Tratto da “Le Dieci Parole – Haim Baharier”, San Paolo 2011
Lo Shabbàt, la domenica degli ebrei, non è una domenica che cade di sabato.
Ricorda il giorno di Shabbàt per santificarlo. Sei giorni lavorerai e svolgerai tutta la tua opera. E il settimo giorno sarà Shabbàt per Ado(n)ài il tuo Elo(h)ìm; non svolgerai alcuna opera, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua serva, e il tuo bestiame, e il tuo straniero che è entro le tue porte. Perché per sei giorni Ado(n)ài ha plasmato i cieli e la terra, il mare e tutto quanto in essi, e il settimo giorno si è riposato; pertanto Ado(n)ài ha benedetto il giorno di Shabbàt e lo ha santificato.
Nella promessa accolta al midbàr dai reduci d’Egitto, lo Shabbàt è ricordato come memoria della Genesi. Quarant’anni dopo, in prossimità di Canaan, davanti a un popolo composto da pochi veterani e molti figli del deserto, Mosè legittima la promessa dello Shabbàt in termini diversi:
Il settimo giorno sarà Shabbàt per Ad(o)nài tuo EI(o)hìm […] ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e Ad(o)nài tuo EI(o)hìm ti ha fatto uscire da lì […] (Deuteronomio 5,14-15)
Sembra un ribaltamento sulla pergamena; fogli di cartapecora ricuciti nel rotolo scambiati di posto. Perché la logica avrebbe preteso diversamente: celebrare l’uscita vicini all’Egitto e riallacciarsi alla Genesi sulla soglia della terra donata. In Esodo, il popolo febbricitante, sfiatato da improvvisa libertà, si sarebbe temprato raccogliendo una testimonianza fresca e attendibile per mettere mano alla propria cronaca. Mentre quarant’anni più tardi, superate le prove, avrebbe preso respiro ampio recuperando una storia inscritta nella memoria universale.
Chiama ad altro la Bibbia di questo popolo, scritta da Mosè.
La promessa sabbatica dell’Esodo, perché si realizzi, esige dal popolo appena sfuggito all’etnocidio uno sguardo da presbite. Per distinguere, dietro al passato, immagini e racconti della Genesi.
Nel Deuteronomio, legittimando di nuovo lo Shabbàt, Mosè chiede al popolo di abbassare lo sguardo. Per intrattenersi su una vicenda a rischio di rimozione, quasi tumulata dalle sabbie del deserto: l’uscita d’Egitto. Lo domanda a un popolo che ha acquistato e sedimentato una memoria, che ha allargato le proprie vedute, si è rigenerata perdendo scampati e acquistando figli.
Sei giorni sono necessari al Creatore per edificare la casa. Quando si ritira è Shabbàt. La sua ritrosia fonda la libertà degli uomini, ma la sua opera lo riporta tra di loro. Così al midbàr si ritorna idealmente a quel momento in cui Creatore e creatura si fronteggiano. Si entra nella parola.
Per santificare lo Shabbàt occorre uscire dalla piccola storia, inseguire l’ideale. Ogni giovane uomo, ogni giovane popolo o popolo affrancato, è affamato di ideali. Le certezze della fede sono surrogati che sviano, non placano. La poca storia acquisita non basta per tenere in piedi. L’ideale dà invece spunto alle gambe; in forze, trovato l’orientamento, arriva cammin facendo la memoria. Più la memoria cresce più estromette l’ideale, diventa lei il carburante. Ma vicini alla meta, è la memoria stessa che rischia di essere idealizzata, celebrata. Ci si mette al riparo chinandosi sui piedi impolverati, ricordando l’uscita d’Egitto. Chi la rammenta diventa custode dello Shabbàt nella propria storia.
Dal tempietto di legno di un oscuro borgo polacco si eleva l’auspicio universalista del maestro hassidico: «Zol zain Shàbes of der welt!» (Sia Shabbàt sul mondo).
Per quali vie il sogno d’ozio di un minuscolo popolo errante nel deserto di Sinai si annette ai lumi del cosmo?
Ado(n)ài disse a Mosè: «Ecco Anokhì viene verso di te nel denso della nube, affinché il popolo possa udire mentre parlo con te, e anche in te avranno fiducia per sempre»; e Mosè narrò a Ado(n)ài le parole del popolo.
Una nube guida e protegge il popolo d’Israele nel suo cammino nel deserto. Una nube ammanta l’apice del monte Sinai.
La nuvola si propone all’uomo per quello che realmente esprime, vapore del globo terracqueo da restituire in pioggia. Pioggia, in ebraico ghèshem, è anche materialità. Nella concretezza dell’esperienza ricerco i principi che governano l’universo.
Le nuvole restituiscono pioggia, a modo loro, non subito e secondo i loro tempi. Ci parlano di una giustizia terrena, dove, se pianti al momento giusto, raccogli. Chiunque tu sia. E pertanto è facile la fraternità nel cono della loro ombra.
Ma se dense, le nubi turbano. In ebraico la parola nuvola significa anche risposta. Se la nube minaccia, se la risposta è aberrante, lo è perché si partoriscono domande aberranti.
Ricordo un ammonimento dei maestri del Talmud: la terra che abitiamo la riceviamo in comodato d’uso dai nostri figli. Il regno è loro, figli delfini con noi reggenti.
La nuvola parla ai figli d’Israele come a noi oggi. Come la nuvola, ciò che siamo lo traiamo dal mondo ma non è per noi: non siamo per noi. E occorre spendersi con oculatezza per il mondo a venire poiché i figli verificheranno se abbiamo rispettato il loro testamento.
In ebraico eredità si dice investimento.