A 15 anni il poeta iniziò a misurarsi con la lingua «bambina». Una passione che durò a lungo
Ha detto Roberto De Zerbi, l’allenatore di calcio più ammirato del momento, che quando giocava nelle giovanili del Milan, allenandosi insieme ai Grandi, ovvero Savicevic, Boban, Weah, Maldini eccetera, si sentiva «come un bambino al parco giochi». Giacomo Leopardi, al parco giochi, se allora ci fosse stato, a Recanati o nei dintorni, non sarebbe mai andato, non ne avrebbe avuto né il bisogno, né tanto meno la voglia, dato il suo carattere. Eppure, quando passava tutto il giorno nella biblioteca del padre Monaldo dobbiamo pensarlo nello stesso stato d’animo in cui si trovava, a Milanello, il futuro mister bresciano. Il suo parco giochi (giochi ovviamente serissimi) era lì, fra polvere e silenzio, carta e inchiostro: il suo Savicevic era Omero, il suo Boban era Virgilio, il suo Weah era Plutarco eccetera. Scrive a Pietro Giordani il 30 aprile 1817: «Io avea allora 15 anni, e stava dietro a studi grossi, Grammatiche, Dizionari greci ebraici e cose simili tediose, ma necessarie». «Tediose» possiamo capirlo e condividerlo, era pur sempre un ragazzino, ma perché aggiunge «necessarie»? Perché lui, già poeta, oltre che filologo, voleva risalire alla fonte primaria della poesia, alla lingua originaria, non ancora fatta di lettere e parole, bensì soltanto di pura, aurorale, vocalità. Voleva insomma immergersi, attaccato alle bombole d’ossigeno dello studio e della sensibilità, nell’oceano arcaico, fino a raggiungere «la più antica immaginazione».
S’intitola proprio così, La più antica immaginazione, il saggio di Miriam Kay dedicato al rapporto fra Leopardi e l’ebraico (Marsilio, pagg. 197, euro 20). Occorre dirlo subito: il libro è un viaggio subacqueo che il lettore ignorante in materia compie perlopiù in apnea. Ma certo di poter riemergere puntualmente a prender fiato dopo due o tre paragrafi, quando l’autrice spiega, chiarisce, traduce. I polmoni della mente devono lavorare, ma ne vale la pena. La missione del giovane Leopardi, infatti, era una battaglia impossibile da vincere, che tuttavia ne forgiò il carattere e ne mise in luce l’acutezza di pensiero. Tutto è imperniato sui cardini di un paradosso: la massima semplicità di una lingua «bambina», per non dire infantile, caratterizzata da «ipertrofia semantica» (Kay), è quanto di più difficile da recepire pienamente per chi è contaminato dalle lingue moderne, perché, detto un po’ rozzamente, le lingue moderne, massime il francese, ma anche l’italiano non scherza, fanno filosofia sulla poesia, con ciò depotenziando la poesia medesima. Questo pensava Leopardi, e questo scrisse a chiare lettere nello Zibaldone, la dépendance fisica dei suoi pensieri.
Ma prima dello Zibaldone, iniziato nel 1817, ci furono gli ardui esercizi di traduzione: un assaggio del Libro di Giobbe, il Psalmus XLVI e il Psalmus 132. E contestualmente il Parere sopra il Salterio ebraico, cioè il commento, apparso in due parti sulla rivista Lo spettatore fra ottobre e novembre 1816 e sprizzante insoddisfazione a ogni riga, causa l’eccessivo formalismo, a una traduzione dei Salmi fatta dall’abate Giuseppe Venturi e versificata da Giovambattista Gazola. «Leopardi traduceva prima alla lettera dall’ebraico al latino, utilizzando poi questa traduzione di servizio per la successiva versificazione», spiega Kay. Lavoro doppio, quindi, ma ritenuto necessario per liberarsi delle scorie moderne.
Nello Zibaldone, le considerazioni sulla singolarità, anzi l’unicità della lingua ebraica sono spalmate lungo un decennio, dal ’17 al ’27, e Miriam Kay ce le illustra al meglio, soffermandosi anche sulle ricadute che ebbero sui temi e sui contenuti delle Sacre Scritture (purché non lette nella Septuaginta, che Leopardi considerava poco più di un buco nell’acqua) presenti nell’opera di Giacomo, come l’Inno ai patriarchi e il Cantico del gallo silvestre.
E qui occorre una puntualizzazione. La più antica immaginazione è, come da sottotitolo, un saggio su Leopardi e l’ebraico. Quanto a Leopardi e gli ebrei, quelli in carne e ossa, con l’annesso canone delle leggi ebraiche, è da notare che nello Zibaldone la puntualità del filologo e dello studioso svanisce, diluita nel fluire delle credenze. Leggiamo infatti: «La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell’interno, e rispetto a’ suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell’apparenza ingiuste, co’ forestieri. Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l’ingannare, o far male comunque all’esterno, che chiamano (e specialmente il Cristiano) Goi ywg ossia gentile, e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro: (…) riputando peccato, solamente il far male a’ loro nazionali». Al che il poeta e studioso Roberto Malini ha ribattuto qualche anno fa, dopo aver elencato alcune antiche opere che spiegano e commentano i precetti ebraici: «I mitzvoth taaseh (cioè i comandamenti positivi, gli obblighi, ndr) proibiscono di ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare sia l’ebreo che il gentile e stupisce accorgersi che un uomo di grande cultura e ampie idee come Giacomo Leopardi abbia – sia pure in minima parte e per colpa veniale dovuta a disinformazione – contribuito a divulgare un pregiudizio che oggi definiremmo antisemita». Dunque, a Leopardi la si può perdonare. Ma in altri tempi…
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