Umberto Fortis – 2007, La Rassegna Mensile di Israel, vol. LXXIII, n. 3
Dicono che da noi non ce ne sia uno in grado di creare qualcosa di simile alla loro poesia. Devono rendersi conto che l’arte ebraica non è come quella cristiana, ma che include questa e quella ed è capace di tutte e due.
Leon Modena (a Mosheh della Rocca, 5344)
Premessa
Venerdì 3 aprile 1648 Diana, “figliola del quondam Eccellente signor Rabbi Leon da Modena”, presentava al notaio Andrea Calzavara di Venezia l’inventario dei beni e dei “libri sì hebraichi come vulgari” che si trovavano nella casa del “detto Rabbi Leon”, morto solo tredici giorni prima. Accanto ai libri “hebraichi”, stimati da Isacco Nizza, appare una lunga lista di “libri vulgari”, stesa da Moise Luzzatto: l’elenco include i Ragguagli di Parnaso del Boccalini, le lettere di Cicerone e del Bembo, accanto al Vangelo, al Decameron e alle Prediche di Girolamo Savonarola e, ovviamente, a I Trionfi di Angelo Alatini, la favola pastorale, della quale il Modena stesso aveva curato l’edizione veneziana del 1611[1]. Chi scorresse questo inventario del più noto rabbino del ghetto lagunare nel Seicento potrebbe restar sorpreso, vedendo, accanto ai tradizionali volumi di Torah, di ritualistica o simili, testi di varia estrazione, appartenenti alla produzione ritenuta ‘profana’ o ‘laica’, esterna, comunque, allo spazio culturale ebraico; e, forse, sarebbe tentato, in un primo momento, di attribuire tale compresenza all’eccentricità del ‘reverendissimo’ rabbino, per tanti motivi discusso e tanto diverso dalla canonica figura del moreh tzedeq (rabbino)[2].
In realtà, non si tratta di una singolare eccezione. La presenza di testi esemplari della letteratura italiana e latina accanto ai volumi della più tipica tradizione biblica e halakhica è fenomeno riscontrabile in molte raccolte di libri di dotti ebrei e di rabbini dell’età rinascimentale e barocca, com’è ampiamente documentato, in percentuale variabile, certo, ma ugualmente significativa[3]. Si tratta, di fatto, del tangibile riscontro dell’interesse provato dalla classe colta ebraica verso la produzione della società italiana e, di riflesso, della fluidità dei rapporti esistenti tra una minoranza e la cultura dominante; la riprova degli interscambi che, iniziatisi fin dal XIII secolo a livello di singole personalità, e sviluppatisi tra intellettuali ebrei e cristiani nell’età umanistica, hanno trovato nuovi incentivi dopo la diffusione della stampa, per la possibilità di fruire dei testi di maggior interesse a condizioni economicamente disponibili.
L’accesso, tuttavia, verso le più importanti espressioni culturali, spesso anche verso la stessa lingua italiana[4], e le più diffuse proposte di poetica del tempo, il graduale distacco dalla tradizione della scuola medievale spagnola hanno determinato in campo ebraico non soltanto l’acquisizione di moduli e di modelli estranei alla tradizione, ma anche lo stimolo a entrare, con pari dignità e con spiccato intento emulativo, in uno spazio culturale fino ad allora scarsamente esplorato, con la produzione di opere poetiche, pièces teatrali e saggi, in italiano e in ebraico, accanto agli studi canonici di ritualistica o biblici e talmudici. Questo processo, da tempo al centro degli interessi della critica storica, è stato naturalmente oggetto di valutazioni discordanti[5]: da un lato, lo si è giudicato come segno di una pressione esterna della dominante temperie culturale; dall’altro, lo si è interpretato, forse più giustamente, come nuova ricerca di affermazione d’identità da parte di una minoranza socialmente discriminata[6]o, ancora, come indice di una tendenza potenzialmente assimilatrice. Quel che è certo è che l’ampio impegno dimostrato da alcuni rabbini italiani verso la produzione letteraria loro contemporanea, durante i secoli della segregazione nei ghetti, rappresenta, secondo più recenti proposte critiche, un tratto nuovo e distintivo, che non trova riscontro simile in altre aree europee[7]e che, per il suo valore, può diventare perciò, sicuramente, un singolare, diverso angolo visuale atto a rivedere, almeno in parte, il giudizio complessivo espresso nei confronti della condizione culturale ebraica nell’arco dei secoli della discriminazione. Potrà servire non tanto come tentativo di mutare radicalmente una valutazione per gran parte negativa, più volte formulata nei confronti di quell’epoca dell’ebraismo italiano, quanto, almeno, come incentivo a ridimensionare, con l’adozione di una prospettiva prevalentemente letteraria, un atteggiamento critico da tempo diffuso.
La scelta di questa via non deve sembrare arbitraria, perché, nell’analisi complessiva dei secoli che vanno dal 1550 al 1750 circa, qui considerati, l’interesse culturale di alcuni rabbini in tale direzione, al di là di ogni giudizio di valore estetico, risulta, almeno sul piano storico, qualificante e, in alcuni casi, in grado di produrre opere di alto spessore.
L’età umanistico-rinascimentale
È noto che sulla produzione degli ebrei italiani nel periodo che si estende fino al XVIII secolo grava un giudizio fortemente limitativo, tanto che, per convenzione, la storiografia ricorre, molto spesso, alla definizione di “letteratura medievale” per qualificare complessivamente questo esteso arco di secoli[8]. Appare significativa, a tale proposito, una ricorrente metafora, secondo la quale gli ebrei sarebbero stati “traghettati” dall’età umanistico-rinascimentale alla fine del XVIII secolo, quasi a indicare la presenza di un’ampia parentesi, di un lungo momento di stasi nella partecipazione alla vita culturale da parte di dotti ebrei o di rabbini[9]. L’idea di un’età di decadenza, del resto, è concordemente giustificata, in vari saggi, soprattutto in rapporto ai fattori condizionanti che hanno inciso in modo talora decisivo sulla vita diasporica. Dopo le molte espulsioni dagli stati europei, il trauma più grave fu la cacciata dalla penisola iberica, esodo che ha prodotto sconvolgimenti epocali anche in tutta la penisola italiana; la reclusione nei ghetti, in seguito, a Venezia prima (1516) e poi, nella seconda metà del Cinquecento, in tutto il centro-nord d’Italia; la contrazione imposta a ogni attività economica, costretta spesso alla sola pratica feneratizia o al commercio dell’usato; la distruzione del Talmud e l’opprimente clima della Controriforma, uniti alla censura e al fenomeno, talora, delle prediche coatte furono tutti eventi estremi, capaci di mortificare ogni manifestazione culturale[10], la cui migliore espressione fu, quasi a mo’ di compenso, forse, lo sviluppo della stampa in ebraico, pur costantemente sottoposta a censure, che ha visto impegnati, soprattutto a Venezia, molti intellettuali nel cosiddetto mele’kheth qodesh, il “lavoro sacro”[11].
Sembra anche plausibile, però, per quanto riguarda l’Italia, l’ipotesi che un siffatto giudizio restrittivo sia stato, almeno in parte, condizionato, in passato, dal confronto con l’età precedente. Benché la sensazione di crisi sia pienamente percepibile anche nelle opere di alcuni rabbini dell’epoca, da Leon Modena a Simone Luzzatto, da ‘Immanu’el Frances a Jehudah del Bene, soprattutto nella considerazione del pericolo derivante dall’isolamento dalla cultura contemporanea, secondo i primi, o dall’abbandono della conoscenza e dell’uso della lingua ebraica, per i secondi, tuttavia è proprio la valutazione comparativa che ha indotto a tracciare un profilo nel complesso riduttivo. È avvenuto, insomma, quel che per molto tempo è accaduto nella critica letteraria italiana, che ha giudicato come età di decadenza il Seicento in rapporto all’eccezionale complesso di opere dell’età umanistico-rinascimentale. Caduto, però, ormai da tempo, il mito, caro anche alla storiografia ebraica primonovecentesca, delle “due anime dell’ebraismo italiano”, dell’ “armonia concorde e operosa”[12]che avrebbe legato la cultura italiana alla cultura ebraica fino al tardo medioevo, per lasciar spazio, invece, proprio per i secoli XV e XVI, a una visione più autonoma della produzione ebraica, generata sul terreno di comuni modelli dominanti, ma animata anche dal bisogno di emulazione-superamento nei confronti della cultura circostante[13], resta, a maggior ragione, viva l’immagine di un insieme di testi che, per la loro importanza, hanno segnato per sempre la civiltà ebraica italiana.
Quel che li distingue e li caratterizza è, in effetti, una duplice tendenza: da un lato, l’assunzione di codici e di moduli della cultura contemporanea, immessi nell’alveo della tradizione dei padri, in un singolare processo di ‘ebraizzazione’ di elementi esterni da trasmettere come via di perfezionamento di strutture da tempo consolidate; dall’altro, il tentativo, costante, che quasi ne consegue, di affermare, in ogni campo, la priorità e l’originalità della cultura ebraica stessa nei confronti di produzioni dell’età classica e del proprio tempo, secondo una topica, del resto, presente già in Maimonide[14]. Abraham Farissol sostiene che con la Torah sono state date agli ebrei già tutte le arti[15]. Messer Leon fa proprio nel suo Nofeth tzufim (Miele di favo – 1475) tutto il valore attribuito dall’Umanesimo alla retorica, quale strumento essenziale per una vera paidèia civile e culturale, avvalendosi dell’apporto dei più importanti testi dell’antichità, da Aristotele, a Cicerone, a Quintiliano; ma riconosce, nel contempo, la perfezione di stile e di linguaggio del testo biblico, dal quale trae quasi tutti i suoi esempi, compiendo così non solo un esemplare processo di traduzione adattamento di strutture e di tecniche della retorica classica alla cultura ebraica, ma anche rivendicando direttamente il valore di archetipo all’antico testo della Torah[16]. A un secolo di distanza, nel 1574-75, nell’ancora serena atmosfera mantovana, ‘Azarjah de’ Rossi, nel suo Meo’r ʽenajim (Illuminazione per gli occhi), compiva un’operazione in gran parte simile, sia pur destinata a creare non pochi turbamenti nell’ala più conservatrice del rabbinato italiano ed europeo. Fatto proprio l’atteggiamento critico, tipico della cultura umanistica, sottoponeva a razionale revisione alcuni aspetti fondamentali della tradizione ebraica: dalla data della creazione del mondo (“Tutti i riferimenti cronologici presenti nella Torah e nel Talmud si riferiscono all’esodo dall’Egitto […] o ad altri grandi eventi storici, ma non si conta mai dall’apparizione dell’uomo sulla terra”[17]), al valore dell’haggadah, cercando di affrontare con spirito nuovo ogni possibile contraddizione emergente tra fonti ebraiche e fonti esterne: un comportamento ritenuto per molto tempo rivoluzionario e rivalutato solo dall’ottocentesca “scienza del giudaismo”[18]. In anni quasi certamente molto vicini, l’amico di ‘Azarjah, Jehudah Sommo (Leone de’ Sommi), l’autore della celebre Commedia del matrimonio (Tzachuth bedichutha’ de-qiddushin), in lingua ebraica[19], sosteneva la liceità del teatro nel mondo ebraico, contro le interdizioni talmudiche, ritenute ormai inattuali (e nonostante le censure del suo stesso maestro Mosheh Provenzali), e nei suoi Dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche (ante 1587) ascriveva a Mosè la paternità di ogni espressione teatrale, attribuendogli la stesura dell’ “elegantissima et filosofica tragedia di Iobbe”[20], archetipo, quasi, per la sua struttura dialogata, di ogni “spettacolo scenico”, così come, a parer suo, al mondo ebraico apparterrebbero la prima pastorale, nonché la divisione in cinque atti della tragedia e della commedia, secondo i molteplici significati di questo numero, suggeriti dalla visione qabbalistica[21].
Basterebbero questi pochi esempi, appartenenti, in parte, a una produzione ‘profana’, come s’è voluto definirla, per testimoniare il prestigio culturale di un’epoca, senza contare qui l’ampia diffusione nell’intera cultura italiana dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo (Jehudah Abrabanel)[22]; ma il suo valore diviene ovviamente ancor maggiore se lo sguardo si sposta sulla dimensione ritualistica e liturgica (con la vasta produzione di pijjutim) o sull’area degli studi biblici. L’autorità riconosciuta per quasi un secolo alla celebre jeshivah patavina, per la presenza di figure quali Jehudah Minz, i cui Responsa furono pubblicati dal Bragadin a Venezia nel 1553, e del suo successore Me’ir Katzenellenbogen; l’incidenza profonda esercitata, in Italia e all’estero, dai Responsa di Josef Kolon, che furono tra i primi a essere editi, nel 1519, da Bomberg sempre a Venezia[23]; ma, soprattutto, le opere di ‘Ovadjah da Bertinoro e di ‘Ovadjah Sforno garantiscono a tutto il periodo precedente la chiusura nei ghetti un modello autoritativo da tutti riconosciuto. La pubblicazione veneziana, curata nel 1546 da Me’ir Parenzo, del noto commento alla Mishnah del primo era destinata a segnare una data fondamentale: da allora, infatti, quel testo, esemplare per la sua chiarezza ed esaustività, sarebbe apparso costantemente ad accompagnare ogni edizione del codice normativo, quasi con la stessa valenza del commento di Rashi alla Torah. Del pari, il famoso commento del secondo al testo biblico, pubblicato, ancora a Venezia, dal Grifo nel 1567, sarebbe diventato un costante punto di riferimento, di grande valore, quanto lo fu il suo trattato filosofico ’Or ʽammim (Luce dei popoli, 1537-1548) le cui quindici quaestiones, tradotte anche in latino con il titolo di Lumen gentium, tentano di dimostrare la priorità dell’ortodossia religiosa su ogni ‘ragion filosofica’, non solo al lettore ebreo, ma anche, con ardito coraggio, attraverso la traduzione, anche a un pubblico non ebraico[24].
Insomma: il complesso di opere e il loro intrinseco valore, mentre pur continuava la produzione di pijjutim, sono tali da giustificare l’alta considerazione critica nei confronti di questo momento storico, al confronto con il quale la produzione offerta dalla cultura ebraica durante i secoli della reclusione può apparire, a uno sguardo epidermico, meno valida o comunque priva di apporti tali da incidere in modo determinante sulla vita religiosa e culturale dell’ebraismo italiano.
Ora: non è qui velleitaria intenzione rovesciare un giudizio, per gran parte condivisibile, né rivalutare, magari con qualche forzatura, opere, commenti o responsa che sono stati prodotti nelle varie comunità dove gli ebrei furono costretti a risiedere segregati nei ghetti, ma, come è avvenuto proprio per l’età del barocco italiano, rivisitato con nuovo orientamento critico, fino a mettere in evidenza come alcune espressioni artistiche e letterarie contrassegnate da un gusto esuberante, da un’esasperata ricerca dell’inedito, da sorprendenti metafore o da un’ardite ‘acutezze’, sono, di fatto, il riflesso di una crisi profonda, di smarrimento, di fronte a una realtà nuova svelata dalla rivoluzione copernicana, così è possibile, si parva licet componere magnis, analizzare i due secoli di impegno culturale di rabbini italiani, appunto, rilevando che se nel campo della halakhah o della qabbalah o nella composizione di poesie liturgiche (pijjutim), non sono, nel complesso, apparse opere tali da reggere per importanza il confronto con i grandi testi del passato, tuttavia l’interesse, più marcato che in precedenza, verso la cultura letteraria anche esterna, con testi in italiano, prima – non ritenuto più, come nel Medioevo, lingua estranea o ‘volgare’[25]-, in ebraico, poi, segna un tratto distintivo e singolare che, in qualche modo, ove se ne colgano le reali motivazioni ispiratrici, consente un giudizio meno riduttivo, o almeno diverso, su un intero periodo storico.
Certo, lo scarto dalla norma, l’attenzione verso una cultura estranea alla tradizione, pur non del tutto nuova nell’ambiente italiano – gli esempi di ʽImmanu’el Romano o di Leone de’ Sommi ne sono la prova – possono apparire, a una valutazione rigidamente conservatrice, atipici e devianti, ma gli studi degli ultimi decenni, l’analisi di opere fino a poco tempo fa mai adeguatamente studiate, hanno ampliato le conoscenze di un fenomeno che non può più, oggi, essere trascurato.
Cultura e letteratura nell’età dei ghetti
A voler tracciare un profilo, necessariamente summatim facto, e con tutti i limiti impliciti in uno schema selettivo, è possibile rilevare che una produzione letteraria di rabbini italiani, certamente, corre soltanto come un filo rosso, magari frammentario e in controluce, lungo l’arco di quei secoli durante i quali invece continuò l’ampio impegno rabbinico nel campo della produzione liturgica, in quello della normativa, con la cosiddetta ‘letteratura dei responsa’ o nel settore della mistica, orientata soprattutto alla ricerca della data dell’evento messianico; e tuttavia bisogna riconoscere che, pur rappresentando questi settori un fenomeno quantitativamente dominante, in linea con la più pura tradizione di studio, sul piano qualitativo non sembra, almeno per quanto sostiene un diffuso giudizio, aver visto sorgere opere di alta rilevanza.
Tra responsa e Qabbalah
Nel complesso degli studi biblici e di halakhah, già fortemente contratti dopo la distruzione del Talmud e le molte conseguenti interdizioni, la pubblicazione – presso Bragadin a Venezia – nell’ultimo quarto del XVI secolo, dello Shulchan ʽarukh di Josef Caro sembra aver segnato un punto d’arrivo oltre il quale non era possibile andare. Si direbbe quasi si sia verificato anche in campo ebraico quanto avveniva in quel secolo nella cultura rinascimentale, soprattutto artistica. La visione naturalistica, o ciclica, dell’evoluzione dell’arte, secondo la quale l’arte stessa e la cultura hanno uno sviluppo progressivo, necessariamente destinato a raggiungere un punto di perfezione oltre il quale non è possibile andare, se non muovendosi all’interno dei parametri di quel modello, sembra, infatti, indirettamente, aver influito anche sugli studi normativi: l’opera del Caro ha segnato il punto di riferimento fondamentale al quale era necessario rifarsi. Tutta la letteratura, ampia e consistente, dei responsa – siano essi pesaqim, concise decisioni normative, siano vere e proprie teshuvoth, corredate da precisi supporti talmudici -, spesso legati a singole realtà contingenti, presenta, per la maggior parte, un vasto interesse per la conoscenza della vita sociale delle varie comunità, ma non offre che raramente testi degni di confrontarsi, per qualità e valore, con l’autorevolezza del modello[26]. I responsi di un Mosheh Provenzali, mantovano, sulla liceità o meno dei ‘crinali’ a mo’ di parrucca per le donne, o quelli di un Simone Luzzatto sulla possibilità dell’uso della gondola di sabato a Venezia, o del più famoso collega Leon Modena, se di sabato un non ebreo può capovolgere una clessidra in sinagoga per indicare il tempo al predicatore, per far solo degli esempi estremi[27], sono certamente interessanti per conoscere usi e costumi della singole qehilloth, ma non sempre assurgono a prospettive di più ampio respiro. Occorre attendere l’ultimo secolo di vita dei ghetti per avere un’opera quale il Pachad Jitzchaq di Isacco Lampronti, ferrarese, la vasta enciclopedia talmudica che raccoglie anche molti responsi di rabbini italiani, per avere un testo di elevata importanza, anche se mai ritenuto all’altezza del valore autoritativo riconosciuto allo Shulchan ʽarukh[28].
Del pari, lo sviluppo degli studi qabbalistici in Italia – nonostante l’edizione mantovana dei Tiqqune ha Zohar (1557) – fortemente condizionati dalle successive avventure dei vari Re’ubenì o Molkho, nel Cinquecento, e, soprattutto, da quella seicentesca di Shabbataj Tzevi, sembrano orientati, prevalentemente (tranne forse l’eccentrica posizione di Elijjah da Genazzano nella sua ‘Iggereth chamudoth – Lettera preziosa)[29], in direzione messianica, lungo un percorso, peraltro, ricco di contrasti e di opposizioni. Da un lato, i continui tentativi di individuare la data imminente della venuta del messia: dalle opere di Don Jitzchaq Abrabanel, a cominciare dal Maʽjene ha jeshuʽah (Fonte di salvezza), che, dopo la tragedia della cacciata dalla penisola iberica, cerca, avvalendosi di calcoli suggeriti dal Talmud, di indicare nel 1503 la fatidica data[30]; al Migdal Dawid, di Mordekhaj Dato, che, svanita la nuova ipotesi del 1530, proponeva l’evento nel 1575[31], proprio negli anni in cui ‘Azarjah da Fano cominciava la sua predicazione qabbalistica nella Scola Italiana del ghetto di Venezia, attraendo l’attenzione anche dei rigidi ‘talmudisti’ della vicina Scola Tedesca e dei rabbini levantini del Ghetto Vecchio[32]; fino agli estremi tentativi di Jitzchaq Cantarini, rabbino a Padova, che, attraverso calcoli sofisticati, indicava, nel suo ʽEth qetz (Il tempo del termine), il 1740 come sicura data dell’evento tanto atteso[33]. Dall’altro, le obiezioni ora contro la qabbalah stessa, espresse più volte dal rabbinato veneziano, e in particolare dai cosiddetti ‘razionalisti’, quali Leon Modena e, meno apertamente, Simone Luzzatto; ora, contro i falsi interpreti della dottrina mistica, quali appunto Shabbataj Tzevi, come nelle pungenti satire della raccolta Tzevi muddach (Il cervo respinto) dei fratelli Frances[34], o contro i cattivi studiosi della stessa, come nella Geʽarath chakham (Il rimprovero del saggio) dello stesso Jaʽaqov Frances ; o, ancora, per restare a qualche esempio, contro coloro che si accostano a uno studio tanto impegnativo senza la necessaria preparazione, come avviene nel ʽEtz ha daʽath (L’albero della saggezza) del veneziano Samson Morpurgo[35]. Fa eccezione, sicuramente, in questo contesto, la poesia liturgica di Mosheh Zacuto, rabbino a Venezia e a Mantova, fortemente influenzata dalla qabbalah luriana: il motivo dominante dello tzaddiq, il ‘giusto’, fondamento del mondo, che con la sua preghiera può contribuire al tiqqun, alla restaurazione del bene della creazione originaria; o l’immagine della luna, simbolo della Shekhinah, la presenza di D-o in esilio, l’astro che la venuta del messia potrà riportare a luce piena, sono certo tra i temi di più alta ispirazione della lirica religiosa ebraica dell’età barocca[36]. E, pur tuttavia, bisogna ammettere che fu soltanto alla fine del nostro periodo, in sorprendente coincidenza con quanto avveniva nel settore halakhico, che la singolare esperienza di Mosheh Ch. Luzzatto, tradotta nella sua trilogia teatrale e nella sua opera morale, sembrò restituire alla mistica ebraica uno spessore di singolare rilievo.
L’impegno letterario. Il ‘caso’ Venezia
Di fronte a questi profili non lineari, perciò, il pur quantitativamente limitato impegno in campo letterario di alcuni rabbini italiani finisce per assumere un valore importante e del tutto particolare, anche perché spesso sostenuto dalla volontà di competere con la cultura dominante, di entrare con dignità nella ‘repubblica delle lettere’, quasi a compenso dello stato di emarginazione sofferto.
Il momento forse più significativo di tale impegno è rappresentato dalla Venezia ebraica del primo Seicento. La chiusura entro le mura della segregazione, avvenuta nel 1516, e i severi controlli della Serenissima Repubblica infransero, all’inizio, senza dubbio, la trama di rapporti che anche nell’area veneta si erano in precedenza sviluppati e produssero un marcato senso di indifferenza nei confronti del mondo culturale esterno. I primi lunghi, difficili decenni di assestamento nella nuova condizione di emarginazione orientarono ogni interesse culturale o verso gli studi talmudici e le dottrine mistiche o verso il mele’kheth qodesh, il ‘lavoro sacro’ nelle stamperie in ebraico che portarono Venezia a diventare la vera capitale europea in questo settore. Fra le poche aperture verso una produzione finora ritenuta estranea alla cultura ebraica (nella quale comunque rientrano i testi in jiddish di Elia Levita o le Oraciones in spagnolo di Don Sem tob Cavallero, edite a Venezia dal Bragadin nel 1552[37]) furono le opere del celebre medico Dawid de’ Pomis: dal Discorso intorno a l’humana miseria (Venezia, Ziletti, 1572), al più noto De medico hebraeo enarratio apologica (Venezia, Varisco, 1588), pur accanto al dizionario Tzemach Dawid (Il germoglio di Davide), pubblicato ancora a Venezia dal Di Gara nel 1587[38].
Superato, tuttavia, il lungo periodo delle tensioni e dei conflitti, esistenti anche all’interno delle varie “nationi” del ghetto, e raggiunto un più stabile equilibrio, dopo la condotta del 1589 e nei primi anni del XVII secolo, si maturò in alcuni spiriti più consapevoli la netta percezione che un isolamento culturale protratto troppo a lungo si sarebbe forse rivelato causa di un’emarginazione grave quanto la segregazione fisica e sociale. Una ristretta élite intellettuale, operante attorno al rabbino Leon Modena, seppe allora avvertire l’abbandono di ogni rapporto con esperienze esterne come l’avvio pericoloso verso momenti di crisi e di oscurantismo, fino a sviluppare, perciò, il bisogno di ristabilire un legame che era stato forzatamente interrotto, per reinserirsi nel contesto culturale del tempo, per divulgare magari la conoscenza dell’ebraismo stesso, onde respingere polemiche e pregiudizi, ma anche per dimostrare la validità di una cultura ebraica certo non inferiore a quella esterna[39]. E fu una disposizione percepibile da vari segnali e da scelte innovatrici, che sembrano trovare una meditata conferma nell’intuizione che animò il rabbino Simone Luzzatto, quasi a giustificare il vero significato dell’intera operazione. In chiusura, infatti, del suo Discorso apologetico sulla condizione degli ebrei veneziani, egli sosteneva che i propri correligionari “ritrovandosi nel stato presente di soggetione, non avendo altro di libero affatto che l’impegno della loro mente ne’ studij e dottrine, doverebbero in ciò applicarsi con ogni loro pensiero e industria”, ricordando, in polemica con la tendenza conservatrice dominante, che spesso “la virtù” e le “dottrine di alcuni pochi di loro”, il loro “apretiamento delle lettere”, la loro capacità di parlare “humanamente”, avevano saputo “acquistar credito” presso i Dominanti e preservarli contro “tante oppressioni”. Emerge, insomma, dalle sue parole la speranza che la disponibilità culturale verso l’esterno, sia pur da parte di un ristretto gruppo intellettuale, avrebbe potuto “preservare” i nuclei ebraici, esclusi dal consorzio sociale, dall’ “incorrere in alcuna notabile declinatione e più disprezzabile oppressione che per il passato giamai hanno patito”[40].
Certo, questa azione di apertura poté prestarsi allora, e talvolta si presta ancor oggi nella più recente storiografia, a valutazioni discordanti, lontane, in verità, dai veri intenti ispiratori; tanto che gli stessi Leon Modena e Simone Luzzatto, consapevoli che alcune loro proposte non omologhe all’ambiente ufficiale del ghetto avrebbero potuto destar sospetti e produrre interventi censori, furono spinti, a volte, a dissimulare ipotesi antitradizionali o posizioni scettiche dietro lo schermo di strutture protettive, come nel Qol sakhal (La voce dello stolto), da alcuni attribuito al primo, o nel Socrate, del secondo[41]. In effetti, tale impegno, nella sua autentica sostanza, non ebbe affatto il sapore di una tendenza assimilatrice, come appare ad alcuni, né fu espressione di una generazione attardata, come sostengono altri, nostalgicamente ancorata a posizioni rinascimentali[42]; al contrario, le scelte operate dalla cerchia di Leon Modena vogliono rispondere al tentativo, coraggioso, di sottrarre, in qualche modo, a una condizione, in prospettiva, paralizzante chi era già da un secolo discriminato e segregato nel ghetto; di ricercare, in un rapporto aperto e motivato, un’area di libertà e di dignità, dove poter esibire una cultura, anche classica e scientifica, capace di attestare una qualità intellettuale non inferiore a quella di studiosi e di letterati cristiani. Il conseguente processo di autodefinizione culturale da parte ebraica, il rinnovato prestigio ottenuto di fronte allo spazio della cultura dominante, la possibilità di rivolgersi, attraverso l’uso dell’italiano, a un pubblico diverso da quello dei propri correligionari, avrebbero potuto consentire, in qualche modo, anche di intervenire sulla realtà contemporanea, con gli strumenti stessi che la cultura esterna poteva offrire. Basterebbe leggere i versi che lo stesso Modena scriveva, con chiari intenti allusivi allo status sofferto nel ghetto, nella sua tragedia Ester (1619), per invitare alla tolleranza, alla fraternità universale, ma anche all’uguaglianza tra le genti: affidati, con acuta strategia, a due consiglieri del re Assuero, il potere, vi si potrà cogliere, forse, uno dei valori più veri dell’intera azione intrapresa dal piccolo gruppo degli intellettuali veneziani:
Diversità di legge non ne dona
Autorità che lecito ne sia
Però d’uccider quel che non ha errato.
E dover, e grandezza è di quel stato
Ch’amministra giustitia, indifferente
A’ suoi e a quei che son di fe’ diversa […]
Sia quanto vil una nation si voglia,
Sia quanto bassa, apporta al Re grandezza,
Magnificenza; è gran decor tenerla
Ne le cittadi sue, che varie genti,
Popoli varii e varie lingue havesse
Per suoi vassalli, e beneficio e honore,
E tanto grande più, quanto più sono.
Si trovarono mai forse gli Hebrei
In lor captivitadi e soggettioni
Seditiosi, e traditor, rubelli,
C’habbiano fatto Capo, e sollevati
Si sian contro il lor Prencipe o Signore?[43]
Nel contesto, tuttavia, di questa operazione era inevitabile l’assunzione preventiva anche di una posizione autonoma all’interno delle tendenze stilistiche e poetiche del tempo. Non si trattava, ovviamente, di una novità, perché interventi di poetica, capaci di fondere esperienze provenienti dalla poesia ebraica spagnola dell’età medievale e dalla tradizione biblica con le proposte della poetica loro contemporanea erano già stati formulati, sia pur in modo frammentario, ad esempio, da ʽImmanu’el Romano o da Mosheh da Rieti, così come fin dal Kuzari ci si era posto il problema della natura della poesia della Bibbia e autori come Messer Leon o ‘Azarjah de Rossi, fino a Jehudah Moscato, nel suo Nefutzoth Jehudah (I dispersi di Giuda), pubblicato a Venezia dal Di Gara nel 1589, avevano affrontato la questione della struttura quantitativa o ‘sillabica’ della metrica biblica, della qualità dell’ispirazione poetica, della dimensione allegorica o meno del testo sacro.[44]
Ora, tuttavia, l’impegno diviene più meditato e mirato, tale da avviare una tendenza che si sarebbe continuata nel tempo con altri rabbini italiani.
“Il mio signor padre di b. m. mi mandò nell’ Ijar 5341 (1581) a Padova in casa del signor rabbino Shemu’el Archivolti di b.m. […] Da lui appresi l’arte della poesia e a scrivere lettere”[45]. Nella sua autobiografia Leon Modena riconosceva, con queste parole, in Shemu’el Archivolti non solo il suo maestro di Torah, ma anche colui che lo aveva iniziato ai segreti della poesia. In effetti, il rabbino di Padova lasciò nella sezione terminale della sua grammatica ʽArugath ha bosem (L’aiuola del profumo), edita a Venezia dal Di Gara agli inizi del Seicento (1602), un vero e proprio piccolo trattato di poetica. Non vi affronta solo il problema della genesi dell’ispirazione poetica, soprattutto nel testo biblico, ma entra anche, unico forse, in precisi dettagli tecnici, che riguardano l’accento, il valore dell’elocutio, la metrica, fino a elencare criticamente i quattro livelli dell’espressione poetica: il grammaticale, il retorico, l’enigmatico e quello metrico che, nella sua varietà, tutti li riassume. Ne consegue un’analisi dell’opzione quantitativa, per riconoscere, al fine, nel sonetto, introdotto nella poesia ebraica da ‘Immanu’el Romano, la struttura strofica ottimale, il Shir zahav, il canto dorato (laddove zahav numera 14, come i versi del sonetto stesso!), e dar credito alle più nuove proposte della poetica barocca o alle più ricercate scelte metaforiche, anticipando i tratti della poesia enigmatica (chidah), la fusione tra testo poetico e immagine simbolica, più tardi sviluppata soprattutto da Mosheh Zacuto verso la metà del Seicento[46].
Avviato da tale maestro, Leon Modena si dedicò, in realtà, alle lettere italiane fin dagli anni giovanili, con versi che appaiono piuttosto vicini ai sofisticati equilibrismi del manierismo più eccentrico che alla vera poesia. Il gusto per la ricercatezza linguistica e retorica, al limite, talora, dell’esasperazione funambolica, si traduce, fin dalle prime prove, nel gioco costante delle paronomasie, troppo esibite, degli effetti allitteranti, delle consonanze multiple, tali da sfiorare, a volte, risvolti enigmatici ed ermetici:
Spirto ch’ha porto e sparto un part’esperto,
Che più vago vagar non veggo al mondo,
Ch’estolle un stuol a stil così giocondo,
Ch’apporta ogni parte a port’erto…
scrive il giovane poeta in lode de I Trionfi di Angelo Alatini – di cui nel 1611 curerà l’edizione veneziana appresso gli Heredi del Salicato[47]– ove la tensione di chi si vuol presentare come un equilibrista della parola appare già fin troppo evidente. Anche se il punto estremo di un sofisticato esercizio linguistico, giocato però sull’eccezionale padronanza di due lingue tra loro lontane, quali l’italiano e l’ebraico, è toccato quando Leone si misura in una sorta di elegia, scritta in morte del suo maestro Mosheh della Rocca, nella quale il testo ebraico, se ridotto a livello di puro significante, rende, in una differente scansione dei lessemi, un significato italiano diverso, anche se afferente, comunque, all’area del compianto per la perdita di una guida morale e spirituale:
Chi na/ sce muor/ ohimè/ che pass/ o acer/bo
Col/ to v/ien l’uom/ così/ ordin’/ il/ cielo
Mosè/ morì/ Mosè/ già car/ de ver/bo
San/ to sia/ ogn’/uom/ con pur/ o/ ze/lo…[48]
Esisteva, certo, in Italia, una lunga tradizione di scrittura poetica bilingue, che alternava con abilità versi in ebraico e versi in italiano – basta pensare al famoso Magen nashim (Il difensore delle donne) di Leone de’ Sommi o alle poesie misogine di Shemu’el da Castiglione (1553)[49] – ma si trattava sempre di versi accostati, spesso rimanti, non di un’eccentrica sovrapposizione linguistica a doppio senso. L’esperimento continuò, con pari successo, anche quando Leone scrisse l’altra elegia bilingue in onore della nascita dell’erede di Francia: Alle feste, anzi a’ sacri anch’io presente[50]. Esibizioni narcisistiche, pezzi di bravura, non vera poesia. Il suo amore per la lirica durò, comunque, lungo tutto l’arco della sua vita. “Mi son reso difficile – scriveva ancora nel 1639, in una lettera al vescovo di Lodéve -, perché la vecchiaia con il carico d’infinite tribolationi sempre m’hanno disseccato il verseggiare e reso derelitto dalle muse”[51]. E tuttavia, nella maturità, nei molti sonetti e liriche raccolti nel suo Diva’n[52], e nella tragedia Ester, egli passò a forme più moderate: non formulò una vera e propria dichiarazione di poetica, ma interpretò spesso i molteplici interessi letterari esistenti nel ristretto ambiente culturale in cui operava l’eclettica élite intellettuale veneziana, che in lui riconosceva la sua guida e che nel cosiddetto “salotto” della poetessa Sara Copio Sullam aveva il suo punto d’incontro con poeti e letterati.
Avendomi V. S. fatto degno dell’honesta e gentil sua conversatione […] siamo più volte caduti in ragionamento del rarissimo Poema della Regina Ester dell’illustre Sig. Ansaldo Cebà Genovese, al quale ho sentito esser V. S. affettionata, né vedersi mai satia di […] lodarlo, il che da me vien tuttavia secondato ed affermato, benché né i suoi giudicij habbiano bisogno di approbatione, né io sordo possa dar conto delle armoniche consonanze…
scrive il dotto rabbino nella dedica della propria tragedia alla poetessa[53], offrendo così un’immagine concreta dell’atmosfera che poteva regnare nell’accogliente “accademia” del ghetto. E più tardi, alla pubblicazione del dramma pastorale del proprio scolaro preferito Benedetto Luzzatto, saluta con gioia l’evento, con versi che rinviano immediatamente a un ambiente colto, raffinato, aperto alla sperimentazione dei generi letterari allora di moda:
Ora che d’Elicona a l’ampio rio
ti scorgo passeggiar sopra le sponde
e trarne stil di voci sì feconde
non è chi n’habbia il gaudio che n’ho io[54].
Scambi culturali, insomma, con letterati di chiara fama, apprezzamento per le opere poetiche di maggior successo, analisi delle novità letterarie, in un secolo alla continua ricerca della ‘meraviglia’: tutti interessi atti, appunto, a creare un’area alternativa alla temperie inquieta del quartiere della reclusione, turbato, spesso, anche da forti contrasti interni.
Accanto all’impegno a livello di discussione critica o teorica, tuttavia, si affianca quello orientato ai fini di una scrittura che, con un preciso intento di mediazione, sapesse affrontare temi biblici o problematiche religiose, misurandosi con le più aggiornate proposte della poetica contemporanea. Così, quando egli accetta l’incarico di riscrivere la tragedia Ester di Salomon Usque e Lazaro Levi[55], avverte, nella dedica stessa, non solo la necessità di considerare la “gravità” e le “sentenze” che le “cose heroiche” e “sacre” richiedono, ma volge la sua attenzione anche al gusto per “le inventioni dilettevoli, i concetti in copia […] l’incatenatura con ordine, la spiegatura facile, i versi numerosi, le comparationi proprie, le metafore e il parlar figurato[56]”. Si tratta, in realtà, di dichiarazioni di poetica che se, da un lato, colgono gli aspetti positivi della nuova scrittura barocca, dall’altro, ne evidenziano, però, anche, in modo esplicito, gli eccessi, privilegiando invece scelte orientate sempre sulla chiarezza, la semplicità e l’equilibrio del dettato. Una sorta di ‘barocco moderato’. Infatti, nel prologo della tragedia stessa, il rabbino sembra volersi giustificare se, al confronto con “il soave plettro” dei poemi eroici, egli ha seguito una “maniera abietta […] ch’al secol d’oggi a cigno buon disdice”; e più tardi, nella presentazione della sua Historia de riti hebraici, la sua presa di posizione si fa più chiara e precisa:
Che quanto poi all’haver io qui mancato di quell’ornato e vezzoso dire, che tanto piace e dilett’oggi al mondo, ove si procura d’accomodar i concetti alle parole e non le parole a’ concetti, so che come giuditiosi conoscerete che non è stato per esserne totalmente insciente, ma che la materia d’un tal ragguaglio non tollerava altra forma[57].
E sono parole che, nello stesso anno, Simone Luzzatto replicava nel proemio del suo Discorso circa il stato de gl’hebrei…“Alli amatori della verità”:
Il presente Discorso alla luce del Mondo ho avventurato, ardisco negletto, e inadobbato di ornata dicitura […] essendo conscio quanto è gradita la semplicità alli culturi della verità alla quale anco l’istessa nudità arreca sommo diletto e piacere[58].
Sono il riscontro di un orientamento comune, abbastanza omogeneo, espresso dalle maggiori personalità che operavano nel ghetto.
La scelta teatrale
Con questi presupposti e in tale contesto, ebbe modo di svilupparsi una serie di generi letterari e di proposte teoriche che, in qualche modo, segnarono le linee lungo le quali si sarebbe mosso l’impegno letterario, in italiano e in ebraico, di altri rabbini, soprattutto dell’Italia settentrionale, e dell’area veneto-lombarda in particolare (accanto a una produzione più ‘tradizionale’, come nel caso di Mosheh Zacuto o di Jehoshuaʽ Josef Levi[59]), fino alla sintesi dell’opera di Mosheh Ch. Luzzatto: il teatro, con la preferenza per il dramma pastorale, le importanti discussioni teoriche sulla poesia, l’autobiografia.
Difficilmente, infatti, avrebbero potuto avere un seguito i saggi di Simone Luzzatto: il suo Discorso, ricco di citazioni erudite, riflesso di una cultura classica talora attentamente esibita, era certamente aperto su una prospettiva ‘politica’, orientata a rilevare il ruolo positivo, all’interno di una società, di una minoranza, e, in particolare, di quella ebraica che, pur dispersa, mantiene “l’identità della sua essentialità” (c.89r), e tuttavia era poi troppo direttamente legato a una situazione contingente, centrato sui rapporti tra l’economia veneziana e il mondo del ghetto, da potersi prestare a possibili imitazioni, pur avendo anche il sapore di un’indiretta apologia dell’ebraismo. Nelle diciotto “considerationi”, infatti, esso parla dei costumi degli ebrei nella diaspora, della loro psicologia, delle loro attitudini e dei loro studi, in generale, ma l’obiettivo primo resta sempre legato al quartiere veneziano della segregazione, al beneficio che la presenza ebraica apporta all’economia dello Stato lagunare e alla qualità dei rapporti tra la minoranza e la Serenissima[60]. Il suo Socrate… overo dell’humano sapere… esercitio seriogiocoso[61], tutto giocato sul difficile problema del rapporto tra ragione e rivelazione, era troppo chiaramente espressione di posizioni personali, da poter avere un qualche seguito, comunque lo si voglia interpretare: se dimostrazione di un’ampia cultura in ogni campo del sapere, a valorizzare gli ebrei anche nel settore intellettuale, con chiaro intento apologetico, a complemento, quasi, del discorso economico; oppure riflesso delle inquietudini ideologiche e dello scetticismo dell’ “hebreo” Luzzatto, abilmente celati entro la dimensione della ‘dissimulazione onesta’, tipica della mentalità seicentesca.
Ben diversa, invece, la proposta per gli altri generi: essi potevano ben rispondere alle esigenze di partecipazione paritaria della cultura ebraica alla cultura esterna, alla dimostrazione di un sapere non inferiore a quello della società dominante. E prima di tutto il teatro, considerato il privilegio dato a tragedia, commedia e dramma pastorale dalla letteratura cinque-seicentesca. Benché i rabbini più conservatori continuassero ad appellarsi alle antiche proibizioni talmudiche, autori e attori ebrei operarono, fin dal XV secolo, presso le corti e le signorie, e, con una scelta ardita, Josef Sarfati aveva tradotto in ebraico La Celestina di Fernando de Rojas. Fino a che, proprio a Mantova, alla corte dei Gonzaga, Leone de’ Sommi non aprì definitivamente la strada a un teatro ebraico, attribuendo la paternità della scena drammatica proprio a Mosheh, producendo la prima commedia in ebraico, ma anche avviando altri generi, ai suoi tempi molto di moda, come il dramma pastorale, scrivendo, tra l’altro, l’ Irifile e la Drusilla[62]. L’ambiente veneziano, in stretto contatto con quello della corte di Mantova, sviluppò, sia pur con qualche ritardo nei confronti della produzione letteraria contemporanea, questo percorso, nella precisa volontà di ancorarsi alle mode dominanti.
Leon Modena cominciò con un atto di omaggio al suo maestro ferrarese Angelo Alatini, pubblicandone la favola pastorale I Trionfi, riadattandola in “buona forma”, ma, soprattutto, esaltandone il valore. Scritta attorno al 1575, qualche anno dopo l’Aminta del Tasso e prima del Pastor fido del Guarini, i due più noti modelli del genere pastorale, Leone afferma, nella dedica ai “benigni lettori”, che il testo apparve “quando quegli altri poteano apprender da lui, ne lui havea da imitar quegl’altri”[63], riconfermando un senso di rivalità nei confronti della produzione esterna che, forse, è tra i motivi che lo portarono a comporre, poi, la sua Rachele historia pastorale, purtroppo andata perduta, per importare, entro una dimensione ebraica, un genere di successo. Lo seguì, su questa strada, il suo allievo preferito Benedetto Luzzatto – che fu poi rabbino a Padova -, scrivendo l’ Amor possente, un fragile dramma ove agiscono ninfe e pastori, iniziato come pura imitazione di strutture teatrali diffuse, ma la cui composizione è divenuta poi motivo di consolazione, di fronte all’infuriare della peste degli anni 1630-31 e all’immatura scomparsa della donna amata. La favola ripropone la tradizionale vicenda di amori contrastati, ma poi giunti a lieto fine, tipica del dramma pastorale: tra tutti domina, però, l’amore tra la ninfa Lilla, votata a Diana, e il pastore Niso, una storia modellata sull’archetipo tassesco degli amori tra Silvia e Aminta, fino al tentato suicidio di Niso, che convince la riottosa ninfa a far trionfare l’Amor possente. Per la freschezza e la semplicità del testo, Rabbi Leon si rallegrò dell’opera del suo discepolo e in un sonetto, riportato nell’edizione a stampa, ne esalta le qualità: “BENEDETTO, sii tu, ch’a le LUCI ATTO / Ne scopri quanto fia l’AMOR POSSENTE / In nota in detto, in verso, in scena, in atto”[64].
La tendenza all’evasione nella pace dell’antico mondo pastorale, tuttavia, rimase una costante, sia pur sotterranea, che in alcuni momenti sfiorò anche l’opera di altri poeti, come Zacuto, ma riaffiorò decisamente nella scelta teatrale di Mosheh Ch. Luzzatto, a partire dal Sansone, attraverso la Torre possente, fino a Ai giusti la lode. Subentrò, in questo caso, anche l’influsso dell’Arcadia, allora dominante in Italia, e delle prime manifestazioni preromantiche, ma resta fondamentale, a più di un secolo di distanza, l’imitazione di un modello ormai tramontato da tempo, quale Il pastor fido del Guarini, risalente al 1590. Fa dire Luzzatto nella sua ultima opera, La jesharim tehillah (Ai giusti la lode) alla protagonista Tehillah:
O fresca ombra e dolce, o ruscelli,
vi amo di più dell’oro puro.
O monti tranquilli, o salde rocce,
solitari, quieti e calmi,
quanto vi amo. Come mi rende felice
il più piccolo cespuglio, l’erba umile.
Invece la città con i suoi rumori mi opprime[65].
e più tardi a Josher, il protagonista, con parole simili:
Oh! Se io fossi un uccello!
Volerei di ramo in ramo nella foresta,
riposerei tranquillo sui monti eterni,
rinfrancando l’anima all’ombra solitaria,
invece di morire tra pianti e lamenti
nella gioia rumorosa della città […]
Oh! Il piccolo pastore con il suo gregge,
nessuno è più felice di lui […]
Beato lui! Come è felice, com’è dolce
la sua vita, e come riposante…[66]
Vi si può leggere già la presenza di temi che, dopo pochi anni, avrebbero sostenuto l’impegno polemico delle prime odi di Giuseppe Parini. L’antitesi città/campagna, nell’implicita riproposta del beatum rus, alla ricerca di una dimensione ‘altra’, lontana dalle inquietudini cittadine; l’immagine della natura, già preromantica, come ‘madre’, capace di accogliere e di placare i sentimenti turbati dell’anima, sono tradotte attraverso una scelta aggettivale tutta versata sull’area semantica della serenità e della felicità: tranquillo, calmo, solitario, quieto. E sono tutti motivi che non solo confermano il privilegio dato dalla cultura teatrale dei ghetti all’ambiente pastorale, ma anche dimostrano la costante apertura verso scelte contemporanee, filtrate attraverso una problematica tipicamente ebraica. Tant’è che nel caso del Migdal ʽoz (Torre possente) del 1734[67], la scelta del modello del Guarini, nell’intreccio, pur semplificato, e spesso nei singoli sintagmi, sembra rispondere, in realtà, alle esigenze di un’etica propriamente ebraica, quando al più noto invito del coro dell’Aminta tassesca: “S’ei piace, ei lice”, viene preferito il “Piaccia, se lice” del coro guariniano, che ne rovescia il senso, in conformità con l’austera età controriformistica[68].
Resta, in ogni caso, di difficile soluzione il problema della preferenza, anche se non esclusiva, data dalla produzione scenica al genere pastorale. L’idillico mondo della campagna, dei boschi e della natura, contrapposto alla città – nel caso specifico, al ghetto – poteva certo offrire uno spazio di evasione, di serenità, quasi una dimensione compensativa, in cui idealmente rifugiarsi, nell’illusione letteraria, per sfuggire alle angustie della segregazione o alle angosce dell’esistenza; per Mosheh Ch. Luzzatto il remoto paesaggio naturale poteva diventare il correlativo atemporale atto ad accogliere, sotto la veste allegorica, un messaggio universale; mentre l’opzione per un genere di moda poteva offrirsi quale area privilegiata per un confronto qualitativo con le più note esperienze contemporanee[69]. Del resto, già Leone de’ Sommi lo aveva giustificato, contro ogni risorgente pregiudizio di ordine religioso:
Si concede anco introdure in così fatti poemi alcune deità, il che si vieta nelle comedie: benché ne le tragedie, anco par che si ammetti (con l’essempio forse di Mosè il quale nella tragedia di Iobbe introduce la divinità parlare alcune volte) e questo sarà concesso in così fatti spettacoli pastorali, anco a’ nostri tempi, senza scandalo della religione, poiché non vi è più da temere che da così sciocche idolatrie l’uomo si lasci ingannare, sendo ormai certo tutto il mondo non vi esser altro che un solo D-o, degno di esser veramente adorato et riverito; et questo ho voluto toccare, a confusione (sic) di certi ipocratoni, che per far i santocchi, sogliono in così fatti spettacoli dannare l’introdurvi i culti di gentili, dicendo che sono di mal essempio[70].
Non meno convincenti appaiono le proposte di chi sostiene che la scelta di un mondo alternativo, di giustizia e di pace, la mitica età dell’oro, possa essere stata ispirata dalle persistenti attese messianiche, che in quello spazio avrebbero trovato una suggestiva anticipazione[71]. Comunque sia, è evidente che il genere pastorale ebbe ampio credito nella produzione letteraria espressa dal mondo del ghetto, più di ogni altra scelta possibile. Lo dimostra il fatto che altri generi, quali la tragedia, ebbero un seguito assai limitato, e l’unico vero esemplare tragico pervenutoci è, ancora una volta, il dramma di Leon Modena, anche in questo caso punto di riferimento ineludibile.
L’Ester, rifacimento dell’opera di Salomon Usque e dedicata alla poetessa Sara Copio Sullam[72], riprende la vicenda costantemente riproposta, in varia forma, in occasione della festa di Purim (si pensi solo a La istoria de Purim io ve racconto del rabbino Mordekhaj Dato[73]), ma ne propone una versione per molti aspetti inedita. Pur seguendo il testo biblico, ma con qualche deroga rispetto alle norme aristoteliche, il Modena innesta, sulle sequenze tradizionali, l’apporto di molte “glose de Rabini” e di molti midrashim, come nell’apparizione dell’ombra cupa di Amalech (sic!)[74]o nell’intervento dell’angelo che parla con Mordacheo (sic!)[75]. Si arricchisce, in tal modo, il dramma, centrato, in particolare, attorno alle figure principali, ognuna delle quali sembra identificare un preciso modello attanziale, coerente con le molte sententiae, opportunamente sottolineate nell’edizione a stampa. Mordekhaj è il tradizionale esempio dell’uomo umile e pio, vero ‘soggetto’ che compie l’azione salvatrice del proprio popolo contro l’’oppositore’ Haman, avvalendosi, come ‘aiutante’ della giovane E’ster, sempre sorretto dalla fede nell’intervento superiore di D-o, ma capace anche, novello Abramo, di rivolgersi al Signore per chiedere giustizia in nome di coloro che non hanno ceduto alle lusinghe del banchetto di Assuero:
Sono stati tra lor settanta almeno
Che non peccorno, dhe, per merto loro
Perdona al resto e vie più tosto i pochi,
E buoni mira, che non quei che sono
Peccatori infiniti, che pur sei
Tu quel pietoso D-o, che sol per dieci
Giusti, già liberar ti contentavi
La malvagia Sedom, putta sfacciata[76].
La dedica, tuttavia, a Sara Copio Sullam invita a spostare l’attenzione anche sulle tre figure femminili, che si contrappongono nel testo: Vastì, Zeres e Ester (sic!). Uno degli intenti impliciti sembra, infatti, esser quello di offrire alla poetessa del ghetto veneziano un’immagine della regina ‘Ester, per così dire, naturaliter hebraea, “serva fidele e santa”, una sorta di messaggio morale, inviato dal maestro alla propria scolara. L’obiettivo, probabile, era, insomma, quello di contrapporsi all’Ester naturaliter christiana del poema eroico di Ansaldo Cebà, che tanto aveva affascinato la Copio: “L’Estèr non è del buon Cebà cotesta, / Signora nò, non è, non v’ingannate” – afferma nel sonetto introduttivo, e aggiunge a mo’ di excusatio – “Scenico modo, e humil qui segue l’orme / Della Tragedia, ma in maniera abietta, / Ch’al secol d’hoggi, à Cigno buon disdice”[77]. In realtà, il testo è, in controluce, costruito sulla contrapposizione tra la figura ‘tragica’, inedita, della regina Vastì che, per non cedere alle imposizioni del re Assuero, giunge al suicidio, dopo aver deprecato la condizione femminile, con versi che sembrano ricordare una topica che da Lucrezio giunge fino alla Ginestra leopardiana:
Ben posso di Natura lamentarmi,
Agl’altri madre, a noi cruda matrigna,
Facendoci tal danno in farci donne[78];
e l’immagine negativa, a essa complementare, di Zeres, da un lato, ed Ester, dall’altro, che, invece, agendo con prudenza, assecondando la via indicata da Mordekhaj, alla fine, sembra riassumere in sé i tratti del modello della ‘donna di valore’, dell’ ‘esheth chajil, della più tipica tradizione ebraica, più volte riproposto, proprio nei primi anni del Seicento, da un saggio di Abraham Jagel[79] o dall’ashkenazita Mitzwath nashim, tradotto nella ‘volgar lingua’ da Jaʽaqov Halpron (1614):
… non t’havendo fin’hora
Lasciata pur veder da huomo alcuno,
Fa che la tua prudenza e ‘l tuo sapere
Come nel resto, si dimostri in questo,
Che stij costante nella santa legge,
E suoi comandamenti, si nel cibo,
Come nell’osservare dì festivi…[80].
All’intento moralistico, che può anche fungere da misurato richiamo alla propria dedicataria, forse coinvolta, con qualche rischio, nelle trame di proselitismo del Cebà[81], si unisce però anche la volontà di intervenire, sia pur con discrezione, attraverso la vicenda narrata, sulla realtà storico sociale del tempo, non solo invitando, direttamente, come s’è visto, attraverso le parole di due consiglieri di Assuero, la Repubblica Serenissima alla giustizia, con un intervento militante che, in qualche modo, sembra anticipare il Discorso di Simone Luzzatto, ma anche evitando, con abile strategia, di parlare della lotta degli ebrei contro i loro oppressori e dell’istituzione della festa di Purim, per non creare, in tempi tanto difficili, tensioni possibili con lo stesso stato veneziano. Un testo, dunque, anche per queste ragioni, datato, legato a precise situazioni storiche e, quindi, per questo, difficilmente imitabile.
Tra poetiche e poesia
L’esperimento tragico, in effetti, non ebbe un seguito – gli si può accostare solo, forse, il più tardo Sansone di Mosheh Ch. Luzzatto o, in qualche misura, il Tofteh ‘arukh (L’inferno preparato) di Mosheh Zacuto, anche se il dialogo tra il morto e il demone, che lo accoglie nell’aldilà e gli mostra le bolge dell’inferno, sembra più vicino all’antica struttura del ‘contrasto’ medievale, modulato, però, sotto l’evidente influsso della visione dantesca e della cupa, moralistica atmosfera dell’età della controriforma[82]-, così come non lo ebbe immediatamente, tra i rabbini italiani, l’uso del volgare; lo ebbero, invece, in un certo senso, gli interessi dimostrati dallo stesso Leon Modena nei confronti delle proposte di poetica contenute nelle pagine introduttive della tragedia. Si trattò, in particolare, di misurarsi, ancora una volta, con la contemporaneità, ma anche, nel contempo, di riconfermare il valore della poesia ebraica. Ci si rese conto che il confronto, allora, non poteva più avvenire usando il volgare, ma che, al contrario, era necessario ritornare alla lingua ebraica, mettendone in evidenza la capacità di esprimere i più alti valori che la lirica può affrontare. Del resto già Leone de’ Sommi, nel prologo della sua Commedia del matrimonio, aveva fatto riconoscere alla Saggezza le qualità della ‘lingua santa’, capace di affrontare problemi etici ed estetici[83]. Certo, il messaggio tornava a essere rivolto a un pubblico ristretto, all’interno delle singole comunità, senza la possibilità di una più ampia comunicazione; ma era una scelta, anche questa, dettata dalla volontà di riscatto, di riconferma di un’identità autonoma, dal desiderio di riportare la poesia ebraica fuori dallo stato di decadenza in cui versava. Un primo, fermo e deciso richiamo, in questo senso, viene, già a metà Seicento, da parte di Jehudah del Bene, nel suo Kise’oth le Veth Dawid (Seggi della Casa di Davide), con l’intento specifico di “portare una medicina” atta a sanare “la ferita recente inferta alla lingua ebraica (II, IX, c. 21v) […] di togliere la vergogna che i nostri vicini ci hanno gettato addosso” (c. 24 v), di dimostrare le potenzialità retoriche e stilistiche della lingua dei padri:
Ho sentito e ho trovato scritto da altri che la nostra santa lingua non ha una ricchezza linguistica sufficiente […] altri vanno dicendo che la dolcezza dell’italiano non è paragonabile a quella dell’ebraico, sia per la chiarezza e la purezza delle espressioni, sia per le possibilità retoriche racchiuse nella frase […] per questo ho aperto la bocca e scritto a lungo (c.24 v)[84].
In realtà, la sezione del suo piccolo saggio dedicata al problema risulta come una vera dichiarazione di poetica, nel tentativo di aderire alle più avanzate proposte dell’età barocca, ma anche di fornire un esempio di come dovrebbe sanarsi la lingua ebraica, adottando uno stile assai raffinato, ricco di accorgimenti retorici, di paronomasie, di giochi allitteranti, di continui richiami intertestuali al Talmud e allo Zohar: una vera ginnastica mentale, che impegna il lettore, ma che avvicina la prosa e la poesia alle ‘acutezze’ e alle metafore della cultura letteraria seicentesca, con qualche eccesso, ma anche, talora, con l’invito a una controllata moderazione[85].
Gli faceva eco, circa trent’anni dopo, ‘Immanu’el Frances, con il fratello Jaʽaqov uno dei maggiori poeti del XVII secolo in Italia:
La poesia è coperta di ruggine,
nessuno la lima, la purifica;
che vergogna, che metro spaventoso!
Che rime contrarie alle regole!
Chi sa ancora distinguere un verso nobile,
riconoscere quello che è perfetto?[86]
scriveva, con non celata presunzione, e invitava, proprio per questo, al ritorno alla poesia in ebraico e alle sue tradizioni, pur senza staccarsi dalle mode del tempo:
Perché la poesia di Marino e di Virgilio?
Non ti basta la poesia di Levi e di Giuda?
[…]
Un poema straniero vale forse un canto ebraico?
Shlomit ha forse i meriti d’Elisheva?
Perché, amico ti lasci sedurre dalla straniera,
perché desideri il suo seno?
Svegliati, sii forte, sii uomo,
se lei è Dalila, tu non essere Sansone[87].
L’abile gioco delle contrapposizioni tra i modelli della poesia contemporanea e antica (Marino / Virgilio) e gli emblemi simbolo della tradizione ebraica (Levi / Giuda), tra una produzione estranea e una originaria (Shlomit – Dalila / Elisheva) non poteva però essere sufficiente; esso comportava, di necessità, anche una precisa definizione di poetica. Sulla strada, perciò, già aperta dal de’ Rossi, da Messer Leon e, più di recente, dall’Archivolti e da del Bene, Frances affronta nel suo Metheq sefathajim (La dolcezza delle labbra)[88]il problema dell’origine e della natura della poesia ebraica, mentre cerca di fissarne le caratteristiche per il presente. Convinto, ovviamente, che la vera poesia risalga al testo biblico, ritiene, in contrasto con quanto sostenuto dalla tradizione midrashica, che il primo poeta non sia stato Adamo, che per ringraziare il Signore del dono del Sabato avrebbe composto il salmo 92, ma sia stato invece Lemekh, quando cercò di convincere le sue mogli a giacere con lui. Wajjo’mer Lemekh lenashaw Adah weTzillah shema an qoli neshe Lemekh (Disse Lemekh alle sue mogli Adà e Tzillà ascoltate la mia voce, mogli di Lemekh – Gen. IV, 23): la ripetizione del proprio nome, tratto tipico dei poeti che spesso parlano di se stessi in terza persona, sarebbe, secondo Frances, l’elemento connotante la prima vera poesia[89]. Qualche tempo prima, il noto rabbino di Venezia Azarjah Figo, in un capitolo (29) contenuto nel suo ʽ Binah le ittim ʽ (Saggezza per i tempi)[90], aveva sostenuto una posizione più coerente con la tradizione. Confrontando la proposta midrashica riguardante il salmo 92 e la Cantica del mare, riteneva i due testi, in qualche modo, complementari, entrambi di ispirazione divina, anche se il secondo, in quanto rivelatore non solo della grazia, ma anche della giustizia di D-o, può essere assunto come la genesi dell’atto poetico. Di fronte a questa ipotesi, che attribuiva l’origine di ogni ispirazione lirica a un ambito teologico-religioso, la posizione di Frances segna allora una svolta importante, perché non solo riporta la prassi poetica entro una prospettiva più ‘laica’ e terrena, ma anche assegna alla poesia stessa un intento conativo, un profilo di persuasione tutta umana, sottraendola, in tal modo, a ogni residuo di ispirazione profetica o celeste. Ne consegue la volontà di ancorare anche la poesia ebraica alle istanze della contemporanea poetica barocca, adottandone le principali caratteristiche, quali il gusto per la metafora, la ricerca dell’ ‘acutezza’ (charifuth), le scelte e gli accostamenti semantici atti a creare la ‘meraviglia’, senza tuttavia dimenticare la grande tradizione della lirica spagnola medievale e i più recenti apporti italiani. ‘Immanu’el, più ancora del fratello Ja‘aqov, sembra attuare spesso questi propositi, riuscendo, in tal modo, ad accostare i suoi versi ai più comuni canoni del dominante marinismo:
Amici, guardate i suoi capelli splendenti!
Che agguato per l’amoroso!
Per forza casca nel tranello;
catturato, non scappa più.
Seni nivei eppur ardenti,
un fuoco in mezzo alla neve.
Si è mai vista la brina infiammata?
Il ghiaccio in mezzo ai tizzoni?
E nei suoi occhi quali frecce.
Con forte piglio l’arco tende Amor
per colpire i cuori a fondo.
Perciò, amici, avvicinate con prudenza
i seni, i capelli e gli occhi,
perché son frecce, fuoco e imboscata[91].
Il sonetto presenta una struttura attentamente articolata: ogni strofa è dedicata a un aspetto della figura femminile (capelli, seni, occhi), mentre la terzina conclusiva, a mo’ di quid luminis finale, sintetizza, nel duplice tricolon (seni, capelli, occhi – frecce, fuoco, imboscata), impreziosito dalla sintassi chiastica, l’intero messaggio rivolto al ristretto gruppo dei dodim, gli amici. Le affinità con i sonetti degli Amori del Marino, nella terza sezione della Lira, sono evidenti, in un processo di imitazione – emulazione che è tipico di tanta produzione barocca dei poeti ebrei italiani. L’accento erotico, però, è rimarcato soprattutto nella seconda quartina: l’antitesi iniziale (freddo / caldo) è sostenuta dall’ardita metafora e ripresa ed enfatizzata nella soluzione chiastica del secondo verso. La duplicatio del terzo emistichio (brina infiammata), riproposta, in una continua variatio, anche nel quarto verso (freddo / caldo) rivela lo sforzo di adesione alle più sofisticate ricerche barocche, nell’intento di ottenere appunto la ‘meraviglia’, che è il fine ultimo di tanta rimeria. Si tratta, in sostanza, di una risposta alle richieste dello stesso del Bene, ma anche la realizzazione dell’ipotesi dello stesso ‘Immanu’el, per il quale la poesia nasce sì da un’innata predisposizione, ma si attua solo nella ‘messa in forma’, nel verso, attraverso le tecniche più raffinate.
Era necessario, tuttavia, attendere il primo Settecento per leggere proposte più nuove e originali, perché una vera sintesi di tutti i problemi, in una prospettiva di vera e propria teoria della letteratura, viene solo dal Leshon limmudim (Lingua coltivata) di Mosheh Ch. Luzzatto, che, pur opera giovanile, ricca di ripensamenti e di contraddizioni, è tuttavia notevole per alcune intuizioni, anticipatrici di più moderne proposte[92]. Certamente influenzato dalle contemporanee posizioni di un Gravina o del Muratori, soprattutto per quanto riguarda la questione della genesi della poesia; convinto del valore della lingua ebraica come sistema che contiene in sé gli elementi primari della poesia stessa, il Ramchal ridiscute l’annoso problema della natura prosodica del testo biblico, del cosiddetto ‘sillabismo palese’, ritenendo la metrica quantitativa ormai superata e limitante, mentre affronta, soprattutto, sotto le suggestioni della poetica arcade e neoclassica, le esigenze di armonia e di compostezza del testo poetico. Due, tuttavia, sembrano, nel contesto dei diciotto capitoli del breve trattato, gli spunti più originali. Egli osserva che la vera caratteristica dell’atto poetico, nel momento in cui l’intuizione o l’ispirazione prende forma nel verso, consiste quasi sempre nella ripresa di materiali preesistenti, giacenti nella ‘memoria dei poeti’. L’imitazione, che risulta così componente importante di ogni atto creativo, si realizza però in un’operazione non servile, o passiva, ma in un’azione del tutto attiva, nella capacità di dire appunto “cose nuove” sulle esistenti, magari ricorrendo, come suggeriva anche il Gravina, al moderato uso dell’argutezza e della metafora. La lingua ebraica, con i suoi “ordinamenti” di retorica e di stile, la cui origine divina anche il Muratori aveva apprezzato, si presta a tal fine in modo particolare. Vi è, in nuce, com’è evidente, un’anticipazione del più moderno concetto di ‘intertestualità’, che, nella sua vera essenza, mira a garantire, da un lato, il costante rapporto con la tradizione, dall’altro, l’originalità individuale. Il Luzzatto dedica perciò, in particolare – ed è questo il secondo aspetto importante – una sezione del suo trattato al dramma, non molto diffuso nella produzione ebraica precedente, e ne traduce i dettami teorici scrivendo il suo primo testo teatrale, il Maʽaseh Shimshon (Le imprese di Sansone)[93]. La ripresa di un tema spesso ricorrente nelle varie manifestazioni di giochi e di spettacoli miranti a riproporre la “satira dell’ebreo”, consente, in questo caso, di offrire un intervento significativo capace di rovesciare il tradizionale fine denigratorio, presente in tante farse e giudiate, per inviare, invece, un messaggio nuovo, un vero e proprio exemplum etico, quasi a voler chiudere un lungo, inquietante percorso che ha coinvolto, in varia misura, molte comunità italiane nel corso dei secoli: non più l’uomo degradato e deriso, ma la condanna morale della passione che conduce alla perdizione anche l’eroe prescelto dalla volontà divina.
Le istanze dell’io
E tuttavia, nel vasto complesso delle esperienze letterarie sviluppatesi nell’età dei ghetti, all’interno e all’esterno dello spazio culturale ebraico, il fenomeno più nuovo, anche se molto circoscritto, anch’esso suggerito, o comunque influenzato, dalle proposte contemporanee, è rappresentato dall’istanza autobiografica, un genere fino a quel momento quasi estraneo alla tradizione ebraica. È pur vero che nelle loro opere sia ‘Immanu’el Romano che Mosheh da Rieti, Dawid de’ Pomis o il Re’ubenì, o Leone Ebreo nella sua celebre Elegia sopra il destino[94], parlano di se stessi (le notizie premesse da Barukh Forti al Ma jene ha jeshu’ah di Jitzchaq Abrabanel sono una sorta di biografia), ma si tratta solo, tranne rare eccezioni, di qualche spunto frammentario o di notizie a carattere diaristico, non di una completa ricostruzione–interpretazione retrospettiva dell’intera loro vita, così come, in parte, prevalentemente documentario, non sorretto da fini più ambiziosi, appare il Medabber tahpukhoth di Jitzchaq min ha Lewijjim, il nipote di Leon Modena[95]. Un approccio più concreto ai canonici requisiti del cosiddetto ‘patto autobiografico’ è presente in Abraham Jagel, nella sua Ge chizzajon (La valle della visione), risalente all’ultimo quarto del XVI secolo (1578?), gli anni durante i quali anche la letteratura italiana vedeva nascere, con Cellini o Cardano, i primi ‘racconti dell’io’[96]. Il testo, tuttavia, presenta una struttura complessa, nella quale confluiscono influssi diversi, che talora lasciano in secondo piano la storia individuale. All’origine della narrazione sta, infatti, una visione dell’aldilà di chiara ispirazione dantesca, attraverso la riproposta di un sogno, nel quale il padre dell’autore mostra al figlio l’immagine del mondo ultraterreno, con una lunga serie di incontri con i trapassati, ognuno dei quali ricorda la propria vicenda mondana con racconti che risentono, nella struttura e nei contenuti, della più cupa narrativa tardo-rinascimentale. La ripresa dell’imitazione della Commedia, peraltro assai diffusa nella produzione ebraica – dal modello dell’ultima machbereth di ‘Immanu’el Romano (Tofeth we ha ʽeden – L’inferno e il paradiso), al Miqdash me’at (Il piccolo santuario) di Mosheh da Rieti, al Tofteh ‘arukh (L’inferno preparato) di Mosheh Zacuto, fino al ‘Eden ‘arukh ( il paradiso preparato) di Ja‘aqov Olmo ʽ[97]– si fonde con i continui squarci narrativi, tanto che le vicende dell’io narrante finiscono per costituire soltanto il necessario connettivo di episodi vari, dando al testo uno spessore complesso, che non consente una definizione univoca di appartenenza.
Solo con il Hajje Jehudah di Leon Modena[98], invece, il genere autobiografico entra a pieno diritto nella produzione ebraica italiana. Giudicata da molti solo per il suo valore documentario, utile per la conoscenza della vita del grande rabbino e degli eventi del ghetto veneziano, la Vita di Jehudah si rivela, al contrario, a un’analisi più attenta, come una vera e propria confessione retrospettiva del dramma interiore di un uomo, sempre tormentato dal contrasto tra la vita pubblica e la vita privata, tra il suo essere e il vero dover essere. Risalta, in tutto il testo, infatti, la vistosa dicotomia esistente tra la severa immagine pubblica del grande predicatore e del maestro da tutti stimato e il profilo che Jehudah consegna alla scrittura tutta privata dell’area intima e riservata dell’io: sono i risvolti di una personalità inquieta, turbata da ossessioni ricorrenti, che si sente vittima di un destino di ansia e di sofferenza, vissuto tra momenti di improvvisi entusiasmi e fasi di profonda depressione. L’exemplum vitae che Modena vuole affidare ai suoi figli e ai suoi allievi si delinea, nell’economia complessiva del racconto, come una sorta di riscontro, di metafora in sedicesimo, della condizione stessa dell’ebraismo diasporico, rivissuta, nello spazio privato dell’io, attraverso un diagramma di cadute e di peccati, di tentativi di redenzione e di avvilenti sconfitte, inconfessabili a un mondo esterno, ma rivelati, pur con attenta selettività, al contesto riservato della propria discendenza.
Conosco l’empietà del mio cuore
le mie grandi colpe e i più lievi torti.
So che merito il fuoco infernale.
Desidero per mia disgrazia il vizio
che ci attira con false lusinghe,
perciò mi presento davanti a Te, o Signore,
chiedendo aiuto contro il morso del serpente[99].
scrive nella sua preghiera per la vigilia del novilunio, quasi a trascrivere il suo interiore tormento, già confessato nell’incipit stesso della sua scrittura, a indicare le coordinate interpretative dell’intera narrazione: “Pochi e cattivi sono stati i giorni degli anni della mia vita su questa terra” (Gen., XLVII, 9). Questa sensibilità contrastata, segnata forse dalle ombre di una mentalità seicentesca, porta a rileggere l’intero arco di un vita come un percorso di penitenza, nel continuo alternarsi di sventure e di risarcimenti, di cadute e di tentativi di redenzione, inutili, perché incapaci di confortare l’amaro del peccato, contro il quale nulla sembra potere la volontà dell’uomo. Rivestiti i panni di un novello Giobbe, sostenuto dalle risorse di una consolidata abilità retorica, Modena sembra strutturare, allora, la più celebre predica della sua carriera, dall’exordium d’apertura, alla narratio centrale, fino alle parole finali del proprio elogio funebre, che suonano come una vera e propria peroratio conclusiva:
Si dica che non facevo parte degli ipocriti, che il mio interno è come il mio esterno; sono stato timorato di D-o, mi sono tenuto lontano dal male più in segreto che in palese e non ho avuto riguardi ad amico o a parente e neanche a me stesso o a ciò che mi poteva esser utile quando si trattava di quello che mi sembrava fosse la verità
Mettendo a nudo i meandri più nascosti della sua anima[100], il celebre rabbino consegna alla scrittura il profilo del dissidio di un uomo, timorato di D-o, ma tormentato sempre dai sensi di colpa di chi, per la propria incapacità di opporsi al male, non ha la costanza di aderire pienamente al sistema di vita nel quale crede fermamente, per educazione e convinzione, e che la Torah, tante volte commentata e spiegata al pubblico, gli impone. Il Hajje Jehudah, insomma, è l’immagine di una personalità inquieta, che percepisce i profondi conflitti dell’individuo, ma li proietta, e, in qualche modo, li giustifica, sulla sfondo di una visione superiore e unificante: il profilo segreto di un avvilente tormento che non sa né può placarsi, pur scorgendo la via della salvezza, lungo la quale però il cammino resta sempre incerto e malsicuro.
La salvezza che, invece, attraverso un percorso non meno tormentato, ha saputo, forse, raggiungere Mosheh Ch. Luzzatto, l’ultimo grande protagonista di due secoli tanto inquieti. È difficile, infatti, sottrarsi oggi, dopo i molti sondaggi critici e l’analisi del suo epistolario, alla tentazione di leggere anche in chiave autobiografica, anche se mai esplicitamente suggerita, la trilogia teatrale del noto rabbino padovano[101]. Al di là, in vero, della prevalente dimensione qabbalistica – suggerita fin dall’inizio dal famoso circolo mistico, con la sue pratiche ascetiche e le apparizioni del maggid, il messaggero annunciatore del messia[102]– che ha informato di sé tutta l’opera di Ramchal e che connota le tappe di un graduale avvicinamento alla più serena prospettiva etica dell’ultimo messaggio contenuto nella Mesillath jesharim (La via dei giusti)[103]e in Derekh ha Shem (La via del Signore), è possibile intravedere, come alcuni sono propensi a credere, sia pur con le necessarie cautele, la proiezione, attraverso i suoi personaggi, di un percorso interiore, di una sorta di itinerarium mentis ad Deum, di una nuova, moderna Commedia, che dalla caduta nel peccato della passione (chesheq), attraverso la via che porta alla purificazione, nel superiore controllo del pudore e della castità, giunge, infine, alla conquista dell’amore più puro[104].
Lo scontro tra l’istinto, l’eros, e i limiti imposti dalla ratio divina sembra formare, in effetti, quasi in filigrana, l’ossatura portante di tutto il discorso luzzattiano. Nel dramma Ma aseh Shimshon ʽ (Le imprese di Sansone)[105], l’eroe che cede alla passione terrena per Dalila e viene meno all’alto compito cui era stato destinato, è forse trascritto un inconfessato conflitto personale, proiettato nei risvolti tutti ebraici di un tema, in quegli stessi anni assai diffuso anche nel melodramma metastasiano.
Proprio nello stesso 1724, infatti, il poeta italiano otteneva un ampio consenso in tutta Europa con la sua Didone abbandonata, costruita, appunto, sullo scontro tra la passione di Enea per la mitica regina e il compito divino assegnato all’eroe troiano. Alle fragili ariette arcadi, tuttavia, fa riscontro, in Luzzatto, la tensione tragica del lamento di Sansone, caduto ormai prigioniero dei Filistei:
Maledetto sia il giorno che ti ho conosciuto,
che il mio sguardo si posò sulla bellezza di una donna […]
Gemi in silenzio, cuore, non urlare,
tu stesso hai causato la rovina.
Inutile piangere, non c’è salvezza per te,
ecco il frutto del male agire[106].
Dalle trame del peccato, dalla caduta dell’eroe, tuttavia, è possibile sollevarsi, sembra suggerire l’autore, lottando contro ogni ostacolo, contro ogni forza avversa, per conseguire il fine desiderato. Il secondo dramma Migdal oz ʽ (Torre possente) del 1734, trascrive forse proprio l’ascesa verso la mèta della possibile purificazione[107]. La storia d’amore tra i giovani Shelomith e Shalom, pur costruita sull’intreccio semplificato del Pastor fido del Guarini, rinvia chiaramente, in questo senso, al cammino, pur irto di impedimenti, che l’amante deve superare per giungere al vero amore. Chiusa nella torre misteriosa, promessa a chi saprà trovare la porta d’ingresso, Shelomith diventa certamente icona mistica, allegoricamente emblema della Legge del Signore (Prov., XVIII, 10: Migdal ‘oz shem Adonaj), che apre al mondo eterno (del resto Migdal ‘oz vale 77+77 = 154 come ʽolam habba’, la vita ultraterrena): essa ama Shalom, e proprio in grazia del suo vero amore lo guida al controllo dell’istinto e della passione, invitandolo ad avviarsi verso una scelta religiosa. Essa diviene così una sorta di anti-Dalila, capace di far prevalere il pudore e la ratio sull’eros, la via unica attraverso la quale potrà, alla fine, unirsi a Shalom. Questi, dopo aver tentato di infrangere ogni regola, spinto da chesheq, riconosce alla fine che non è soltanto la bellezza che lo lega alla donna amata, ma una forza della quale non conosce la natura. È ovviamente il volere, la legge divina la via della salvezza, lungo la quale, allora, Shelomith diventa una sorta di novella Beatrice, di guida alla salvezza, capace di condurre amore sul retto cammino, fino al limite supremo. Ed è la mèta, al fine, raggiunta appunto nell’ultimo dramma, La jesharim tehillah (Ai giusti la lode[108]), l’opera più ‘moderna’ e più apprezzata di Ramchal, dall’impianto tipicamente allegorico, nella quale i personaggi – come nell’opera del rabbino veneziano Simchah Calimani, Qol Simchah (La voce di Simchah, 1734), ove Saggezza rimprovera aspramente Follia, Gelosia e ogni aspetto negativo della società contemporanea[109] – sono ormai personificazione di idee astratte, spesso già impegnati, in alcuni monologhi, ad affrontare temi diffusi nell’ideologia illuministica[110]. Scritta nella più libera atmosfera di Amsterdam, ove il rabbino aveva finalmente trovato, con la famiglia, la serenità, dopo i severi contrasti dovuti alle sue posizioni mistiche, l’opera sembra proiettare, nella nuova storia d’amore tra Josher (il giusto) e Tehillah (la lode, la gloria), la convalida della consapevolezza che solo nella volontà divina si può realizzare il vero amore. La via che Josher percorre, superando tutti gli ostacoli posti dal male, aiutato dalla Sapienza (Sekhel), e i complotti tramati contro di lui da Ta’awah, il desiderio, per sottrargli la donna amata, è la lenta conquista di questa verità: il conclusivo intervento di Giudizio (Mishpat) e della natura, versione ebraica del tradizionale Deus ex machina, che consente di svelare ogni inganno, sancisce la definitiva vittoria della virtù su ogni vizio terreno. È la serena, pacificante conclusione di un travagliato percorso, che solo, dunque, nel ‘sentiero che porta a D-o’ (appunto Derekh ha Shem) riconosce l’unica possibilità di salvezza. Si tratta, forse, del superamento di ogni travaglio personale, di ogni inquietudine esistenziale, che che si era già tradotto, in quegli anni, nel messaggio che Mosheh Ch. Luzzatto consegna al lettore, indicando nella sua opera, la Mesillath jesharim, le tappe del vero itinerarium ad Deum che ognuno deve compiere. I ventisei capitoli del testo, tanti quanti numera significativamente il Nome di D-o, il tetragramma, segnano i segmenti che dalla vigilanza, alla dedizione, all’innocenza, all’ascetismo portano alla purezza, alla pietà, all’umiltà, al timore del peccato, che rappresenta la vera via alla santità. “Colui che è del tutto unito al Signore, potrà trarre da Lui la continuità della vita stessa”[111]. È il traguardo del faticoso cammino di un uomo, la cui conquista morale è indicata come il più valido esempio praticabile per tutta l’umanità. La produzione letteraria dei rabbini italiani durante l’età dei ghetti, pur aperta alle prospettive ‘laiche’ o ‘profane’, che tante obiezioni hanno sollevato, si conclude, invece, così, emblematicamente, riproponendo, sempre e comunque, il più stretto rapporto con la più tipica, tradizionale dimensione religiosa ebraica.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Riteniamo utile per un approfondimento aggiungere ai saggi indicati in nota alcune opere di carattere generale.
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[1] E. C. Ancona, L’inventario dei beni appartenenti a Leon da Modena, in “Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato”, IV, 1962, p. 258.
[2] Sul noto rabbino veneziano si vedano: J. A. Modena, Chajjé Jehudà’ . The Autobiography of a Venetian Rabbi, by D. Carpi, Tel Aviv, Rosenberg-Tel Aviv Univ. 1985 (in ebr.);The Autobiography of a Seventeenth-Century Venetian Rabbi Leon Modena’s Life of Judah, by M. Cohen, intr. M. Cohen, T. k. Rabb, H. E. Adelman, N. Zemon Davis; historical notes by H. E. Adelman and B. C. I. Ravid, Princeton, Princeton Univ, Press 1988; Vita di Jehudà. Autobiografia di Leon Modena rabbino veneziano del XVII secolo, trad. M. E. Artom, introd. U. Fortis, note D. Carpi, a cura di U. Fortis, A. Viterbo, E. Rossi Artom, Torino, Zamorani 2000; A. Rathaus, Leon Modena’s Autobiography and His Realistic Poetics, in The Leon Shall Roar. Leon Modena and His World, a c. D. Malkiel, Gerusalemme, Magnes Press – Ben Zvi Inst. 2003, pp. 131-141 (in ebr.).
[3] Z. Baruchson, La diffusione di testi a carattere religioso e della letteratura classica nelle biblioteche degli ebrei nel Rinascimento italiano, in “Italia”, VIII, 1-2, 1989, pp. 87-99 (in ebr.); R. Bonfil, Le biblioteche degli ebrei d’Italia nel Rinascimento, in Manoscritti, frammenti e libri ebraici nell’Italia dei secoli XV-XVI (Atti del VII Congresso AISG – 1988), Roma, Carucci 1991, pp. 137-150.
[4] Per il problema v. R. Bonfil, Change in the Cultural Patterns of a Jewish Society in Crisis: Italian Jewry at the Close of the Sixteenth Century, in “Jewish History”, 3, 1988, pp. 11-30; Id., Changing Mentalities of Italian Jews Between the Periods of the Renaissance and the Baroque, in “Italia”, XI, 1994, pp. 61-79.
[5] Una sintesi delle varie interpretazioni in H. Tirosh-Rothschild, Jewish Culture in Renaissance Italy; A Methodological Survey, in “Italia”, IX, 1-2, 1990, pp. 63-96.
[6] Valgano le ampie sintesi di R. Bonfil, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Firenze, Sansoni 1991; Id., Lo spazio culturale degli ebrei d’Italia fra Rinascimento ed Età barocca, in Storia d’Italia. Gli Ebrei in Italia. Annali 11/1, a c. di C. Vivanti, Torino, Einaudi 1996, pp. 411-473.
[7] Cfr. G. Tamani, La letteratura ebraica medievale (secoli X-XVIII), Brescia, Morcelliana 2004, p. 189.
[8] Così, ad esempio, G. Tamani, La letteratura, cit.
[9] Sulle esperienze letterarie degli ebrei italiani nell’età rinascimentale ai saggi citati a n. 6 si aggiunga almeno: G. Busi, Influssi italiani nella letteratura ebraica dell’età del Rinascimento, in Correnti culturali e movimenti religiosi del giudaismo (Atti del V Congresso AISG – 1984), Roma, Carucci 1987, pp. 257-271.
[10] Basti qui il rinvio a A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi 1963 (1992²), capp. V e VI.
[11] Una prima sintesi in D. Amram, The Makers of Hebrew Books in Italy, London, The Holland Press 1963 e, per Venezia in particolare, in U. Fortis, Editoria in ebraico a Venezia, Venezia,Arsenale Ed. 1991.
[12] U. Cassuto, Dante e Manoello, Firenze, Israel 1921, p. 73.
[13] Riflettono già questa prospettiva, tra gli altri, G. Sermoneta, L’incontro culturale tra ebrei e cristiani nel Medioevo e nel Rinascimento, in Ebrei e cristiani nell’Italia medievale e moderna: conversioni, scambi, contrasti (Atti del VI Congresso AISG – 1986), Roma, Carucci 1988, pp. 183-207 e R. Bonfil, Lo spazio culturale, cit.
[14] M. Maimonide, La guida dei perplessi, a c. di M. Zonta, Torino, UTET 2003, I, LXXI.
[15] Sull’autore vedi almeno D. B. Ruderman, An Exemplary Sermon from the Classroom of a Jewish Teacher in Renaissance Italy, in “Italia”, I, 2, 1978, pp.7-38, in particolare pp. 13-24.
[16] L’importanza dell’autore è messa in evidenza da A. Melamed, Rhetoric and philosophy in ‘Nofet Zufim’ by Judah Messer Leon, ivi, pp. 7-38 (in ebr.); nell’introduzione di R. Bonfil a Jehudah ben Jechi’el (Messer Leon), Nofeth Tzufim. On Hebrew Rhetoric. Mantua ca. 1475, a c. R. Bonfil, Gerusalemme, Univ. and Magnes Press 1981; dalle indicazioni di G. Busi in G. Busi, Influssi italiani, cit. pp. 259-261 e in Id., Letteratura ebraica ed ebraico-cristiana nel XV e nel XVI secolo, in “Henoch”, VI, 1984, pp. 369-378, che si avvale dell’edizione critica pubblicata da I. Rabinowitz nel 1983; R. Bonfil, The Book of ‘Honeycomb’s Flow’ by Judah Messer Leon. The Rhetorical Dimension of Jewish Humanism in Fifteenth-Century Italy, in The Frank Talmage Memorial Volume, by B. Walfish, Haifa, Haifa Univ. Press 1992, II, pp. 21-33. La bibliografia è molto vasta, ma non abbiamo qui pretese di esaustività.
[17] Si veda ora A. de’ Rossi, The Light of the Ejes (Me’or ‘enajim), ed. critica e trad. inglese a c. di J. Weinberg, New Haven and London, Yale Univ. Press 2001. La citazione proviene dal Matzref la-kesef, II, 14 (Crogiolo dell’argento) del 1578, aggiunto dal de’ Rossi all’edizione ferrarese del Me’or ‘enajim del 1575. Traduzione di S. Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, II, Roma, Carucci 1982, p. 80.
[18] Sul valore dell’opera del de’ Rossi i saggi di: S.W. Baron, La méthode historique d’Azaria de’ Rossi, in “Revue des Études Juives”, LXXXIX, 1929, pp. 43-78; R. Bonfil, Some Reflection on the Place of ‘Azariah de’ Rossi’s “Me’or ‘enajim” in the Cultural Milieu of Italian Renaissance Jewry, in Jewish Thought in the Sixteenth Century, a c. di B. D. Cooperman, Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press 1983, pp. 23-48; B. Carucci Viterbi, La polemica tra ‘Azarijah de’ Rossi e il Maharal di Praga sul significato delle ‘aggadot, in Scritti sull’Ebraismo in memoria di Emanuele Menachem Artom, Gerusalemme, Pirsum Dror 1996, pp. 89-123 offrono ampie indicazioni e bibliografia.
[19] La prima edizione fu: L. de’ Sommi, Tzachuth bedichutha de-qiddushin, a c. di J. Schirmann, Gerusalemme, Tarshish 1946 (Tel Aviv, Tarshish-Dvir 1965²); ora, con traduzione in inglese, Tzachuth bedichutha de-qiddushin (A Comedy of Betrothal), a c. di A. Golding, Ottawa, Dovehouse Ed. 1988. Alcune scene in traduzione italiana in S. Avisar, Tremila anni, cit., pp. 13-23.
[20] L. de’ Sommi, Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, a c. di F. Marotti, Milano, Il Polifilo 1968, pp.13-14.
[21] Un’analisi degli influssi mistici nel de’ Sommi in Y. David, L’ispirazione ebraica nei dialoghi di Leone de’ Sommi, in “La Rassegna Mensile di Israel”, LX, 1-2, 1994, pp. 119-127.
[22] L’edizione critica ora in: Leone Ebreo, Dialoghi d’amore, a c. di S. Caramella, Bari, Laterza 1929. Cfr. M. Ariani, Imago fabulosa. Mito e allegoria nei Dialoghi di Leone Ebreo, Roma, Bulzoni 1984; R. Bonfil, Lo spazio culturale, cit., pp. 455-456 e per l’area sefardita: J. N. Novoa, Los Diálogos de amor de León Hebreo en el marco sociocultural sefardí del siglo XVI, Lisboa, Universidade de Lisboa 2006. La prima edizione a Roma, Blado 1535.
[23] Un primo profilo in: G. Laras, Studiosi italiani di diritto ebraico nell’età del Rinascimento, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XXXIII, 1967, pp. 253-261.
[24] V. Colorni, Spigolature su ‘Obadià Sforno: la sua laurea a Ferrara e la quasi ignota edizione della sua opera OR ʽAMIM nella versione latina, in “La Rassegna Mensile di Israel” (“Volume speciale in memoria di Federico Luzzatto”), XXVIII, 1962, pp. 78-88.
[25] Cfr. R. Bonfil, Change, cit. a n. 4.
[26] Un giudizio in tal senso in: R. Bonfil, I responsi rabbinici come fonte storica, in “Materia giudaica”, IX/1-2, 2004, pp. 103-108.
[27] Questo e altri responsa del noto rabbino veneziano sono raccolti in: J. Modena, She eloth u-teshuvoth “Ziqne Jehudah” (Responsa–in ebr.), a c. di Sh. Simonsohn, Gerusalemme, Mossad ha Rav Kook 1956. Vedi ora: J. Woolf, The Responsa of Leon Modena: Continuity Without Change, in The Leon Shall Roar. Leon Modena and His World, a c. D. Malkiel, Gerusalemme, Magnes Press – Ben Zvi Inst. 2003, pp. 55-68 (in ebr.).
[28] Sull’opera del noto rabbino ferrarese vedi ora: : D. B. Ruderman, Giudaismo tra scienza e fede, Genova, ECIG 1999, passim e in part. pp. 303-320; D. Malkiel, Ebraismo, tradizione e società: Isacco Lampronti e l’identità ebraica nella Ferrara del XVIII secolo, in “Zakhor”, VIII, 2005, pp. 9-42; Id., Empiricism in Isaac Lampronti’s Pahad Jishaq, in “Materia giudaica”, X/2, 2005, pp.341-351.
[29] E. Ch. Da Genazzano, La lettera preziosa, introd., edizione e traduzione di F. Lelli, Firenze, Giuntina 2002.
[30] B. Gross, L’idea messianica nel pensiero di Isac Abarbanel, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XXXV, 1969, pp. 380-390.
[31] G. Tamani, Parafrasi e componimenti poetici in volgare e in caratteri ebraici di Mordekhay Dato, in “Italia Judaica”, II, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato 1986, pp. 233-242, a p. 237.
[32] R. Bonfil, Cultura e mistica a Venezia nel Cinquecento, in Gli Ebrei e Venezia, secoli XIV-XVIII, a c. di G. Cozzi, Milano, Edizioni di Comunità 1987, pp. 469-506, a p. 487 sgg; Id., Halakha, Kabbala and Society: Some Insights into Rabbi Menahem ‘Azaria da Fano’s Inner World, in Jewish Thought in the Seventeenth Century, a c. di I. Twerskj – B. Septimus, Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press 1987, pp. 39-61.
[33] Z. Shazar, L’attesa messianica per l’anno 5500-1740 nel pensiero di R. J. Chayim Kohen Cantarini, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XXXVIII, 1971, pp. 527-557. La prima edizione del testo: Amsterdam, Proops 1710.
[34] G. Tamani, La letteratura, cit., p. 204.
[35] N. Pavoncello, La letteratura ebraica in Italia, Roma, Sabbadini 1963, p. 78; D. B. Ruderman, Giudaismo, cit., pp.255-271. L’opera fu stampata a Venezia presso la Stamperia Bragadina-Vendramina nel 1740.
[36] Sul noto rabbino veneziano utili profili in: S. J. Sierra, Lo Jessòd ‘olàm (“il pilastro su cui poggia il mondo”) e l’opera poetica di Moshèh Zacùt, in “Italia Judaica”, II, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato 1986, pp. 279-293; A.Y. Lattes, L’opera letteraria di Rabbi Moshè Zacuto, in “La Rassegna Mensile di Israel”, LXXIII, 1997, pp. 1-25; G.Tamani, La letteratura, cit., pp. 207-210.
[37] Cfr. A. Leoni, La presenza sefardita a Venezia intorno alla metà del Cinquecento. I libri e gli uomini, in “La Rassegna Mensile di Israel”, LXVII, n. 1-2, 2001, pp. 35-110, in part. pp. 61-78.
[38] Basti qui il rinvio a R. Calimani, Storia del ghetto di Venezia, Milano, Mondadori 2000³, p. 97 sgg.
[39] Su questo particolare momento della cultura ebraica del ghetto veneziano del primo Seicento vedi: U. Fortis, La “bella ebrea”. Sara Copio Sullam, poetessa nel ghetto di Venezia del ‘600, Torino, Zamorani 2003, pp. 35-40.
[40] Discorso circa il stato de gl’hebrei et in particolar dimoranti nell’inclita Città di Venezia, di Simone Luzzatto, rabbino hebreo, Venezia, Calleoni 1638, c. 85b. Ciò può spiegare, almeno in parte, anche la ripresa della lingua volgare, accanto alla produzione in ebraico.
[41] Vedi almeno, per il primo caso: E. Rivkin, Leon Da Modena And The Kol Sakhal, Cincinnati, Hebrew Union College Press 1952; per il secondo: D.B. Ruderman, Giudaismo, cit., cap. V; A. Viterbo, Socrate nel ghetto: lo scetticismo mascherato di Simone Luzzatto, in “Studi Veneziani”, XXXVIII, 1999, pp. 79-128.
[42] Le varie posizioni al riguardo sono emerse durante la discussione nel convegno del 1983 su Gli Ebrei e Venezia, secoli XIV-XVIII, cit. a n. 32, riportata alle pp. 537-562.
[43] L’Ester. Tragedia tratta dalla Sacra Scrittura. Per Leon Modena Hebreo da Venetia riformata, in Venetia, presso G. Sarzina, 1619, a. III, sc. V.
[44] Un’ampia e documentata sintesi sul problema offre A. Rathaus, Poetiche della scuola ebraico-italiana, in “La Rassegna Mensile di Israel”, LX, 1-2, 1994, pp. 189-226, con ampia bibliografia.
[45] J. A. Modena, Chajjè Jehudah, cit., 9.
[46] Sull’autore, oltre all’articolo Archivolti, Samuel di Y. Horowitz in Encyclopaedia Judaica, Jerusalem, Keter 1971, III, p. 397, si veda il recente A. Schippers, The Work of Samuel Archivolti (1515-1611) in the Light of the Classical Traditions and Cinquecento Italian Literature, in “Helmantica”, LI, 2000, pp. 121-137 e G. Tamani, La letteratura, cit., pp. 197-198; A. Rathaus, Poetiche, cit., pp. 207-208.
[47] I Trionfi. Favola pastorale di Angelo Alatini Hebreo, in Venetia, Appresso gli Heredi del Salicato MDCXI, c. 5.
[48] J. A. Modena, Midbar Jehudah (Il deserto di Giuda), Venezia, Zanetti 1602, f. 80b.
[49] S. De Benedetti Stow, Due poesie bilingui inedite contro le donne di Shemu’el da Castiglione (1553), in “Italia”, II, 1-2, 1980, pp. 7-64.
[50] Venezia, Zanetti 1601.
[51] C. Roth, Leone da Modena e gli ebraisti cristiani del suo tempo, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XI, 1937, pp. 409-423, a p. 417.
[52] Diwa’n le r. Jehudah Arjeh Modena (The Divan of Leo de Modena), a c. di S. Bernstein, Philadelphia, The Jewish Publ. Soc. of America 1932.
[53] L’Ester, cit., pp. 2-3.
[54] L’Amor Possente, favola pastorale di Benedetto Luzzatto Hebreo da Venetia, Venezia, Miloco 1631, sonetto: Tu ch’un tempo…, vv. 4-8. Sulla favola: C. Boccato, “L’Amor Possente, favola pastorale di Benedetto Luzzatto Hebreo da Venetia”, composta durante la peste del 1630, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XLIII, 1977, pp. 36-47.
[55] Su Salomon Usque e la sua opera letteraria: G. Zavan, Gli ebrei, i marrani e la figura di Salomon Usque, Treviso, Santi Quaranta 2004.
[56] L’Ester, cit., pp. 9-10.
[57] Historia de riti hebraici. Vita e osservanze degl’Hebrei di questi tempi di LEON MODENA rabi da Venetia, Venezia, Calleoni 1638, c. XVII. Sul celebre testo vedi almeno: M. Cohen, Leone da Modena’s “Riti”: a Seventeeth-Century Plea for Social Toleration of Jews, in “Jewish Social Studies”, XXXIV, 1972, pp. 287-321.
[58] Discorso, cit., c. 3.
[59] A. Rathaus, La poesia filosofica di Jehoshua Josef Levi ʽ , in “Italia”, IV, 1, 1989, pp. 7-26 (in ebr.). Su Zacuto v. n. 36. 12
[60] Tra i molti saggi dedicati al Discorso: R. Bachi, Saggio sul Discorso di Simone Luzzatto sulle condizioni degli ebrei nella diaspora (1638), in Israele disperso e ricostruito, Roma, La Rassegna Mensile di Israel 1952, pp. 95-139; B. Ravid, Economics and Toleration in Seventeenth-Century Venice; the Background and Context of the Discorso of Simone Luzzatto, Gerusalemme, Central Press 1978; G. Veltri, Alcune considerazioni sugli ebrei e Venezia nel pensiero politico di Simone Luzzatto, in Percorsi di storia ebraica (Atti del XVIII convegno internazionale Cividale del Friuli Gorizia 2004), a c. P. C. Ioly Zorattini, Udine, Forum 2005, pp. 247-266.
[61] Venezia, Tomasini 1651. Sul suo significato vedi ora: D. B. Ruderman, Giudaismo, cit. e A. Viterbo, Socrate nel ghetto, cit. a n. 41.
[62] Sul de’ Sommi, oltre all’introduzione ai Quattro dialoghi, cit. di F. Marotti, si vedano: R. Bonfil, Lo spazio culturale, cit., pp. 457-472 e la bibliografia ivi riportata, accanto a quella di Y. David, Leone de’ Sommi. A Bibliography, Tel Aviv, Tel Aviv University 1988. Per le opere, oltre a quelle citate a n. 19, vedi: L. de’ Sommi, Tre sorelle. Comedia, a c. di G. Romei, Milano, Il Polifilo 1982 e G. Dalla Palma, L’Irifile e la cultura letteraria di Leone de’ Sommi, in “Schifanoia”, IX, 1990, pp. 139-225, che riporta l’edizione critica del testo. Utile: Leone de’ Sommi and the Performing Arts, a c. di A. Belkin, Tel Aviv, Tel Aviv University 1997.
[63] I Trionfi. Favola pastorale, cit., c. 4.
[64] L’Amor Possente, favola pastorale, cit., sonetto Tu ch’un tempo, vv. 12-14.
[65] M. Ch. Luzzatto, La jesharim tehillah, a c. Y. David, Gerusalemme, Mossad Bialik 1981, a. I, sc. II. Cfr. S. Avisar, Tremila anni, cit., p. 27 e G. Tamani, La letteratura, cit., p. 219. La prima edizione è datata: Amsterdam, Propps, 1743. Vedi ora N. Danieli, Il dramma La-yesharim tehillah di Mosheh Hayyim Luzzatto: pluralità di letture, in “Materia giudaica”, XII/1-2, 2007, pp. 129-137 e la bibliografia ivi riportata.
[66] M. Ch. Luzzatto, La jesharim tehillah, cit., a. I, sc. IV. Cfr. S. Avisar, Tremila anni, cit., p. 29-30 e N. Danieli, Il dramma, cit., p. 133.
[67] M. Ch. Luzzatto, Migdal ‘oz, a c. Y. David, Gerusalemme, Mossad Bialik 1972.
[68] S. J. Sierra, The Literary Influence of G. B. Guarini’s “Pastor Fido” on M. H. Luzzatto’s “Migdal ‘oz”, in “The Jewish Quarterly Review”, N. S., L, 4, 1960, pp. 319-337. I riferimenti al Tasso in: T. Tasso, Aminta, Il re Torrismondo, Il mondo creato, a c. di B. Basile, Roma, Salerno ed. 1999, a. I, coro, v. 681; per quelli sul Guarini: G. B. Guarini, Il pastor fido, in Opere, a c. di M. Guglielminetti, Torino, UTET 1971, a. IV, coro, v. 1419.
[69] Si veda l’analisi proposta da B. Feingold, Luzzatto’s Plays and the Theatre, in “Italia Judaica”, III, Roma, Ministero Beni Culturali 1989, pp. 97-109 (in ebr.).
[70] L. de’ Sommi, Quattro dialoghi, cit., II, pp. 34-35.
[71] A. Rathaus, Hebrew Pastoral Poetry in Italy in the Seventeenth and Eighteenth Centuries, in “Italia Judaica”, III, Roma, Ministero Beni Culturali 1989, pp. 111-120 (in ebr.).
[72] Sull’opera della poetessa e sul valore della sua poesia nella cultura del Seicento veneziano vedi: U. Fortis, La “bella ebrea”, cit.
[73] M. Dato, La istoria de Purim io ve racconto, a c. di G. Busi, Rimini, Luisè 1987.
[74] L’Ester, cit., pp. 17-19. ‘Amaleq, il ‘nemico’ d’Israele per antonomasia, che assalì il popolo nel deserto (Shemoth, XVII, 8-14), viene mandato da Plutone ad assistere alla rovina di “Aman caro suo figlio”.
[75] Ivi, pp. 99-100. Quasi a bilanciare la figura negativa di ‘Amaleq, nel V atto, l’angelo appare a Mordekhaj per rassicurarlo dell’aiuto divino. Per la presenza di midrashim nella tragedia vedi: A. A. Piattelli, L’ESTER: l’unico dramma di Leon da Modena giunto fino a noi, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XXXIV, 1968, pp. 163-172.
[76] Ivi, pp. 81-82.
[77] Ivi, p. 7, vv. 1-2 e 9-11.
[78] Ivi, p. 28.
[79] A. Jagel, ‘Esheth chajil, Venezia, Zanetti 1606.
[80] L’Ester, cit., pp. 52-53.
[81] Per questa linea di lettura: M. Cavarocchi Arbib, Rivisitando la biblica Ester: implicazioni sottese all’immagine femminile ebraica nell’Italia del Seicento, in Le donne delle minoranze, a c. di C. E. Honess e V. R. Jones, Torino, Claudiana 1999, pp. 143-157 e Ead., The Queen Esther’s Triangle: Leon Modena, Ansaldo Cebà and Sara Copio Sullam, in The Lion Shall Roar. Leon Modena and His World, a c. D. Malkiel, Gerusalemme, Magnes Press – Ben Zvi Inst. 2003, pp. 103-135.
[82] S. J. Sierra, Lo Jessòd ‘olàm, cit.; A.Y. Lattes, ʽ L’opera letteraria di Rabbi Moshè Zacuto, cit.
[83] Su L. de’ Sommi vedi n. 19.
[84] Jehudah del Bene, Kise’oth le Veth Dawid, Verona, Rossi 1646. La traduzione è di G. Sermoneta, Aspetti del pensiero moderno nell’ebraismo italiano tra Rinascimento e età barocca, in “Italia Judaica”, II, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato 1986, pp. 17-35, a p. 28. Su Jehudah del Bene vedi: R. Bonfil, Preaching as Mediation Between Elite and Popular Cultures. The Case of Judah del Bene, in Preachers of the Italian Ghetto, a c. di D. B. Ruderman, Berkeley Los Angeles-London, Univ. Of California Press 1992, pp. 67-88.
[85] Per un confronto con i vari aspetti della produzione ebraica dell’età barocca in Italia si vedano almeno: D. Pagis, Baroque Trends in Italian Hebrew Poetry as Reflected in an Unknown Genre, in “Italia Judaica”, II, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato 1986, pp. 263-277 e M. Andreatta, Poesia religiosa ebraica di età barocca, Padova, S. E. Gordini 2006.
[86] Diwa’n le r. Immanu el ben Dawid Frances ʽ ‘ , a c. di S. Bernstein, Tel Aviv, Dvir Company 1932, Chaludah ʽaltah, 1 – 6. La traduzione è di S. Avisar, Tremila anni, cit., pp. 55-56.
[87] Diwa’n le r. ‘Immanu’el , cit., Mi samkhah noter, v. 13 sgg. La traduzione è di S. Avisar, Tremila anni, cit., p. 57.
[88] Composto nel 1677 fu pubblicato solo nel 1892 a Cracovia da H. Brody (Hebräische Prosodie von Immanuel Frances).
[89] A. Rathaus, Lèmech primo poeta. Commento a una pagina di poetica di Immanuel Frances, in Annuario di studi ebraici 1985-1987, XI (“Studi sull’Ebraismo in memoria di Sergio Piperno Beer”), a c. di E. Toaff, Roma, Carucci 1988, pp. 159-173; Id., Poetiche, cit., pp. 203-205 e 209-211.
[90] Il Binah le ‘ittim del 1648 fu pubblicato a Lemberg nel 1816. Sul problema ancora A. Rathaus, Lèmech primo poeta, cit., pp. 170-171.
[91] Diwa’n le r. Immanu el ʽ ‘ , cit., Dodim seʽar. La traduzione è di S. Avisar,Tremila anni, cit., p. 55.
[92] M. Ch. Luzzatto, Leshon limmudim, a c. di A. M. Haberman, Tel Aviv, Mossad Ha Rav Kook 1951. Scritto nel 1724, fu pubblicato a Mantova nel 1727. Sulle proposte di Luzzatto: Y. David, M. H. Luzzatto’s Rhetoric and Poetics. A Comparative study, Tel Aviv, Univ. Publ. Ltd 1978; A. Rathaus, Poetiche, cit., pp. 221-226; G. Tamani, La letteratura, cit., p. 216.
[93] M. Ch. Luzzatto, Ma‘aseh Shimshon, a c. di Y.David, Gerusalemme, Mossad Bialik 1967. Il testo risale al 1724.
[94] Leone Ebreo, Dialoghi d’amore, cit., in appendice.
[95] J. Min ha Lewijjim, Medabber tahpukhoth, a c. di D. Carpi, TelAviv, Rosenberg-Tel Aviv Univ. 1985.
[96] Sul testo e la sua importanza vedi: G. Busi, Sulla Ge hizzayon (La valle della visione) di Abraham Yagel, in “Annali di Ca’ Foscari”, 23, 3, 1984. pp. 17-34; Id., Influssi italiani, cit., pp. 267-268; D. B. Ruderman, A Valley of Vision: The Heavenly Journey of Abraham ben Hananiah Yagel, Philadelphia, Univ. of Pennsylvania Press 1990.
[97] Per il primo testo vedi ora la traduzione italiana in: I. Romano, L’inferno e il Paradiso, a c. di G. Battistoni – trad. E. Weiss Levi, Firenze, Giuntina 2000. Per il secondo è interessante, tra le altre, la traduzione della sezione finale fatta dalla poetessa romana Deborah Ascarelli: M. Da Rieti, Me on ha sho alim ʽ ‘ , trad. D. Ascarelli, Venezia, Zanetti 1601; per il testo di Mosheh Zacuto, edito a Venezia nel 1715, restano le vecchie traduzioni del Luzzatti (Torino 1819) e del Foà (Finale Emilia 1901), per quello di Ja aqov Olmo vedi: G. Tamani, ʽ La letteratura, cit., p. 210.
[98] Per il Hajje Jehudah vedi n. 2.
[99] Preghiera per la vigilia del novilunio in S. Avisar, Tremila anni, cit., p. 54.
[100] Hajje Jehudah, 69, ora in Vita di Jehudà, cit., p. 123.
[101] La bibliografia su Luzzatto è ormai molto vasta. Per un avvio: S. Ginzburg, The Life and Works of M. H. Luzzatto, Founder of Modern Hebrew Literature, Philadelphia, The Jewish Publ. Soc. of America 1931; M. Benajahu, The Character of Rabbi Moshe Hajim Luzzatto as Reflected in New Sources, in “Italia Judaica”, III, Roma, Ministero Beni Culturali 1989, pp. 11-25 (in ebr.); Y. Jacobson, Moses Hayim Luzzatto’s Doctrine of Divine Guidance and Its Relation to His Kabbalistic Teachings, in “Italia Judaica”, III, Roma, Ministero Beni Culturali 1989, pp. 27-46 (in ebr.); B. Feingold, Le opere teatrali di Mosheh Chayyim Luzzatto, in “La Rassegna Mensile di Israel”, LX, 1-2, 1994, pp. 147 – 182; utilissimo: N. Danieli, L’epistolario di Mosheh Hayyim Luzzatto (1707-1747), in “Materia giudaica”, VIII/2, 2003, pp. 361-366 e, ora, Ead., L’epistolario di Mosheh Hayyim Luzzatto, Firenze, Giuntina 2006, che riporta un’esauriente bibliografia aggiornata sul problema alle pp. 291-308.
[102] N. Danieli, Il circolo cabbalistico patavino di Mosheh Hayyim Luzzatto, in “Materia giudaica”, VII/1, 2002, pp. 145 – 154.
[103] Edito nel 1740, ristampato più volte e tradotto in molte lingue (l’ultima edizione a c. di Y. Avivi e A. Shoshana, Euclid-Ohio, Ofeq Inst. Inc, 1994-1995²) è ora in traduzione italiana: M. Ch. Luzzatto, Il sentiero dei giusti, a c. di M. Giuliani, Cinisello Balsamo, San Paolo 2000. Ma vedi: D. Lattes, Moshè Chajm Luzzatto (Ramchàl), autore del trattato morale“Mesillath Jesharìm”, in “La Rassegna Mensile di Israel” (“Volume speciale in memoria di Federico Luzzatto”), XXVIII, 1962, pp. 105-122.
[104] Spunti, in questa direzione, in B. Feingold, Le opere teatrali, cit.
[105] M. Ch. Luzzatto, Ma aseh Shimshon ʽ , a c. di Y. David, Gerusalemme, Mossad Bialik, 1967. L’opera è del 1724.
[106] Ma‘aseh Shimshon, a. III, sc. VI: trad. di S. Avisar, Tremila anni, cit., p. 25.
[107] M. Ch. Luzzatto, Migdal ‘oz, a c. Y. David, Gerusalemme, Mossad Bialik 1972.
[108] M. Ch. Luzzatto, La jesharim tehillah, a c. Y. David, Gerusalemme, Mossad Bialik 1981. Vedi ora N. Danieli, Il dramma La-yesharim tehillah, cit. L’opera fu stampata ad Amsterdam, Propps, 1743.
[109] Ch. Schirmann, Una invettiva “contro i vizi dei contemporanei” di Simon Calimani, poeta ebreo-italiano del XVIII secolo, in Scritti in memoria di Umberto Nahon, a c. di R. Bonfil et alii, Gerusalemme, Fond. Sally Mayer 1978, pp. 209-234 (in ebr.).
[110] Cfr. U. Shavit, Luzzatto’s “Layesharim Tehillah” and Its Intellectual Atmosphere, in “Italia Judaica”, III, Roma, Ministero Beni Culturali 1989, pp. 121-154 (in ebr.).
[111] M. Ch. Luzzatto, Il sentiero dei giusti, cit., cap. 26, p. 214.