Premessa
Senza voler entrare qui in alcun modo qui nel merito della vastissima e millenaria discussione filosofica, geometrica o fisica sulla natura profonda dello spazio (se soggettivo, oggettivo a trascendentale, piatto o ricurvo, in crescita o stabile ecc.), ci è comunque necessaria qualche precisazione terminologica iniziale. Userò in linea di massima questa parola per indicare la rete di relazioni di coesistenza degli enti nella sua forma più generale, cioè la base su cui la geometria traccia relazioni topologiche e metriche, la fisica individua campi, onde e particelle, l’evoluzione biologica e la percezione delle specie animali ricava diversi ambienti (nel senso di Uexekuell 1921). E’ immediatamente chiaro da quel che abbiamo detto che dal punto di vista semiotico quel che conta è l’ambiente, non lo spazio.[2] Noi infatti abitiamo e conosciamo un ambiente (“Umwelt”) già marcato da un’organizzazione percettiva di natura biologica, che gli dà caratteristiche topologiche (per esempio sopra/sotto; fra; dentro/fuori), metriche (grande/piccolo, vicino/lontano), di scala, ecc.; lo caratterizza con colori, odori e sapori che sono frutto dell’interazione fra i dati naturali e i nostri recettori, lo qualifica come umido o secco, luminoso o scuro, caldo o freddo a seconda delle necessità del nostro organismo: tutti dati che non possiamo ignorare o valutare a piacere perché la loro pertinenza è iscritta nella nostra struttura fisica e comporta immediate valorizzazioni biologiche, che sono connaturate alla nostra stessa evoluzione.
In realtà noi non viviamo neppure in questo “semplice” (ma in realtà assai complesso ed esigente) ambiente biologico, ma sempre in luoghi marcati culturalmente, delimitati e segnati dalla loro possibilità d’uso, da loro “essere per”. Luoghi percorribili o scoscesi, coltivabili o aridi, abitabili o deserti, ameni o sgradevoli, di lavoro e di piacere. E luoghi del sacro, luoghi in cui si rivela o si invoca la presenza e l’influenza del trascendente, così com’è concepito dalla società interessata (e magari non da altre). Il fatto che la steppa appaia vuota e deserta ai nostri occhi di cittadini (abitanti delle città) occidentali, o che la foresta tropicale ci sembri così intricata calda e umida da apparirci inabitabile, mentre una strada trafficata rumorosa e oggettivamente pericolosa per inquinamento e rischi del traffico ci appaia “normale” dipende esattamente da questo. Così come la ripartizione di attività fra luoghi definiti “strade” “piazze”, “giardini”, “mercati”; “cucine”, “camere da letto”, “cantine” ecc dipende da convenzioni culturali profondamente radicate nella nostra identità collettiva. La competenza spaziale relativa fa parte dei saperi necessari per il pieno accesso alla condizione di adulto responsabile. Di questa competenza infine fa parte anche quel legame continuo fra spazi e narrazioni che permette di qualificare quelli a seconda del ruolo che svolgono in queste (Caviccioli 1997, 2002). Dunque è la competenza sui luoghi del sacro in una specifica cultura, non sugli spazi o sugli ambienti, che interrogheremo nel seguito di questo articolo.[3]
Prima di farlo è opportuno considerare però un’altra distinzione importante: quella fra luoghi reali (ambienti fisici effettivamente configurati in certi modi a seconda della semantica di una certa società), luoghi virtuali (configurazioni di certe porzioni di ambiente di solito bidimensionali, che sono percepiti come simulazioni o rappresentazioni dei luoghi reali (per esempio pitture e fotografie) e spazi astratti (cioè schemi di coesistenza fra realtà diverse su cui sono definite relazioni semantiche o anche matematiche – per esempio gli spazi cartesiani di rappresentazione delle funzioni o gli schemi logici che rappresentano divisioni e congiunzioni fra certe categorie di enti, come gli alberi di Porfirio, i diagrammi di Venn o alcuni schemi che saranno usati nel seguito. Nel seguito prenderò in considerazione gli uni e gli altri.
1.
Il legame fra la nozione di luogo e l’ambito del sacro non è evidente a prima vista eppure è importante già sul piano etimologico.[4] Le parole che indicano la santità e/o la sacralità in molte lingue implicano una connotazione di separatezza. Così è certamente in ebraico (Reymond 2001: 363-364), ma con buona probabilità anche in latino e in greco.[5] Di fatto il sacro e soprattutto il santo (che nelle lingue neolatine ne condivide l’etimologia, ma ha assunto un significato precipuo) non è mai semplicemente identificato con il divino o il numinoso, ma in qualche modo lo circonda (o piuttosto nelle grandi religioni ne circonda il contatto) e lo divide dal resto del mondo profano (< “pro fanum” davanti al tempio).
Fra sacro e profano vi è una soglia, una differenza che spesso è anche fisica. Naturalmente le forme del sacro possono essere le più svariate, come diversi i gradi della separazione. A noi interessa qui che questo sistema ha comunque una natura spaziale, sia perché investe i luoghi e li distingue, sia perché spazializza in un certo senso anche ciò che non è luogo: che ci siano dei tempi sacri (o, come dice piuttosto la tradizione ebraica, tempi da santificare, per esempio Es 20: 8) contribuisce a dare una forma spaziale al tempo, lo toglie alla dimensione dell’esperienza pura – la durée bergsoniana – per dargli limiti e dimensioni calcolabili con precisione. Se il “divino” è una proprietà trascendente di un’azione o di una persona, se il “santo” (dove esso è distinto da “sacro”) è una qualità etica della persona, il “sacro” comporta sempre una delimitazione spaziotemporale, una topologia se non proprio una metrica. La sua spazialità deriva dalla distinzione che la definisce, perché non tutto può essere sacro (se no la nozione perderebbe ogni densità semantica) e dunque sempre sacro e profano si contrappongono e si affiancano. E’ su questa dimensione che lavora il presente saggio, e in particolare sul modo in cui essa si presenta nella tradizione ebraica.
Chiunque consideri la vita dei fenomeni religiosi, non può non essere colpito dal modo in cui essi, che pure la nostra sensibilità considera naturalmente eterni e infiniti, siano invece spazializzati e temporalizzati. La temporalizzazione (storia sacra, cicli religiosi, ricorrenze varie) è in un certo senso più comprensibile, dato che il tempo è legato, per come lo comprende l’occidente, al fine e al senso. La spazialità è ben più problematica, perché ci appare per definizione esteriore e mondana. Una tesi fondamentale della semiotica vuole che il senso si manifesti sempre narrativamente, cioè storicamente,
temporalmente. A maggior ragione questo vale per il Senso trascendente della religione. Di fatto le maggiori religioni sono doppiamente temporalizzate, in quanto storie sacre (storia della creazione, del destino dell’universo e dell’umanità) e in quanto guide alla storia della salvezza personale del singolo fedele. E però tutte le “grandi” religioni oltre a temporizzare, spazializzano, non solo nel senso ovvio di avere dei loro luoghi sacri, ma anche nel loro schema metafisico della realtà. Vi sono regioni più o meno sacre, luoghi del mondo o oltre al mondo che racchiudono un contenuto spirituale; la storia sacra è sempre anche viaggio, spostamento nello spazio.
2.
Nel seguito di questo saggio mi occuperò della concezione ebraica dei rapporti fra spazio e sacralità, che è particolarmente sviluppata e articolata. Partiamo dal livello più astratto e cioè dal fatto che Maqom (luogo) è un nome divino particolarmente importante per l’ebraismo. Nella tradizione biblica e talmudica i nomi non sono strumenti arbitrari di referenza, ma descrizioni implicite, affermazioni sulla natura delle cose (Volli in corso di stampa). Dunque che Dio sia chiamato “luogo” implica in primo luogo una sua qualche dimensione spaziale e allo stesso tempo una sacralizzazione dello spazio, almeno nella sua specifica declinazione come maqom.[6]6 Nel divino è certamente presente una dimensione spaziale, che va considerata attentamente. Una affermazione molto citata del Midrash (il commento rabbinico antico ai testi biblici), dice infatti che “Dio non ha luogo (non è contenuto da alcun luogo, ma è il luogo di tutto”. (Midrash Rabbah Berishit 68:9) Dunque il luogo di cui si parla qui è pensato come “contenitore” o “dimora” (infatti un altro nome divino, molto meno popolare ma canonico è “bet olam“, dimora del mondo). Dio è contenitore e non contenuto, apre lo spazio per ogni cosa, ma non vi racchiuso. Il commento citato riguarda un luogo biblico particolarmente importante e denso che peraltro sembra dire il contrario, Gen. 28:16 (“Destatosi dal sonno Giacobbe disse: ‘In questo luogo c’era proprio Y-H-V-H[7] e io non lo sapevo’.”). In realtà però tutto il brano, che riguarda il famoso sogno di Giacobbe della “scala posata in terra la cui cima arrivava in cielo” (Gn. 28:12) con gli angeli che la percorrevano è fitto di isotopie spaziali del sacro: Giacobbe arriva in un “luogo” (maqom); prende da quel luogo (maqom) e se le mette sotto la testa (28:11); nel posto (maqom) c’era Y-V-H e lui non lo sapeva (28:16), il posto (maqom) è “terribile” (norah, aggettivo che spesso si adopera per la divinità) “la casa di Elo-him[8] e la porta del cielo (shamaym)” (28:17); la scala era posata in terra (arez) con la cima (rosh, testa) in cielo (shamaym) (28:12), su cui stava Y-H-V-H (28:13) che lo rassicura che sarà con lui in tutte le terre (adamah) dove andrà e lo riporterà in quella terra (adamah) gli promette la terra (aretz)[9] per la sua discendenza; poi Giacobbe unge la pietra (il che è considerata la prima allusione messianica del testo biblico, dato che mashiach, messia, vuol dire letteralmente “unto”, come erano unti i re e i gran sacerdoti di Israele), la chiama “Bet El” (casa di El, che è un altro nome divino, legato etimologicamente a Elo-him, 28:19) e fa voto che la pietra su cui ha dormito sarà casa di Elo-him (Bet Elo-him).
Il brano è estremamente complesso, è stato oggetto di numerose interpretazioni mistiche e morali (per un’antologia di queste interpretazioni, vedi Kushner 1993) e non è possibile esaminarlo qui approfonditamente. Si possono elencare le isotopie principali: quella del luogo, quella dei tre (o quattro con maqom) nomi divini che si intrecciano; quello della scala, della casa e della porta, elementi domestici di seprazione che confluiscono nel tema della soglia e tendenzialmente nella verticalità intesa come percorso, possibilità di accesso, cielo); quello dell’unzione, della consacrazione e del voto, quello della terra (definita come aretz quando è religiosamente rilevante, come adamah quando corrisponde a luogo, territorio).
Nel complesso emerge così l’idea di una vocazione sacra di certi luoghi; non dunque che Dio sia in essi, nel senso di esservi compreso, ma che sia più facilmente accessibile attraverso di questi. La controparte di questa località è quell’aspetto divino chiamato Shekinah, ovvero “presenza”, che ha un valore importante nell’esoterismo ebraico anche per il suo carattere femminile (Idel 2005). Quest’esistenza di una sacralità di certi luoghi caratterizza fortemente la religiosità e la cultura ebraica verso l’esatto contrario di qualunque utopia, e cioè un orientamento ai luoghi o topismo, se mi si concede l’innovazione linguistica.
3.
Una certa spazialità astratta del divino è comunque presente nella grande tradizione della mistica ebraica, la Kabbalah. In primo luogo questa concezione vi si sviluppa in un’idea molto originale del rapporto fra divino e mondo, che è nota sotto il nome “Tzitzum” o “contrazione divina”. Questo rapporto appare problematico e bisognoso di spiegazione fin dalla sua origine. Com’è possibile che vi sia posto per la creatura accanto al creatore? Se Dio è infinito (En sof,[10] letteralmente “senza fine”: è il nome divino preferito dai cabalisti), com’è possibile che vi sia qualcosa che non sia Dio, ovvero un suo limite, una differenza che lo definisca? Dal nostro punto di vista, la questione si può porre nei termini di una forte difficoltà a concepire una spazialità del mondo in cui il divino sia inserito (dunque come un ente fra gli altri) o escluso (e dunque ridotto a non essere uno degli enti, a rischio di dover essere pensato come ni-ente). I cabalisti e in particolare la scuola sviluppatasi a Safed in Galilea nel Cinquecento, il cui più importante esponente è Isaac Luria (1534- 1572),[11] cercarono di risolvere il problema con un complesso meccanismo, che riprende e sviluppa temi già in parte diffusi nella Kabbalah precedente, per esempio nello Zohar (Laitman 2007) Come scrive Vital:
Know that before emanations were produced and creatures were created, there was a simple supernal light that filled all existence; and there was no empty space, like a completely empty space or vacuum, but all was filled with that simple infinite light (or, light of the Ayn Sof, the Infinite One). It had no aspect of beginning or end, rather all was one simple light equally distributed, and this is called the light of the Ayn Sof.
When it arose in [the Ayn Sof’s] simple will to create worlds and produce emanations, to bring to light the perfection of [the divine] acts, names, and designations–which is the purpose of the creation of the worlds, as is explained by us in Branch 1 in the first essay–the Ayn Sof then concentrated (tzimtzem) Itself in the central point in the actual centre of that light. It concentrated the light and removed it on all sides from around the central point. Then there was an empty space, a complete vacuum, from that actual central point, like this.
Now, this withdrawal (tzimtzum) was equal all around that central, empty point, in such a manner that that empty space was a circle completely equidistant all around. It was not in the form of a square, with right angles, for the Ayn Sof withdrew Itself in the form of a circle, equidistant on all sides. And the reason is that since the light of Ayn Sof was completely equally distributed, it was necessary that It withdraw Itself equidistantly on all sides, and not withdraw Itself more on one side than on another. It is well known in mathematics that no other geometric shape [has all its sides] equidistant [from the centre] like a circle. This is not so of the square with protruding right angles, nor of the triangle, nor of other shapes. Therefore, it was necessary that the withdrawal of the Ayn Sof be in the form of a circle. […]
Now, after this aforementioned withdrawal, there remained a completely empty vacuum in the middle of the actual light of the Ayn Sof, as mentioned above, and there was now a space in which the things to be emanated (hane’etzalim), created (hanivra’im), formed (hayetzurim), and made (vena’asim), could exist. Then It drew down from out of the light of Ayn Sof above a single straight line from Its circular light, which wound down into that empty space, like this.
The top of this line is derived from the Ayn Sof Itself, and touches It. However, the end of the line does not touch the light of Ayn Sof, but through this line the light of Ayn Sof is drawn and spreads downwards. In this empty space, It emanated, created, formed, and made all of the worlds. This line is like a fine channel through which (the water of) the supernal light of Ayn Sof is drawn and spreads to all the worlds [that will be produced] in that completely empty space. (1999, Gate 1, Branch 2)
Anche in questo caso un’analisi minimamente adeguata di questo testo e delle altre ricchissime descrizioni e teorizzazioni di cui è parte va oltre i compiti di questo studio. Notiamo solo che l’isotopia dominate è spaziale e dà luogo a una vera e propria metaforica. All’inizio si pone un principio infinito e indefinito,
dunque immateriale, che non è lecito immaginare spazialmente e che sarebbe la natura propria del divino. Poi (ma è un poi non temporale) esso produrrebbe una sua spazializzazione “or en sof”, la luce dell’infinito, di cui non si sfrutta né qui né specialmente altrove l’aspetto luminoso (per esempio i valori cromatici, l’idea connessa di una fonte luminosa o di un occhio percipiente), ma che viene valorizzata semplicemente come campo energetico infinito, cioè già come una spazializzazione del divino, sia pur ancora senza forma e confini. La luce rioempie lo spazio e non ha senso senza di esso, mentre l’infinito non ne dipende. Questa spazializzazione è pensata come una prima contrazione o limitazione del divino (Tzimtzùm rishòn) ma poi si contrarrebbe, lasciando uno spazio (che viene definito “circolare” e dunque è già geometrico) vuoto, privo della luce infinita e dunque oscuro e in un certo senso ateistico, privo della presenza divina. Questo avverrebbe attraverso una seconda contrazione (Tzimtzum shenì) del divino in due direzioni, una centripeta, che darebbe luogo a un “punto” di particolare intensità e una centrifuga, che lascerebbe lo spazio creaturale. La creazione avverrebe con la proiezione di un raggio divino in questa vuota oscurità. Ma sempre nella Kabbalah, ne cosegue l’immagine della “rottura dei vasi” (sheviràt hakelìm), vale a dire che la creazione non avrebbe resistito alla potenza dell’irradiazione divina, sarebbe esplosa, da cui nel mondo attuale restano i cocci (kelippòt), vale a dire la materia, e le “scintille divine” che vengono dal raggio, mescolate ad essa, da estrarre e unificare per “riparare il mondo (Tikkùn Olàm), il che sarebbe il senso della storia e della religione.
Prima ancora dello stabilirsi della realtà, in questo spazio si troverebbero quattro mondi successivi, di livello decrescente, l’Atzilut (emanazione), la Beriah (creazione), la Yetzirà (formazione) la Assyah (azione), quest’ultima corrispondente al nostro mondo. Inoltre tutto questo spazio sarebbe anche sotto l’influsso di una struttura quasi-spaziale delle emanazioni divine: la complessa struttura definita “albero delle sefirot” (ma la figura che è tracciata spesso somiglia non casualmente allo schema di un essere umano). Sono dieci entità che si possono intendere come attributi divini (vi è la giustizia e la saggezza, la regalità e il sapere ecc.), legati fra loro da rapporti complessi. In questo albero vi è una pertinenza spaziale di sinistra/destra, alto/basso, collegato/separato ecc., che rimanda per complessi semisimbolismi al lato femminile e quello maschile della divinità, alla sua dimensione di severità o di misericordia, alla vicinanza o alla lontananza dal creato.[12]
Via via che le complicazioni si moltiplicano, non si può fare a meno di comprendere che la spazialità di cui stiamo parlando è una schematica, cioè uno spazio astratto nel senso della nostra definizione iniziale e non un ambiente. Tant’è vero che all’isotopia spaziale se ne sovrappongono almeno altre due. Una è la figurativizzazione e talvolta la personificazione delle emanazioni, che sono definite come volta volta “palazzo”, colori, “vecchio dei giorni” e anche con nomi più pittoreschi e personali, tipo “faccia lunga”.
L’altra, molto più diffusa perché permette di tenere sotto controllo il rischio di fraintendimenti idolatrici, è quella letteralista. Dato che la creazione già nella Bibbia avviene per mezzo di diciture[13] (per citare solo la prima: “Elohim disse: ‘Sia la luce’ e la luce fu.” (Gn.1:4)), è chiaro che essa ha una sua dimensione linguistica, accennata poi appena nell’incipit del Vangelo di Giovanni. E dunque vi è una questione di nomi e soprattutto di lettere in essa e in definitiva in tutta la struttura dell’universo. Secondo questa metaforica, il gesto della creazione non consiste tanto in una spazializzazione, quanto in una scrittura, o ancor meglio in una giustapposizione, combinazione e separazione di lettere. Le quali peraltro anch’essere hanno una significativa dimensione plastica e dunque spaziale, che è sfruttata in numerose speculazioni cabalistiche.
Resta il fatto assai notevole che l’isotopia fondamentale della metafisica cabalistica (metafisica nel senso etimologico: ciò che sta al di là delle cose naturali) è fortemente spazializzata e in particolare comprende due forti isotopie (che ho potuto solo accennare finora, ma che potrebbero essere certamente sostenute con esempi e analisi): quella orizzontale che in semiotica chiameremmo topologica dell’inclusione (dentro/fuori) e quella verticale gerarchica dell’alto e del basso. In generale esse hanno un forte uso semisimbolico: ciò che è “dentro” (spesso incluso in numerose soglie) di solito è sacro, e lo stesso vale per ciò che è in alto. Entrambe le mosse semisimboliche peraltro sono condivise (o ereditate) abbastanza largamente nella cultura occidentale. Nel seguito di questo saggio esaminerò qualche esempio non più metafisico ma narrativo, tratto dalla Bibbia di entrambi questi semisimbolismi e della loro frequente sovrapposizione.
4.
La storia biblica è costruita intorno a una geografia molto particolare. Vi sono tre periferie e un centro. La prima periferia è quella orientale che possiamo definire dell’origine (la Mesopotamia, Ur e Charam, le città da cui viene Abramo e in cui suo figlio e i suoi nipoti vanno a cercar moglie). All’inizio dell’avventura di Israele Abramo è invitato ad andarsene di lì “verso la terra che ti indicherò” (Gen. 12:17) e il popolo non vi farà più ritorno, se non molto tardi nell’esilio (“sui fiumi di Babilonia” salmo 136). Il nome “ebreo”, ivrì, viene comunemente interpretato nella tradizione biblica come indicante il “passaggio” oltre il fiume che definisce la Mesopotamia: ebreo è colui che passa il fiume o il confine, che proviene da un altrove.
L’altra periferia è l’Egitto (in ebraico Mitzraim, di cui spesso è valorizzata l’etimologia ancora spazializzante che lega questo nome ai concetti fisici di “ristrettezza” e “oppressione”). In Egitto vanno sia Abramo che Isacco che Giacobbe per sfuggire a carestie, con la differenza che i primi due riescono a rientrare, il terzo, portato lì dal figlio Giuseppe potrà essere riportato in patria solo come salma e la sua discendenza vi resterà prigioniera per quattrocento anni. L’esodo dall’Egitto è l’atto di formazione del popolo ebraico a partire dal clan che vi era arrivato.
Vi è poi una terza periferia non statale, il deserto o la steppa dove avviene la Rivelazione e dove il popolo soggiorna per quarant’anni, in attesa di rinnovarsi anche fisicamente, con la scomparsa di tutta le generazione di coloro che avevano conosciuto la schiavitù.
Al centro fra Egitto, Mesopotamia e deserto vi è Eretz Israel, la terra di Israele. Andarvi significa metaforicamente (non necessariamente sul piano geografico) “salire” (ancora oggi in ebraico l’immigrazione in Israele è una “salita”, alyà), mentre in Egitto si “scende”. La centralità e l’ascensionalità della “Terra Santa” ne confermano il carattere sacro, che è ulteriormente esaltato, in un certo senso raddoppiato per Gerusalemme (anche per raggiungere questa città dal resto di Israele si parla di “salita” e i salmi usati per i tre pellegrinaggi annuali obbligatori sono chiamati shirim ha-maalot (salmi “dei gradini” o “di ascensione”, dal 120 al 134). Al centro di Gerusalemme sta il Tempio, il quale è a sua volta suddiviso in tre zone ad accesso differenziato, i cortili (a loro volta suddivisi in varie aree con diverse limitazioni) la zona “santa” dei sacrifici, cui possono accedere solo i sacerdoti e il “santo dei santi” (kodesh hakodashim) in cui poteva entrare solo il grande sacerdote una volta l’anno (e si racconta che Pompeo Magno che lo violò nel 63 a.C. fu molto meravigliato nel trovarlo vuoto.
Più che del Tempio reale, che naturalmente fu oggetto di vicissitudini storiche, ricostruzioni (almeno due principali, esiliaca e quella di Erode alla vigilia della sua distruzione), vale la pena di occuparsi brevemente del suo prototipo nel deserto, il Tabernacolo o Miskan, minuziosamente descritto in diversi capitoli dell’Esodo (fra l’altro 25-27, 30-31, 35-38, 40) e del Levitico (16-18). Non è possibile qui illustrare e interpretare nei dettagli il dettagliatissimo lavoro simbolico del Tabernacolo. Vale solo la pena di illustrare la gerarchia spaziale che lo circonda e lo struttura all’interno. Il tabernacolo era al centro di un accampamento strutturato in tre zone. Vi è il campo, mechané, in cui vi è un luogo stabilito a seconda dell’orientamento per ciascuna delle 12 tribù e una zona centrale presidiata dai leviti, al cui centro sta la tenda o ohel (organizzata a sua volta in tre spazi concentrici) e fuori l’extracampo o sané. Le regole rituali, per esempio la modalità di uccisione degli animali sacrificati o cacciati varia notevolmente a seconda delle zone; vi sono degli atti rituali che si debbono svolgere in una certa zona, altri che vi sono proibiti:
Qualunque figlio d’Israel scanni un bue o un agnello o una capra entro il campo o fuori del campo senza condurlo all’ingresso della tenda del convegno per presentarlo come offerta a YHVH davanti alla residenza di YHVH, sarà considerato colpevole di delitto di sangue: ha sparso il sangue e questo uomo sarà escluso dal suo popolo. (Levitico 17)
Anche l’accesso è definito; le persone affette da certe condizioni debbono stare in certe zone e non possono entrare in altre: per esempio i malati di lebbra (o scabbia, comunque da una malattia della pelle) sono confinati nel sané; coloro che sono ritualmente impuri, perché per esempio sono entrati in contatto con un cadavere o con liquidi organici non possono entrare nel recinto dell’ohèl, nella tenda vera e propria possono accedere solo i sacerdoti. Anche lo spazio dell’ohèl è organizzato in tre zone, come si diceva: un cortile accessibile a tutti i membri del popolo di Israel ritualmente puri, un kodesh (“santo”, o meglio “distinto”)[14] cui possono accedere solo i sacerdoti in servizio e un kodesh kodashim (“santissimo” o “distintissimo”) cui possono entrare solo Mosè e Aronne (i cui figli vengono divorati dal fuoco per aver offerto un “fuoco estraneo”, cioè un sacrificio non richiesto, Lv 10) e poi solo il grande sacerdote nel Giorno dell’espiazione. Nella Torah la soglia è sempre connessa a comportamenti particolari e al bisogno di un’autorizzazione per superarla: così per esempio, di fronte al miracolo del roveto ardente, Mosè prima si allontana, poi si copre il volto ed è invitato a togliersi i calzari, “perché il luogo [ancora maqom] sul quale stai [omed, la stessa radice di amen e della preghiera ebraica principale, la amidah] è suolo [adamah] sacro” (Es 3:5)
Fra gli arredi dell’area santissima vi è “lo spazio dell’apparizione”, l’arca della testimonianza, una specie di cassapanca di legno di acacia dorato, che contiene le tavole del Decalogo e la copia originale della Legge e che è completata sul coperchio dalle statue d’oro di due cherubini che si fronteggiano e si guardano. L’apparizione divina parla nello spazio fra i cherubini, un luogo ancora delimitato (spesso si è commentato: fra due sguardi che si riflettono, fra due possibili interlocuzioni) all’interno della serie di delimitazione concentriche che ho elencato.
5.
Da questi accenni si vede un primato del centro, che è molto forte nella liturgia ebraica. Ad essa si contrappone, o piuttosto la completa la Wanderung, l’erranza che è caratteristica del deserto e dei patriarchi. Tortuoso è il percorso di Abramo (che viene dall’altra parte, ivrì) e anche dei suoi discendenti; muovendosi per caso “oltre il deserto” a pascolare il gregge di pecore di suo suocero, Mosè incontra il roveto ardente (Esodo 3.1); per quarant’anni poi guiderà il suo popolo in un vagabondaggio nel deserto del Sinai, per coprire un percorso di un paio di centinaia di kilometri, che qualunque carovana copre in una settimana o poco più. Non si tratta di gesti casuali, l’isotopia è troppo forte per consentire quest’ipotesi. E in effetti, un punto capitale della Torah, nella confessione di fede o nel suo proprio riassunto che doveva pronunciare ogni fedele portando le primizie a Tempio in una delle feste di pellegrinaggio, inizia con la frase ““mio padre [cioè Abramo] era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa.” (Dt 26: 4-10). Questo brano, che alcuni filologi dell’Ipotesi Documentaria identificano addirittura con il nucleo generatore della narrazione biblica, viene ripetuto nella popolarissima liturgia della cena pasquale (seder).
L’erranza è però riportata a un obiettivo, che non è possibile raggiungere subito, come la Terra promessa (o piuttosto nel testo ebraico “data”, il verbo usato per definirla è natan, “dare) per il popolo dell’Esodo. Dunque si misura in rapporto a una centralità, che viene riprodotta nella struttura del Tempio e del Tabernacolo. Vi è una gerarchia di soglie concentriche che costruisce la “distinzione” (o santità) dei luoghi. E’ interessante ribadire che quest’opposizione fra dentro e fuori (dalla soglia) si congiunge all’opposizione fra alto e basso.
Lo si vede già nella descrizione del giardino dell’Eden (Genesi 2: 10-15): vi è l’albero della vita “al centro”, congiunto in qualche modo (vi sono molte speculazioni mistiche su questo con l’albero della conoscenza del bene e del male, vi nascono quattro fiumi (dunque il luogo è elevato), la nozione di giardino implica una delimitazione e una soglia, tant’è vero che dopo la cacciata di Adamo ed Eva Dio vi colloca “i cherubini che roteavano la spada fiammeggiante”, “per custodire la strada che portava all’albero della vita”, ma stranamente solo “a oriente”. Abbiamo dunque un luogo delimitato a elevato al cui centro sta un albero, cioè il più tipico elemento verticale dell’immaginario ebraico. Il successivo elemento verticale, che alcuni commentatori hanno visto come una sostituzione di questo è la Torre di Babele, anch’essa connessa a una città e dunque a una delimitazione, presumibilmente a delle mura.[15]
Altri due luoghi canonici della geografia sacra ebraica sono monti, cioè elementi tipicamente verticali. Il primo è il monte Morià in cui (non) avviene il “sacrificio di Isacco” (che il mondo ebraico chiama invece akedà, “legatura”) esso è identificato con la tradizione con il monte Sion, l’altura di Gerusalemme su cui (o accanto a cui, secondo la toponomastica attuale, sorge il Tempio). Tempio, Gerusalemme, Monte Morià e l’intera Terra di Israele condividono fra l’altro una strana indicazione, perché si prescrive di recarvisi con la precisazione “vai al paese (nel luogo, ecc.) che io ti indicherò” (per esempio Gn.12,1; 23,2 ecc.). Il futuro, l’altezza, la sacralità in questo caso vertiginosamente coincidono.
Il secondo luogo è ancora una montagna, quella chiamata Sinai o Orev. Leggendo il lungo testo variamente intervallato che descrive la Rivelazione Es.19-24) si è colpiti dal numero di salite e discese che Mosè fa sul Sinai, quasi l’andare e venire di un ago che tesse fra lo spazio della trascendenza e quello della vita quotidiana del popolo, che incontra ostacoli, incomprensioni, lacune. Vi è qui un evidente rapporto di contrarietà nella somiglianza con la Torre di Babele, che pretendeva di raggiungere e conquistare il Cielo; e vi è anche una soglia precisa: nel momento in cui sta per avvenire la Rivelazione Dio impone a Mosé:
E metterai un segnale di confine intorno al monte, avvertendoli: State bene attenti di non salire sul monte né di toccarlo all’estremità perché chiunque lo toccasse ne morrebbe. Nessuna mano lo tocchi, poiché chi lo toccasse sarebbe lapidato o ucciso a colpi di freccia, sia bestia o uomo, non sopravvivrebbe (Es.19:12-13)
Insomma la verticalità dev’essere tutelata nella maniera più severa da una soglia che richiede una sorveglianza anche umana (i colpi di freccia e le pietre della lapidazione). E’ un regime metaforico che ha grande capacità di diffusione. Per esempio l’attività legislativa dei maestri posteriori alla chiusura del canone biblico è normalmente descritta e giustificata come l’attività di “piantare siepi intorno alla Torah, come a proteggerla, marcando una soglia più estesa del suo preciso dettato.
Si possono citare brevemente qui anche altri indizi fra i numerosi che indicano la verticalità come valore spaziale dominante: per esempio il termine generico per sacrificio in ebraico è la parola korban, che significa avvicinamento. Come viene spiegato l’episodio di Caino e Abele, il sacrificio è bene accetto, o riesce, quando il fumo del dono bruciato (questo è in concreto il sacrificio ebraico) sale verso il cielo, e non lo è quando stagna a terra.
6.
Il rapporto con la Terra di Israele non è utopico, ma al contrario topico. E’ solo nel rapporto con quella terra, sempre desiderata, sempre perduta, che si può realizzare l’identità ebraica. La terra non è pensata come qualche cosa di ideale o di futuro (come semmai è il messianesimo, che entra tardi nel pensiero ebraico e innanzitutto come progetto teologico-politico, come restaurazione del regno davidico e dunque della santità della Terra, profanata dalle invasioni straniere. L’esilio (golà) è il contrario della redenzione (gheulà). La condizione della redenzione è il ritorno alla Terra. La preghiera che fu introdotta dopo il ristabilimento dello Stato di Israele, nel 1948, lo definisce reshit geulatenu, “germoglio” (o “principio”, è lo stesso vocabolo impiegato come prima parola della Torah) “della nostra redenzione.
Vi è dunque un topìsmo di Israele che riguarda non tanto la sacertà dello spazio, ma nei termini della premessa che ho fatto, quella dei luoghi. Concludo riassumendone i punti principali:
• Lo spazio del sacro ebraico è fortemente strutturato e normato. La separazione spaziale è di per sé un valore.
• Lo spazio è gerarchico/ascensionale. Gli interspazi sono soglie, utili come difese.
• I passaggi sono fortemente marcati, per essere ammessi nello spazio superiore bisogna averne titolo, si può essere confinati a uno spazio inferiore.
• La separazione vale anche solo nella sua dimensione spaziale, non per i contenuti metaforici di cui è portatrice, è fonte di senso per il mondo e guida per l’azione.
• Lo spazio separato (distinto, kodesh) ha valore come tale e il primo esempio di ciò è la terra di Israele.
• L’ebraismo non è utopico, ma al contrario topico. E’ interessato e in un certo senso vincolato a un sistema di luoghi, che ha al centro il Tempio, Gerusalemme, Eretz Israel. Il suo universalismo non è geografico o spaziale, ma etico.
Ugo Volli
Università di Torino
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Volli, Ugo
in stampa Domande alla Torah, L’Epos, Palermo
von Uexküll, Jakob Johann
1921. Umwelt und Innenwelt der Tiere. 2. verm. u. verb. Aufl. J. Springer, Berlin; trad. it. Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata 2010.
[1] Per Torah, intendo qui in generale l’insegnamento o la Legge ebraica nei suoi vari sviluppi, ma più specificamente il Pentateuco. i cosidetti cinque libri di Mosè. Per una discussione, cfr. Volli in corso di stampa.
[2] In realtà, come vedremo subito, semioticamente pertinente è piuttosto la nozione culturale di luogo, non quella biologica di ambiente né quella geometrico/filosofica di spazio. Per ragioni di semplicità, avendola dichiarata esplicitamente, nel seguito di questo articolo mi permetterò di tralasciare questa distinzione e di parlare di spazi anche nel senso culturale.
[3] Anche se qualche volta, dove non vi è possibilità di confusione, accetterò locuzioni correnti e parlerò anche di spazi sacri.
[4] “sacred c.1300, from pp. of obsolete verb sacren “to make holy” (early 13c.), from O.Fr. sacrer (12c.), from L. sacrare “to make sacred, consecrate,” from sacer (gen. sacri) “sacred, dedicated, holy, accursed,” from O.L. saceres, which Tucker connects to base *saq- “bind, restrict, enclose, protect,” explaining that “words for both ‘oath’ & ‘curse’ are regularly words of ‘binding.’ “http://www.etymonline.com/index.php?term=sacred . Il riferimento è a Tucker 1976.
[5] Vedi nota precedente. Una spiegazione alternativa e contraddittoria (“da una radica *sak – che indica avvincere, aderire, quindi cosa avvinta alla divinità…” (così Colonna 1997: 327, ma anche la maggior parte dei dizionari) resta comunque in un asse semantico tipicamente spaziale. Per il greco le fonti insistono sulla “separatezza”. Cfr. http://www.wenstrombibleministries.org/downloads/written/word_studies/greek/hagios.pdf Particolarmente illuminante l’analisi di Emile Benveniste (1969: 420-41)
[6] E’ significativo che l’etimologia di maqom lo colleghi al verbo qom, sollevare e quindi proponga innanzitutto una dimensione verticale del luogo. Vedremo subito che questo è particolarmente significativo rispetto al luogo biblico canonico della divinità del luogo.
[7] Non traduco come si fa di consueto il Tetragramma con Signore; per rispettare il suo carattere di nome proprio mi limito a traslitterarlo.(Per una motivazione più completa, cfr. Volli in corso di stampa)
[8] L’altro principale nome divino, lo spezzo con un trattino per rispettare l’uso religioso.
[9] Si noti che cielo e terra , con gli stessi vocaboli usati qui (shamaym e aretz) compongono l’endiadi che caratterizza la creazione (Volli, in corso di stampa). Adamah ha una connotazione più concreta, è l’argilla di cui è fatto Adamo, dunque il singolo luogo concreto, il “suolo”.
[10] Talvolta riportato in grafia inglese come Ayn Sof
[11] Che però non scrisse i suoi insegnamenti, essi sono noti dai testi del suo allievo Hayyim Vital (1542-1620), in particolare ‘Etz Hayyim (“l’albero della vita”) (Vital 1999)
[12] In queste poche frasi riassumo rozzamente una tematica che è stata sviluppata per secoli da scuole mistiche particolarmente ricche di pensiero e di creatività originale; sono inevitabili quindi semplificazioni e inesattezze. Per un’introduzione alla materia rimando ai lavori di Scholem e di Idel in bibliografia.
[13] Su questo vedi Volli in corso di stampa.
[14] E’ importante sottolineare che in ebraico i due sensi di “santo” e “distinto” (nel senso di diverso dal contesto, portatore di una differenza) si sovrappongono. Non si comprende buona parte della Legge ebraica e dei precetti concreti se non si bada al fatto che essi impongono di differenziare: il sacro dal profano, ciò che si può mangiare e ciò che è interdetto, perfino la lana dal lino e le diverse specie di coltivazioni, che è proibito mescolare. Per una riflessione antropologica su questi temi, si vedano le opere di Mary Douglas citate in bibliografia. Per noi qui è rilevante il rapporto fra santità e distinzione degli ambiti spaziali.
[15] Per un’analisi di questo racconto capitale per la concezione ebraica dello spazio, cfr. Volli in corso di stampa.