storici moralmente più coerente.
Il lato scientifico di “ristabilire la verità” è quindi meramente strumentale. La narrativa egemonica di cui viene accusato il sionismo serviva a presentarlo come un movimento nazionale legittimo che agiva a nome del popolo ebraico, nel tentativo di riprendere possesso della terra degli antenati attraverso una serie di atti moralmente giustificabili. In questo contesto, il ricorso alla forza da parte del sionismo per raggiungere i suoi scopi appariva come una difficile scelta figlia della necessità, di fronte alla violenza palestinese e al rifiuto arabo. Per i nuovi storici la narrazione sionista travisa la storia, presentando in maniera manipolativa gli ebrei come deboli e perseguitati, gli arabi come intransigenti guerrafondai e impervi al compromesso, gli inglesi come imperialisti un po’ antisemiti e in combutta con i leader arabi e il mondo come ostile o indifferente all’impossibile situazione degli ebrei nella Palestina mandataria del 1947. Il sionismo voleva la pace; i suoi avversari ne auspicavano l’annientamento manu militari. Israele era minacciato nella sua esistenza e il suo ricorso alla forza era giustificato vista la minaccia di distruzione mossale da nemici avversi al compromesso, che rifiutavano persino di riconoscere Israele e il suo diritto a esistere. Persa la guerra da loro iniziata, i leader arabi non erano in grado di prendersi la responsabilità del disastro da loro causato, cercando invece una rivincita che sfugge loro fino a oggi.
Secondo i nuovi storici il sionismo ha creato artificialmente questa narrativa della fondazione dello Stato per coprire i suoi “misfatti”. Nella versione “ufficiale” dunque, Israele aveva voluto la pace e solo con riluttanza aveva combattuto una guerra a esso imposta dall’aggressione di sette armate arabe, che Israele avrebbe poi sconfitto contro ogni previsione e nonostante tutte le avversità. Nonostante che gli inglesi si fossero schierati con le forze arabe, il neonato neonato Israele sarebbe emerso vittorioso e indipendente, nonostante l’altissimo tributo di sangue pagato. I leader arabi e i loro eserciti erano responsabili di una delle più tragiche conseguenze della guerra, cioè della fuga in massa dei rifugiati palestinesi. Dopo la guerra, Israele si sarebbe impegnato con dedizione a trovare un accordo di pace, scontrandosi con l’intransigente rifiuto arabo; nel frattempo, mentre i rifugiati palestinesi languivano nei campi profughi, vittime dei loro errori e delle irresponsabili e scellerate scelte dei loro leader, Israele assorbiva con successo e nonostante le difficoltà economiche gli ebrei espulsi dai paesi arabi, dando loro nuova vita, speranze e dignità all’interno dell’impresa sionista. Da questo quadro emerge un Israele senza macchia e senza colpe, costruito dal successo e dalla validità del progetto sionista.
La nuova storia nega tutto questo, offrendo a prima vista un approccio metodologico di tipo modernista – cioè un’interpretazione fondata su quel che si considerano essere nuove prove e documenti. L’apertura degli archivi per altro non completa il quadro documentario, visto che la maggior parte degli archivi ufficiali arabi sono chiusi ermeticamente al ricercatore. I nuovi storici notano questa mancanza da un lato, ma si difendono sostenendo che le fonti occidentali, sioniste ed ebraiche bastino a descrivere con efficacia anche quanto accadeva da parte araba. Un’affermazione avventata, che uno storico serio non si permetterebbe di fare di fronte alla mancanza di materiali di una delle due parti in causa di un conflitto. Ma questa scusa non solo tradisce la superficialità di lavoro e di giudizio di studiosi come Morris e Shlaim: essa è anche una bugia. Non solo perché almeno in Giordania negli ultimi dieci anni alcuni archivi sono stati aperti, ma anche perché esiste abbondantissimo materiale documentario in arabo catturato da Israele nel 1948, memorie autobiografiche pubblicate in arabo, ed esistono metodi non ortodossi per procurarsi materiale in paesi restii a divulgarlo. Chi ha letto il libro di Michael Oren (La Guerra dei Sei Giorni) sa che anche l’impervia Siria può all’occorrenza lasciarsi sfuggire un documento o due se si trova la persona giusta da corrompere. Colpisce in questo particolarmente Shlaim, autore di un testo (Collusion across the Jordan, non tradotto) in cui si sostiene la tesi di un complotto tra giordani e israeliani per spartirsi la Palestina a danno dei palestinesi. Come notava recentemente Antonio Donno sulle pagine di Nuova Storia Contemporanea, lo studioso che si è gloriato per anni del fatto che il suo libro fosse vietato in Giordania, si è sorprendentemente dimenticato, in una memorabile intervista da lui fatta a re Hussein (sulle pagine della New York Review of Books) di fargli anche una sola domanda sull’argomento. Tanto iconoclasta contro il sionismo, quanto ossequioso di fronte al despota orientale.
La mancanza di fonti quindi non è una buona ragione, ma si comprende come venga addotta nel contesto di una polemica di tipo modernista sul loro uso e sulla loro interpretazione. In realtà, anche quegli autori come Morris e Shlaim che si proclamano fedeli al metodo scientifico del modernismo e della scuola positivista, tradiscono le loro vere intenzioni di agghindare una polemica di natura ideologica e politica con note e citazioni a piè di pagina attraverso il loro tentativo di descrivere la nascita di Israele come maledetta, tanto quanto lo sarebbe la storiografia che l’aveva raccontata. Tale accusa è estranea al dibattito storico perché venata di moralismo, un’indicazione di come l’arena accademica si sia in realtà trasformata non già dalla presupposta (e mai efficacemente dimostrata) esistenza di una storiografia ufficiale da rivedere, ma in un campo di battaglia politico e ideologico i cui giudizi moralistici e le raccomandazioni politiche sono in ultima analisi estranee al rigore scientifico che i nuovi storici sbandierano. Il contrasto stridente e incolmabile tra “vecchia” e “nuova” storia viene presentato in un ritratto artificioso che non fa giustizia alle molto più sfumate e variegate interpretazioni e ai diversi resoconti storici esistenti nella letteratura che precede i nuovi storici. La creazione di un divario incolmabile è imbastita a bella posta per far apparire l’avversario non solo come poco convincente, ma come bugiardo vero e proprio. Nulla di casuale in tutto ciò: esiste una chiara intenzione di screditare coloro che sostengono una differente interpretazione della storia ritraendoli come fautori di una versione non disinteressata, semplicistica, distorta, e scientemente fuorviante per mettere a tacere i ragionevoli dubbi che le loro critiche sollevano.
La presentazione del dibattito sul 1948 come uno scontro tra un mito d’innocenza e la demoniaca realtà frutto di un “complotto sionista” permette alla nuova storia di autoproclamarsi nuovo custode di incontrovertibili verità, e anche se i suoi avversari hanno replicato in simili toni, le loro accuse di falsificazione hanno mancato il bersaglio e perso di efficacia più per il successo della campagna di denigrazione dei nuovi storici per screditarli che per la solidità delle fonti su cui le loro posizioni si fondano. Ma la verità è un’altra: sotteso al progetto dei nuovi storici c’è un intento politico di delegittimazione del sionismo il cui scopo ultimo è fornire le argomentazioni morali per la distruzione dello Stato d’Israele. E in questa storia non c’è nulla di nuovo.
(Primo di due articoli. Una versione più approfondita di questo saggio uscirà nella rivista di cultura Palomar dell’Università di Firenze)
Benny Morris contro Benny Morris
L’8 gennaio, il settimanale del quotidiano israeliano Haaretz pubblicava un’intervista allo storico Benny Morris dove Morris offriva le sue vedute sul conflitto araboisraeliano e alcune anticipazioni di due libri in uscita. Il primo è la versione ebraica di Righteous Victims (in italiano Vittime), il secondo è una versione riveduta del libro del 1987 sui rifugiati palestinesi. Nessuno dei due è particolarmente lusinghiero nei confronti d’Israele, offrendo, nella miglior tradizione di Morris, ulteriori spunti ai detrattori dello Stato ebraico e ai suoi più agguerriti critici. Se il Morris storico è ancora l’icona della sinistra filopalestinese, il Morris politico è un falco estremista. Morris storico accusa David Ben Gurion – padre fondatore d’Israele – e il movimento sionista di aver progettato l’espulsione forzata dei palestinesi nel 1948; Morris politico sembra criticare Ben Gurion per non averne espulsi abbastanza. Doppia personalità o cinica pubblicità per i libri in uscita? Dei massacri attribuiti alle forze israeliane, Morris offre 24 casi, con un totale di 800 vittime civili in più di dodici mesi di guerra. Pochi nel contesto di quella guerra e di simili coevi conflitti, ma Morris sostiene come tali massacri furono, in alcuni casi, premeditati o comunque avvennero a ostilità terminate: non furono insomma “danno collaterale”. Omette però il numero di massacri perpetrati dalla parte avversa nei confronti della popolazione ebraica, negando il giusto contesto alla storia. Di fronte agli orrori della guerra che “scopre”, Morris non riesce a nascondere l’elemento umano della riprovazione morale, che appartiene più alle pagine dei giornali che alla storia. Come se la guerra fosse una partita di Risiko. In questo, Morris mostra come la coscienza dia pessimi consigli allo storico, come quando cita casi di violenza carnale. Ne trova 12 in tutto, in 12 mesi di guerra, perpetrati da soldati israeliani. Ma procede subito a dedurre che debbano essere “la punta dell’iceberg”, perché gli altri non saranno di sicuro stati documentati. Il giudizio è avventato, per la mancanza di prove. Ma il Morris moralista ha il sopravvento sul Morris studioso. Lo stesso dicasi per la diatriba sulla politica di espulsioni attribuita a Ben Gurion. Quasi vent’anni dopo la prima salva d’accuse, Morris non ha ancora trovato uno straccio di prova e continua a sostenere che esisteva “atmosfera” favorevole alla pulizia etnica. Poi c’è il Morris politico che irrompe nell’intervista. Dopo aver proceduto a circostanziare l’ipotesi secondo cui il sionismo sarebbe guidato dal progetto di espulsione degli arabi di Palestina, Morris procede a sostenerne l’intento. Anzi, non è stato abbastanza zelante nell’attuare questa visione. “Noi o loro” dice Morris. Se non l’avessero fatto i sionisti agli arabi, l’avrebbero fatto gli arabi ai sionisti (il che, incidentalmente è vero). Per Morris il pericolo esistenziale per Israele persiste dopo cinquant’anni, e sostiene come l’idea sia ancora attuale e forse inevitabile se nei prossimi anni la minaccia esistenziale contro lo Stato ebraico dovesse rafforzarsi.
Una settimana dopo, Morris replica seccamente, smentendo la maggior parte dei giudizi attribuitigli, piagnucolando di essere stato frainteso. Sarà, ma dal 1987 a oggi Morris ha scritto, lui di suo pugno e non per bocca di un intervistatore malizioso, migliaia di pagine che non fanno altro che confermare l’apparente confusione che emerge nell’intervista. Ottima pubblicità forse. Ma che Morris sia improvvisamente impazzito, come alcuni sostengono, è fuori luogo. In realtà, è sempre stato così. E chi dubita se lo legga tutto. Verba manent.
E. O.
ANNO IX NUMERO 27 – PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 28 GENNAIO 2004