Lo Shemà rappresenta il fondamento della preghiera quotidiana. Viene infatti recitato al mattino svegliandosi e alla sera coricandosi, oltre ad essere presente nei momenti di preghiera che scandiscono la giornata. Analizziamo il significato e il senso della preghiera. Nella accezione comune esso sta a indicare una richiesta oppure una lode rivolta al Signore. Se però esaminiamo l’etimologia del termine ebraico tefillà (preghiera) esso deriva dalla radice palal, che significa gidicare, da cui pelilim, giudici. Pregare si dice le-it-pallel, una forma riflessiva che può significare appunto sia sottoporsi al Giudizio divino che autogiudicarsi.
Giudicare e giudicarsi: possiamo quindi considerare un ulteriore significato da dare al termine tefillà: esprimere al cospetto di Hashem un giudizio verso se stessi e addirittura porsi in relazione dinamica con il Signore permettendosi di giudicare il suo operato.
A conferma di quanto detto basta ricordare alcuni episodi riportati nella Torà. In Genesi 18, 22-33 il patriarca Abramo mette in discussione la decisione dell’Altissimo di distruggere tutti gli abitanti di Sodoma e Gomorra richiamando il Signore di Giustizia a non considerare l’empio uguale al pio e riuscendo a strappare un cambiamento del disegno divino.
Anche Mosè in Esodo 4,1-17 cerca di contrastare il volere divino che lo vuole nel ruolo di portavoce del Signore al cospetto di Faraone. Ancora in Esodo 32,31-35, dopo l’abominio dell’adorazione del vitello d’oro da parte del popolo ebraico, Mosè ottiene che solo chi abbia commesso il peccato sia punito con la morte e resti salvo chi non se ne è macchiato.
A questo rapporto, per così dire colloquiale e sotto certi aspetti paritario, possiamo ricondurre una sostanziale differenza esistente tra la regola ebraica di pentimento (teshuvà)e perdono dei peccati in un rapporto diretto con Hashem, senza intermediari che concedano l’assoluzione dai peccati, come avviene invece nella dottrina cattolica.
Torniamo ora all’analisi dello Shemà e notiamo che esso è diviso in tre parti.
Se esaminiamo la prima parte osserviamo che esso riporta pedissequamente alcuni versi del Deuteronomio 6,4-9. Il testo della Torà recita Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai o quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi e le scriverai sugli stipiti delle tue case e delle porte della città.
Osservando quindi il testo ci rendiamo conto che questa preghiera non corrisponde ai canoni cui fa riferimento una preghiera, ma è piuttosto una esposizione degli aspetti fondamentali della fede ebraica. Ecco perché lo Shemà non può propriamente definirsi una preghiera.
Lo Shemà che noi recitiamo rispetto al testo della Torà presenta in più una benedizione che è stata inserita dopo il primo periodo: Benedetto il suo nome glorioso per sempre in eterno.
Questa benedizione viene recitata a bassa voce durante tutto l’anno, solo nel giorno di Kippur viene pronunciata a voce alta.
Secondo una prima opinione, il recitare a voce bassa questa benedizione è dovuto alla consapevolezza che la Torà non può essere in alcun modo modificata anche trattandosi di una benedizione dell’Altissimo. Nel giorno di Kippur però il cammino di teshuvà che abbiamo compiuto per giungere al cospetto dell’Eterno ci pone in uno stato di elevazione che potremmo forse definire simile allo stato angelico e che ci pone su un piano di maggiore uguaglianza con il Signore permettendoci di pronunciare a voce alta la succitata benedizione.
Ascolta, Israele…significa che ci poniamo in uno stato di ascolto che presuppone una disposizione a far penetrare nel proprio spirito quanto ci viene detto e per tale motivo, durante il primo verso, chiudiamo gli occhi coprendoli con la mano destra.
Ascolta, Israele…in ebraico Israele sta ad indicare Colui che lottò con Dio. È il nome con cui viene chiamato per la prima volta Giacobbe (Genesi 32,24-33), figlio di Isacco, quando questi lottò con l’angelo del Signore opponendo la propria volontà a quella divina. Ancora una conferma del rapporto paritario, a volte conflittuale che lega il popolo ebraico ad Hashem.
Anche il ribadire che il Signore è il nostro Dio pone l’accento sul legame particolare che lega il popolo ebraico al Signore facendone il testimone nel mondo della presenza dell’Altissimo.
Anzichè dire il Signore nostro Dio è Uno, viene ripetuto nuovamente il nome tetragammato. Il Rashì dà di questa ripetizione una spiegazione molto significativa, affermando che essa sta ad indicare che il Signore, inizialmente riconosciuto come unico solo dagli Ebrei, sarà riconosciuto come tale anche dal resto dell’Umanità.
È il riconoscere questa unicità che avvicina le diverse fedi religiose le quali, seppur nella diversità della pratica, tendono tutte all’unico Dio.
Lo Shemà ci richiama poi ad amare il Signore con tutte le nostre forze, intendendo le forze del bene e quelle del male che sono in noi. Possiamo ricondurre il significato di forza del male per esempio all’istinto. Ma questo però ci porta a creare, a costruire, a produrre. È nell’utilizzare l’istinto che può portarci a fare il male per costruire che acquistiamo dei meriti: quale merito avremmo se servissimo il Signore solo con il bene di cui siamo capaci?
Rabbì Akivà testimoniò con la propria sofferenza l’amore verso il Signore. Quando fu messo sulla graticola e scorticato vivo dai Romani, ai suoi discepoli che gli chiedevano dove trovasse la forza di recitare lo Shemà, lui rispondeva che nella vita ci sono poche possibilità di dimostrare l’amore verso l’Altissimo anche sacrificando la propria vita e adesso che era giunto il momento non avrebbe dovuto farlo, testimoniandolo con la propria morte.
All’amore per il Signore bisogna saper unire anche l’amore verso il prossimo: Hillel a chi chiedeva di esprimere in poche parole la fede ebraica, la riassumeva con la frase “Amerai il prossimo tuo come te stesso”: desidererai per gli altri ciò che desideri per te stesso, ma l’amore verso il prossimo non deve superare l’amore per se stessi, in quanto ciò costituirebbe una distorsione del senso della frase e andrebbe al di là di ciò che si può umanamente e realisticamente chiedere all’uomo.
Spesso una certa morale presente nella cultura cattolica ha portato a far credere che il bene dell’altro possa essere posto al di sopra del proprio. Il porgere l’altra guancia al proprio nemico o a chi ci offende è completamente lontano dal pensiero ebraico. A chi ci offende o ci danneggia non bisogna porgere l’altra guancia, ma anzi difendersi o porre una separazione tra noi e l’altro!
Nel Talmud viene fatto l’esempio di due uomini che si trovano nel deserto con acqua sufficiente solo per uno. Come ci si deve comportare in questa circostanza? Due maestri esprimono la propria opinione: Ben peturì afferma che entrambi devono bere dalla borraccia, in modo che nessuno dei due veda la morte dell’altro. Rabbì Akivà afferma che il proprietario della borraccia d’acqua deve bere l’acqua, perché l’amore per se stessi deve superare quello per gli altri e forse così il proprietario dell’acqua, salvando se stesso potrà salvare anche l’altro. Il comune sentimento potrebbe invece portarci a dire che si divide l’acqua a metà, ma così è certo che entrambi moriranno, mentre la Torà, la legge, è una Torath Chaim, una legge di vita che deve insegnarci quale deve essere il modo migliore per far prevalere la vita sulla morte, anche se talvolta sembra che venga sacrificata la vita.
Il popolo ebraico si rivolge al Signore con vari nomi, poiché il nome tetragrammato è per noi impronunciabile. Due appellativi ricorrono spesso: Elokim e Hashem.
Il termine Elohim, nostro Signore, è inteso come Dio di Giustizia e della Natura. Hashem – dalla radice Hayah (verbo essere) e che viene spesso tradotto con l’Eterno – rappresenta in un certo senso il Nome proprio di Dio e sta ad indicare il Santo Nome per eccellenza, che rappresenta l’essenza più intima del Signore, Dio della Misericordia e della Storia.
Dalla lezione di Rav Scialom Bahbout, tenuta alla Sinagoga di Trani il 2.1.2006 a cura di Francesco Lotoro.