Marina Valensise – Il Foglio
Gerusalemme. Fa discutere la presa di posizione di Benny Morris, lo storico israeliano che oggi sarà a Milano, e domani a Roma per il Salone dei libri di storia dell’Associazione librai italiani.
Autore di uno studio pionieristico sul problema dei rifugiati (“The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-49”) ora in corso di aggiornamento dopo l’apertura degli archivi dell’Haganah e del ministero della Difesa israeliano, Benny Morris ha offerto una ricostruzione senza compiacenza del conflitto arabo israeliano.
Ha messo in luce i miti politici del sionismo, spiegando agli israeliani la responsabilità dello Stato ebraico nell’esodo forzato di circa 700 mila arabi dalla Palestina.
Quell’esodo fu in buona parte causato proprio dall’azione militare sionista, tanto per l’ordine di espulsione imposto dall’esercito israeliano quanto per opera degli stessi comandanti arabi.
Eppure, per quanto passi per un “revisionista”, Morris non si considera di destra.
Negli anni 80 è stato in carcere, per essersi rifiutato di prestare servizio militare in Cisgiordania.
Adesso viene accusato di aver cambiato idea, di essersi appiattito sulle posizioni della maggioranza, di accettare in pieno la dottrina Schueftan sulla risposta unilaterale allo stato di guerra permanente voluto dai palestinesi.
Ai suoi critici però Morris ricorda di non aver mai sottoscritto il diritto al ritorno dei rifugiati, né di aver mai contestato la necessità di uno Stato palestinese, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Al Foglio dice: “Resto convinto che la vera soluzione resti una divisione tra due Stati: lo Stato ebraico, che avrà il 78 per cento di quella che era la Palestina sotto il mandato britannico, e uno Stato arabo al quale ne spetterà il 22 per cento.
Un compromesso che offre a entrambi le parti una soluzione plausibile”.
Cosa cambia allora nella sua visione del conflitto dopo il fallimento del processo di pace? “Cambia il fatto che la seconda Intifada ha dimostrato che i palestinesi non intendono arrivare a un compromesso.
Vogliono il 100 per cento della Palestina.
E’ questo il significato della risposta di Yasser Arafat alla proposta di Ehud Barak e di Bill Clinton”.
Nel luglio 2000 il laburista Barak offrì al capo palestinese quasi il 90 per cento della Cisgiordania e il 100 per cento della Stri- scia di Gaza, la sovranità sui quartieri arabi di Gersualmeme Est, e un condominio o il controllo del Consiglio di sicurezza dell’Onu per il Monte del Tempio nella Città vecchia.
Nel dicembre dello stesso anno il presidente americano Clinton offrì ai palestinesi fino al 96 per cento della Cisgiordania, la sovranità sull’area del Monte del Tempio, e una sorta di controllo israeliano per la sottostante area del Muro del Pianto.
E per compensare i profughi, continuò a proporre massicci aiuti economici per la riabilitazione dei rifugiati.
“Era la migliore proposta di pace che gli israeliani potessero formulare – dice Morris – Ma Arafat rispose con la violenza e il terrorismo, rifiutando qualsiasi compromesso.
Negli anni 90 ero sicuro che i palestinesi lo volessero accettare, che almeno Arafat si muovesse in questa direzione.
Gli ultimi due anni hanno dimostrato che non è vero.
Arafat barava.
D’accordo col popolo palestinese, ha respinto ogni compromesso come del resto fece il muftì di Gerusalemme Muhammad Amin al Husseini quando rifiutò la proposta di dividere la Palestina tra arabi ed ebrei nata dalla commissione di Lord Peel durante il mandato britannico nel 1937, come pure la risoluzione dell’Onu nel 1947, e come di nuovo avvenne nel 1967 e all’epoca del compromesso con l’Egitto di Sadat”.
Come spiega l’ostinazione palestinese? “Gli arabi ci considerano dei ladri di terra.
Non capiscono il legame che ci unisce a questa terra.
Rifiutano l’evidenza storica che gli ebrei vissero in questa regione da 15 secoli prima che venisse inventato l’Islam.
Per questo, secondo loro, non c’è accordo possibile, rifiutano lo Stato ebraico in modo drastico”.
Morris è convinto che un accordo, quand’anche sul compromesso territoriale e la divisione in due Stati, non risolverebbe comunque il problema dei rifugiati.
“I palestinesi che vivono nei campi profughi del Libano senza avere la cittadinanza libanese, o nei campi della Siria senza avere la cittadinanza siriana, o nella Striscia di Gaza in condizioni di assoluta povertà, sognano di tornare nelle loro case di Jaffa o di Haifa.
Anche se quelle case oggi non esistono più, perché furono distrutte durante la guerra del 1948, e le poche rimaste in piedi vennero occupate dagli israeliani che vi si insediarono negli anni 50.
Ma oggi Arafat non può guardare negli occhi il suo popolo di rifugiati in Libano, in Siria, in Giordania e Gaza e dire loro: ‘Rinunciate al sogno di tornare a casa vostra’, perché altrimenti gli sparano.
E’ per questo che non può esserci soluzione.
D’altra parte, se Israele accettasse il diritto di ritorno di 4 milioni di rifugiati palestinesi andrebbe incontro all’autodissoluzione: lo Stato ebraico finirebbe per avere molti più cittadini arabi che ebrei”.
Quand’anche possibile, dunque, la soluzione dei due Stati sarebbe dunque solo temporanea, secondo Morris: “Tra 40-50 anni se in Palestina non ci sarà un deserto nucleare, ci sarà un solo popolo sovrano, non due.
Uno Stato ebraico con una minoranza araba, o uno Stato arabo con una minoranza ebraica in via di estinzione.
E’ vero che gli arabi hanno dalla loro la crescita demografica.
Ma gli ebrei sono organizzati meglio, hanno un esercito moderno, difficile da battere”.
Tutto questo potrà mai significare la fine dello Stato ebraico? “Non lo so.
Se i palestinesi non smettono di usare la violenza, gli israeliani li butteranno fuori oltre il Giordano.
Se come spero arriveremo alla creazione di due Stati, non sarà forse una soluzione duratura.
I capi palestinesi potranno anche sottoscriverla, ma la popolazione, temo, non l’accetterà”.
Per quanto “politicamente corretto”, con le sue nuove tesi Benny Morris non ha potuto evitare le critiche.
Da sinistra, Avi Shlaim, l’altro storico revisionista che si è sempre occupato di storia diplomatica, l’ha rimproverato di offrire un’interpretazione semplicistica degli ultimi 50 anni, e di aver scritto un “monologo autocompassionevole intriso d’odio verso gli arabi e i palestinesi”.
“Avi Shlaim – replica Morris – è convinto che il fallimento del processo di pace sia dovuto all’espansionismo militare israeliano.
Ma non è vero.
Il vero problema è l’esistenza stessa dello Stato ebraico.
E’ con questo che i palestinesi non si sono riconciliati, ed è questo che li motiva a diventare terroristi e suicidi”.
L’altra tesi controversa di Morris, apparsa i primi di ottobre sul Guardian, che trova consensi nella destra israeliana, riguarda il mancato trasferimento dei palestinesi a opera di Ben Gurion nel 1948, decisione che avrebbe evitato il perdurare del conflitto arabo israeliano per 50 anni.
“L’idea del trasferimento è vecchia quanto il sionismo.
Si ritrova sin dal 1895 negli scritti di Thomas Herzl e persino sotto il mandato britannico nel rapporto di Lord Peel, che nel 1937 suggeriva di trasferire circa 200 mila arabi dal 20 per cento dei territori destinati agli ebrei.
In realtà mi sono limitato a suggerire che se Ben Gurion avesse mandato via gli arabi dalla Cisgiordania, spingendoli in Giordania, forse i palestinesi avrebbero sottoscritto la pace con lo Stato ebraico.
Ma soprattutto ho voluto dimostrare che a metà degli anni 40, erano gli stessi leader arabi, come il principe giordano Abdallah e il ministro degli Esteri iracheno Arshad al- Umanri, a sostenere la necessità del trasferimento degli arabi, detto eufemisticamente ‘scambio di popolazione’, perché capivano che non c’erano alternative.
Stranamente, dal mio articolo sul Guardian le citazioni che riguardavano tutti questi leader arabi sono saltate, salvo poi riapparire nella versione elettronica.
In effetti, nel 1948 una forma di trasferimento fu realizzata.
Gli arabi avevano attaccato lo Stato ebraico, si rifiutavano di diventarne leali cittadini.
Per evitare che lo Stato ebraico fosse minato da azioni terroristiche, gli israeliani non consentirono il ritorno dei rifugiati.
Forse fu un errore, ma fu una soluzione obbligata”.
Morris non crede di incrementare la violenza con le sue affermazioni: “Sono solo uno storico, gli storici non hanno molta influenza.
Se la mia ricostruzione avrà qualche influenza sul presente, riguarda solo i miei lettori o i politici responsabili della decisione.
La pace per me resta un obiettivo, ma penso, e in Israele siamo la maggioranza, che non sia più un obiettivo realistico, perché i palestinesi non sono interessati a raggiungerla.
Dobbiamo prenderne atto”.