L’idolo d’oro della Bibbia e il segno di una “colpa” che permane. Il libro di Bori
Tra i libri che aiutano a capire il presente, ve n’è uno un po’ dimenticato, ma prezioso. “Il vitello d’oro” di Pier Cesare Bori, edito da Bollati Boringhieri. Bori è stato docente di Storia delle dottrine teologiche presso l’Università di Bologna. Colpito dal testo freudiano su “Mosè e la religione monoteistica”, Bori analizza la nota vicenda del vitello d’oro (con la successiva rottura delle prime tavole da parte di Mosè) e la centralità di questo episodio nella contrapposizione cristiana dei primi quattro secoli all’ebraismo. Più che l’idolatria, viene sottolineato da Bori il peso dato dai primi autori cristiani alla celebrazione orgiastica intorno al vitello (cui seguirà solo successivamente la nota accusa anti giudaica correlata all’oro). “Vi è stata una costruzione, assai precoce, dell’immagine astratta, funzionale al bisogno della cristianità, del giudaismo come esponente della carnalità” contrapposta alla spiritualità attribuita alla sola cristianità.
Bori mostra come i primi cristiani abbiano utilizzato a tal fine “un potente strumento”: la protesta dei profeti di Israele nei testi ebraici quando attaccano il popolo per essersi allontanato dalla Torah, come per esempio Ezechiele. Come giustamente osserva l’autore, l’utilizzo della Bibbia ebraica per applicarla a sé stessi come una prefigurazione dell’arrivo di Gesù può ferire, ma non scandalizza. L’operazione si fa “scorretta” quando, rifiutando il rapporto con l’ebraismo, si utilizzano i testi ebraici per attaccare gli stessi ebrei, negando l’esperienza ebraica nel suo complesso, fatta di carne e sangue, di errare e di errori, di legge e trasgressioni, di riconciliazioni.
Negando la risposta ebraica alla trasgressione, l’intercessione di Mosè, la punizione, il pentimento, il rinnovamento del patto (con le seconde tavole), i testi ebraici, utilizzati allora solo come allegoria, portano a una distanza assoluta, fino all’estraneità. L’effetto complessivo è l’irrigidirsi della separazione, agli occhi dei cristiani di allora, tra scritture ebraiche e il popolo ebraico che ne è portatore. Le prime sono assimilate, il secondo appartiene ormai a una preistoria inutile. Nei secoli Quarto e Quinto si fa chiaro con Agostino e Girolamo che la cristianità stessa deve vegliare sulla sopravvivenza dell’ebraismo. Non solo perché gli ebrei sono una prova vivente degli scritti ebraici (scritti conosciuti e commentati dall’ebreo Gesù), non solo per la speranza di una loro futura conversione, ma perché la loro dispersione e la loro condizione servile debbono costituire la prova dell’adempimento delle profezie contro il popolo d’Israele. La presenza della comunità ebraica è utile alla compiutezza simmetrica dell’autodefinizione per antitesi.
La cristianità in alto, sul monte Sinai, nel sublime; l’ebraismo in basso, con il vitello (d’oro), nella carnalità volgare e nella mostrificazione con l’accusa di zoofilia. I temi anti giudaici sono stati raccolti sia da Lutero sia dall’occidente secolarizzato. Bori cita Hegel, Feuerbach e Marx. Nulla viene perduto, tutto si trasforma. Nel ricordare l’enorme sforzo compiuto dal Concilio Vaticano II per superare questa distanza e recuperare un rapporto di autentico rispetto con l’ebraismo, di cui il pontificato stesso di Ratzinger fu l’apice, vi è da chiedersi se questi temi siano ancora presenti sotto traccia. Se nelle polemiche di questi giorni – sia da parte di importanti esponenti della Chiesa cattolica sia da parte delle ong laiche – nei confronti di Israele e il modo di condurre la guerra contro Hamas – toni che non sono stati utilizzati per altre guerre, basti pensare ai 500 mila morti in Siria pochi anni fa e a pochi chilometri di distanza o al silenzio per i bombardamenti di questi giorni contro i curdi in Rojava da parte di Erdogan – non si possa vedere in controluce il tentativo di gettare nuovamente Israele e il suo popolo nel fango per ricostruirsi in contrapposizione un’immagine di purezza.