Lo Yotzer di Shabbat Sheqalim, presente anche nel rito ashkenazita, secondo Rav Artom quasi certamente è stato composto da El’azar ha-Qalir, fecondo poeta vissuto forse in Eretz Israel, anche se alcuni studiosi nell’800 ritenevano che visse in Italia, probabilmente fra il VI e il VII sec., che contribuì, attraverso il suo stile difficile e a volte involuto, allo sviluppo di un genere che fu imitato nei secoli da molti autori dei secoli successivi, e diede un forte impulso alla poesia in Oriente come in Occidente. Esistono varie ipotesi sull’origine del suo nome, secondo alcuni bizantina o greca.
Spesso è difficile comprendere quanto l’autore intende dire, perché si riferisce ad un certo personaggio o avvenimento solo per mezzo di un breve accenno, non sempre immediatamente identificabile. In ogni caso, anche se il piut non fosse opera di El’azar ha-Qalir, si tratta di un testo estremamente antico, già citato nel medioevo nell’esegesi biblica del periodo delle Tosafot, che lo riportano in due passi. In particolare il piut viene usato per trarre un insegnamento, appartenente alla tradizione di Eretz Israel (Yerushalmi Sheqalim 1,4), e assente nella tradizione babilonese, che include il mezzo siclo fra le cose che H. mostrò a Moshèh. Questa tradizione deriva dall’uso del termine zèh relativamente al mezzo siclo, e lo stesso termine è usato per il Sinai (Tehillim 68,9 – zèh Sinai), che durante il matan Toràh ribolliva (bo’er baesh). Anche le altre versioni del midrash uniscono aspetti per cui è usato il termine zèh, come la menoràh, il nodo dei tefillin, il qiddush ha-levanàh. Lo Yotzer è composto da ventitré versi e sette strofe di tre versi ciascuna, all’infuori della prima e dell’ultima, che sono di quattro versi.
Questa struttura sarà ripresa poi da altri yotzerot. I versi, all’infuori del quarto della prima strofa, sono in ordine alfabetico. Come in molti Yotzerot, la prima e l’ultima strofa si chiudono con la parola Qadosh. L’espressione che apre il piut (ha-mitnassè lekhol lerosh) è tratta dal cap. 11 (v. 29) del primo libro delle Cronache, verso che recitiamo nelle zemirot prima della Shirat ha-yam. In quel brano H. viene definito Eloqè Israel, e non D. di Avraham e Ytzchaq, perché Ya’aqov fu il primo a fare un voto, facendo da apripista per l’offerta del mishkan. Israele, come nel verso del profeta Hoshea’ (9,10), viene paragonato ad un fico primaticcio, desiderato da tutti coloro che lo vedono. In particolare il padrone dell’albero mette un segno sul fico, perché dovrà portarlo come primizia, ed allo stesso modo H. mise su Avraham e sul popolo ebraico il segno della Milàh. Per questo il poeta chiede ad H. di separare Israele dagli altri popoli, come alla fine della parashàh di Qedoshim (Vaiqrà 20, 26), restituendogli dignità dopo il peccato del vitello d’oro, e facendogli alzare la testa, come si legge nei midrashim sull’inizio della parashàh di Ki tissà. In un passaggio il poeta lega l’offerta del mezzo siclo all’apertura del Mar Rosso, in quanto entrambi sono divisi, e all’espiazione per il peccato del vitello d’oro, che secondo il Midrash avvenne esattamente a metà della giornata.