Le elite europee coccolano gli intellettuali israeliani che lasciano o hanno lasciato Israele
Giulio Meotti
Roma. Un paio di anni fa il suo libro “The invention of the Jewish people” suscitò dibattiti e polemiche senza fine, vendendo milioni di copie. Shlomo Sand, un famoso storico israeliano che insegna all’Università di Tel Aviv, sei giorni fa sul quotidiano inglese Guardian ha scritto: “How I stopped being a Jew”. Una dichiarazione di profonda abiura dell’ebraismo e del sionismo. “Durante la prima metà del XX secolo, mio padre ha abbandonato la scuola tal-mudica, ha smesso di andare in sinagoga, e ha espresso la sua avversione per i rabbini. A questo punto della mia vita, nei primi anni del XXI secolo, sento l’obbligo morale di rompere definitivamente con l’ebraismo”. Sand, che adesso passa più tempo in Inghilterra che in Israele, non è il primo intellettuale della sinistra israeliana a professare apostasia.
Dal 2008 vive in Inghilterra Ilan Pappé, già docente all’Università di Haifa, icona di quella “nuova storiografia” che vede lo stato ebraico come una mera colonizzazione ai danni del popolo arabo, autore Einaudi in Italia e firmatario di manifesti per il boicottaggio dei docenti ebrei. Assieme a lui, nel Regno Unito, vivono lo storico israeliano Avi Shlaim e il giurista Oren Ben-Dor della Southampton University.
Secondo il professor Steven Plaut, che insegna Business Administration all’Università di Haifa, questi intellettuali fanno parte di “gruppi di israeliani espatriati che si dedicano alla guerra contro la sopravvivenza di Israele”. Nella sua villa in Toscana, sulle colline di Ponte Buggione, a Pistoia, è morto Amos Elon, decano dei corrispondenti di Haaretz, dove divenne il protetto dell’austero editore Gershom Schocken, e poi l’autore di libri adottati nelle scuole d’Israele e del bestseller “Gerusalemme” (Rizzoli).
Anche la figlia, Danae Elon, apprezzata regista di sinistra, vive a New York. E pensare che Elon aveva scritto una delle più belle biografie di quell’uomo di teatro che nella Vienna di Freud e Mahler, nell’atmosfera fertile, nel bene e nel male, della mitteleuropa, diede una speranza agli ebrei: Theodor Herzl. Ha appena scelto Chicago lo scrittore israeliano Sayed Kashua, editorialista di giornali israeliani, romanziere popolarissimo, volto televisivo, che questa estate ha scritto un articolo dal titolo: “Why I leave Israel”, perché lascio Israele.
L’ex speaker della Knesset, Avraham Burg, che nel frattempo è diventato un saggista e un conferenziere blasonato e che si è professato “cittadino del mondo”, ha preso il passaporto francese e vive a Parigi. Ari Shavit di Haaretz lo ha chiamato “il profeta di Brussels”. Burg è l’autore di quel pamphlet antisionista intitolato “Sconfiggere Hitler”. In una intervista, alla domanda se “raccomandi a ogni israeliano di prendere un passaporto straniero”, Burg ha risposto: “A tutti quelli che possono”. C’è poi la nutrita comunità di scrittori israeliani che hanno scelto la Germania come nuova patria, tipo Boaz Arad, Tal Alon e Nati Oman, che va fiero che “ci sono oggi più artisti israeliani a Berlino che in Israele”.
Anche lo scrittore David Grossman, in una intervista alla tv inglese Canale 10, ha detto di valutare l’ipotesi dell’esilio: “Ho considerato l’idea di lasciare Israele”. Quest’estate, sull’Independent, la scrittrice e giornalista israeliana Mira Bar Hillel ha firmato invece un editoriale dal titolo: “Sto per bruciare il mio passaporto israeliano”. Nei 1967, durante la Guerra dei sei giorni, sui giornali e nei salotti degli scrittori israeliani circolava un’amara battuta. All’aeroporto di Tel Aviv un’insegna recita: “L’ultimo ad andarsene spenga la luce”. Allora fu un mugugno di sarcasmo. Oggi è ciò che fa l’intellighenzia israeliana coccolata dalle élite europee.
Il Foglio – 13.11.14