CAPITOLO 5 – I percorsi dell’identità degli ebrei nell’america contemporanea: qualche considerazione finale
What the son wishes to forget the grandson wishes to remember.
MARCUS HANSEN [1]
Nel periodo tra le due guerre, la maggioranza degli ebrei americani rifiutava l’assimilazione e manteneva in vita la struttura del “ghetto dorato” creata dai loro genitori. Questa struttura era stata il risultato di una mediazione tra i valori etno-culturali ereditati dagli immigrati e i modelli della società americana. In quel periodo mutava anche la composizione della popolazione dei sobborghi: è qui che, come conseguenza di un crescente benessere, gli ebrei di origine orientale si trasferivano. Essi, da classe quasi interamente operaia, s’erano trasformati in classe prevalentemente borghese.
La quarta generazione, dopo la seconda guerra mondiale, ha creato una rete di organizzazioni a carattere volontario [2] , reclutandone i membri proprio tra gli ebrei borghesi abitanti del ghetto dorato. Queste organizzazioni servivano, secondo i loro membri, a preservare il senso di appartenenza all’ebraismo e a porre un freno all’assimilazione; la loro esistenza infondeva negli ebrei la sensazione di essere più “protetti”. Nonostante questi tentativi, il ricordo della cultura di origine si era sbiadito, essa aveva perso parecchie caratteristiche tradizionali e lo yiddish non era più considerato un elemento distintivo di grande importanza. La comunità ebraico-americana, verso gli anni ’50, si è evoluta secondo modelli profondamente influenzati dall’olocausto e dalla costituzione dello stato di Israele, avvenuta nel 1948. Questi due avvenimenti centrali nella storia ebraica contemporanea possono essere considerati come caratteristiche salienti che distinguono il gruppo ebraico della quarta generazione da quelle precedenti. Questi due avvenimenti hanno accentuato negli ebrei l’attaccamento al proprio gruppo e aiutato a sviluppare legami più stabili sia a livello politico che sociale [3] . In particolare, la creazione di Israele ha rafforzato la convinzione negli ebrei americani che essi abbiano l’obbligo di difendere sia la loro comunità in America sia quelle sparse nel resto del mondo. Penso che il coinvolgimento emotivo nelle vicende di Israele garantisca agli ebrei la continuità del loro ebraismo. Infatti, come scrive Waxman, pur non avendo dubbi sulla propria identità come americani, molti ebrei sono convinti che la sopravvivenza e il benessere di Israele siano una “condizione imprescindibile per la sopravvivenza dell’ebraismo” (1981:83).
Prima della seconda guerra mondiale si era discusso su quanto il giudaismo e l’ebraicità fossero realmente importanti per gli ebrei americani. Solo nel dopoguerra la questione sembrava risolta: si doveva rivalutare il giudaismo e accentuare il peso che esso esercitava nella comunità ebraico-americana. Iniziava, in tal modo, il cosiddetto “revival religioso giudaico”. Il maccartismo, che imperversò nell’America della guerra fredda, fu una delle cause di questo “revival”. All’epoca della persecuzione dei comunisti, iniziata dal senatore McCarthy nei primi anni ’50, chi si fosse dichiarato ateo veniva accusato di essere comunista. Era quindi considerato necessario manifestare l’appartenenza a una religione: ciò valeva anche per gli ebrei. Così essi, in numero sempre maggiore, frequentavano le sinagoghe conservatrici, i templi riformisti, le yeshivot dove si studiavano i libri sacri. In quegli anni, per un ebreo andare in sinagoga rappresentava un modo per diventare un “americano rispettabile”. Il giudaismo, in tutte le sue branche, stava rifiorendo, anche se portava con sè i segni di un mutamento rispetto al passato.
Un evidente cambiamento nel giudaismo è rappresentato dalle “sinagoghe-centri”, la principale istituzione ebraica locale nel sobborgo, che per molti diventò il simbolo della trasformazione in un gruppo religioso americano. Come disse Marshall Sklare, gli ebrei erano diventati “una minoranza religiosa borghese su base etnica” (in Moore, 1981:237). Grazie soprattutto agli ebrei della quarta generazione, il giudaismo è entrato a pieno titolo a far parte della religione civile americana: la salvaguardia della religione e della cultura ebraiche è ritenuta obiettivo compatibile con la fedeltà agli Stati Uniti.
Ma questa fedeltà verso gli Stati Uniti venne messa a dura prova da un episodio di spionaggio avvenuto nei primi anni ’50. I coniugi Julius ed Ethel Rosenberg vennero condannati a morte nel 1951 con l’accusa di aver passato all’Unione Sovietica dei segreti relativi alla costruzione della bomba atomica. I due, entrambi comunisti, si dichiararono innocenti e, ancora oggi, pesano grossi dubbi sulla legittimità della sentenza. Il caso fu discusso a New York: il giudice, Irving Kaufman, era un personaggio di rilievo nella comunità ebraica, gli avvocati dell’accusa e quelli della difesa erano tutti ebrei, come pure i testimoni convocati. La maggior parte degli ebrei temeva che la loro comunità venisse identificata con i Rosenberg e considerata responsabile del tradimento di cui i Rosenberg erano accusati. Il giudice stesso dichiarò che avrebbe pregato per ottenere un consiglio divino prima di emettere la condanna. I Rosenberg furono condannati e la sentenza venne eseguita due anni dopo, nonostante vari appelli; il presidente Eisenhower rifiutò di concedere la grazia [4] (Gertz, 1972:280). La condanna dei Rosenberg, dovuta principalmente all’alterazione degli equilibri di potere in tempo di pace e, in qualche misura, influenzata dall’atmosfera di maccartismo e di guerra fredda, mise a dura prova la comunità ebraico-americana divisa tra colpevolisti e innocentisti. Prendere posizione sul caso Rosenberg costringeva, inevitabilmente, a manifestare il proprio patriottismo per venire accettati dalla società americana o a rinnegarlo.
Nella metà degli anni ’60 la maggioranza degli ebrei americani ha mostrato di avere una vera e propria passione per Israele. Israele è diventata un po’ come il centro dei loro pensieri e preoccupazioni, specie in periodi di belligeranza con gli arabi. Nella storia non s’era mai vista tanta gente offrire grosse somme di denaro, come avvenne in occasione della “Guerra dei sei giorni”, tra il 5 e il 10 giugno 1967. La quantità di denaro raccolta per aiutare Israele raggiunse livelli inaspettati. La Israel Emergency Fund comunicò di aver raccolto, nel periodo maggio-giugno 1967, più di cento milioni di dollari e, alla fine dell’anno 1967, l’incredibile somma di seicento milioni di dollari. Molti giovani ebrei si offrirono come volontari e si recarono in Israele per sostituire sul lavoro i coetanei impegnati al fronte [5] . In questa occasione gli ebrei furono derisi dall’opinione pubblica: essi erano accusati di essere allo stesso tempo “le colombe del Vietnam” e “i falchi del Medioriente”; non erano riusciti a formulare una teoria che armonizzasse le due posizioni contraddittorie. Gli ebrei americani reagirono istintivamente alle minacce che gravavano sull’esistenza di Israele, ma trovavano difficile conciliare questo atteggiamento con l’opinione pacifista espressa sulla questione del Vietnam. Venne trovata una soluzione che soddisfò una parte della comunità ebraica: gli Stati Uniti non avrebbero dovuto sostenere il Vietnam del Sud, governato da un regime formatosi senza un assenso popolare; la richiesta del sostegno politico americano in favore di Israele era motivata invece dal fatto che “una giovane e fragile democrazia era in lotta per la sua sopravvivenza” (Hertzberg, 1989:364-5). Ciò non significa che gli ebrei americani siano stati propensi a fare la ‘aliyah : nonostante l’attaccamento allo stato ebraico, pochissimi di loro sono effettivamente emigrati in Israele. Inoltre, non si può dire che abbiano sempre appoggiato incondizionatamente le politiche dei governi israeliani. Ad esempio, la maggioranza di essi ha manifestato avversione per la politica degli insediamenti nei Territori Occupati o per gli attacchi aerei contro le basi dei terroristi nel Libano meridionale. Ma, in nessun caso, chi dissente da alcuni aspetti della vita politica di Israele vuole essere identificato come suo oppositore tout court.
E’ indubbio che il rapporto con la religione ha sempre avuto gran peso nell’identità ebraica. Il sociologo Will Herberg, addirittura, credeva che l’etnicità si confondesse con la religione. Egli paragonava gli Stati Uniti degli anni ’60 a un triple melting pot in cui la principale distinzione tra gli individui consisteva nell’appartenenza a una delle tre maggiori religioni, protestantesimo, cattolicesimo o ebraismo. In altre parole, Herberg vedeva l’America come una nazione triconfessionale, dove le differenze religiose erano non solo tollerate ma anche incoraggiate. Perdevano, così, valore le differenze basate sull’origine etnica. Ma per i suoi avversari la teoria del triple melting pot era priva di fondamento, in quanto anche all’interno dei gruppi religiosi era dimostrata l’esistenza di molteplici distinzioni etniche. Nel caso degli ebrei, essi non potevano essere definiti solo come un gruppo religioso, ma si doveva specificare la provenienza degli immigrati da cui discendevano. Si cominciò a parlare, quindi, di “tedeschi di religione ebraica”, di “sefarditi nordafricani”, “est-europei ortodossi”. Quasi che gli ebrei avessero cessato di essere un’unica etnia fondata sulla comune religione e che avessero mantenuto le distinzioni basate sull’area geografica di provenienza. Per un certo periodo, l’espressione “gruppo etnico ebraico” cadde in disuso. Attualmente, l’importanza della religione come strumento di identificazione etnica è diminuita, in quanto essa non è considerata come una delle maggiori linee di divisione tra i gruppi. Allo stesso tempo, riprende consistenza il ruolo dell’identità etnica. Si nota, infatti, un crescente attaccamento dei gruppi etnici americani ai simboli del loro passato e un loro coinvolgimento nelle vicende del paese d’origine.
La comunità ebraico-americana ha dovuto affrontare un serio problema che non è stato ancora risolto in maniera definitiva: si tratta degli immigrati ebrei da Israele. Sembra paradossale ma, sin dalla fondazione dello stato di Israele, circa 300.000 ebrei israeliani hanno fatto la yeridah e sono immigrati in America. La metà si è stabilita a New York e quasi tutti gli altri a Los Angeles. Sono in genere europei o dell’Africa mediterranea che hanno vissuto in Israele per poco tempo e hanno trovato troppo disagevoli le condizioni di vita nel paese. Altri sono nati in Palestina e hanno cercato in America maggiori opportunità economiche, adducendo come giustificazione il pericolo delle guerre e dello stato di emergenza. Gli immigrati israeliani hanno posto gli ebrei americani in imbarazzo: i primi hanno scelto di lasciare la terra che i secondi hanno imparato a considerare come un rifugio e il centro della cultura ebraica. L’atteggiamento ambiguo verso gli yordim concretizzato nell’assenza di una loro classificazione come gruppo immigrato ebraico. Essi non hanno istituito alcuna organizzazione formale, pur mantenendo tra loro legami sociali. Molti, per non perdere definitivamente i contatti con Israele, ci tornano in visita e, a volte, partecipano alla sua difesa militare.
Si può pronosticare che parecchi ebrei non si considereranno più membri della comunità ebraico-americana e non cercheranno di vivere in un modo che li identifichi come ebrei, tanto che le caratteristiche distintive degli ebrei americani possano via via scomparire. Ma la tendenza alla sparizione riguarda più gli aspetti esteriori dell’ebraismo, cioè il vestiario, i comportamenti, la particolare pronuncia dell’inglese -ciò che Gordon ha chiamato “tratti culturali estrinseci”- e non tanto i “tratti culturali intrinseci”, ossia le tradizioni e le pratiche religiose, la letteratura e il senso di un passato comune (in Waxman, 1981:84). Penso che questi tratti intrinseci siano destinati, invece, a rimanere in vita ancora per lungo tempo. Molti ebrei non sono osservanti anzi si mostrano molto critici nei confronti della religione. Nonostante ciò, nei sondaggi, assai diffusi nell’America di oggi, alla domanda circa l’appartenenza etnica rispondono “Sono ebreo”. Anche nel caso in cui non osservano le tradizioni religiose, è abitudine ricorrente tra gli ebrei americani mostrare pubblicamente la loro appartenenza all’ebraismo ostentando stelle di Davide, menorot ,mezuzot e altri oggetti legati alla loro origine.
Un tratto caratteristico, per gli ebrei di oggi, è la separazione tra l’identificazione con la religione e la pratica religiosa. Per chiarire questo punto, è necessario fare una distinzione tra “giudaismo” ed “ebraicità”. Con il primo termine si intende la cultura ebraica tradizionale e, più precisamente, il complesso di codici cerimoniali religiosi che l’ha tramandata. L’ebraicità, invece, si riferisce al senso di identità che un individuo ha in quanto ebreo e al sentimento di identificazione con gli altri membri della comunità ebraica. Questa distinzione è diventata oggi molto importante: si può essere convinti della necessità di preservare le antiche tradizioni e i riti cerimoniali giudaici al fine di perpetuare l’ebraicità e, allo stesso tempo, manifestare un palese disinteresse all’attiva partecipazione ai servizi religiosi. L’attaccamento al senso di appartenenza etnica è riuscito solo in parte a frenare l’erosione delle basi su cui poggia l’ebraismo americano. Gli ebrei continuano a dichiararsi fieri di essere tali, ma credo che sia sempre meno probabile che la maggioranza di essi possa resistere all’assimilazione nella società americana. Nel Seicento i primi ebrei che sbarcarono in America, pur avendo scelto di recarsi nel Nuovo Mondo, riuscirono a rimanere in gran parte fedeli al giudaismo, che allora era sinonimo di ebraismo. I loro discendenti hanno lottato per inserirsi nella società americana, hanno conosciuto successi e delusioni, la loro storia è diventata parte della storia degli Stati Uniti ma, generalmente, non hanno perso il sentimento di appartenenza all’ebraismo. Al giorno d’oggi la lotta per l’integrazione è ormai terminata, ma non si è ancora trovata una definizione univoca dell’identità ebraica che possa soddisfare tutti gli ebrei americani, siano essi riformisti, laici, ortodossi, sionisti. La comunità ebraica, infatti, presenta oggi numerose tendenze che vanno in direzioni opposte e che si ostacolano a vicenda. Non si può certo sostenere che sia una comunità compatta, monolitica; ho dimostrato, infatti, che vi sono ebrei che tendono ad assimilarsi, ebrei che cercano un compromesso con la società statunitense o che cercano di isolarsi completamente dal resto della società. Ma l’elemento che è rimasto costante lungo tutta la storia degli ebrei americani consiste nel fatto che essi hanno sempre cercato di mediare tra i valori tradizionali e l’adeguamento alla nuova realtà, tra antiche usanze e nuovo stile di vita, per raggiungere un modus vivendi accettabile sia per gli ebrei che per l’America.
[1] in Dworkin & Dworkin, 1976:193.
[2] Cito qui le più importanti organizzazioni ebraiche sorte nel secondo dopoguerra. La Anti-Defamation League si occupa della lotta contro l’antisemitismo e della ricerca di una convivenza pacifica con i neri. La Breira è stata per molto tempo l’unica organizzazione ebraica a cercare di sensibilizzare gli ebrei americani sulla questione palestinese auspicando la creazione di uno stato arabo palestinese. La United Jewish Appeal si impegna soprattutto nella diffusione dell’idea che gli ebrei di tutto il mondo siano un unico “popolo”. L’aiuto della Israel Emergency Fund è stato determinante nella raccolta di denaro per sostenere Israele nei periodi di conflitto armato.
[3] L’ American Jewish Committee condusse nel 1948 un’indagine su un campione di ebrei di Baltimora per esaminare le reazioni degli ebrei americani agli avvenimenti in Palestina che culminarono con la nascita di Israele e con l’offensiva scatenata da cinque paesi arabi (Sklare & Ringer, 1966:437-450). Molti ebrei volevano dare ogni forma di aiuto (cibo, vestiario, denaro, armi), ma non avrebbero desiderato un’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco di Israele. In coloro che si identificavano maggiormente con l’ebraismo, l’intensità dell’attaccamento verso Israele tendeva a crescere ma, per questi, l’appoggio a Israele non doveva pregiudicare la lealtà dovuta agli Stati Uniti. Se la politica americana fosse stata a favore degli arabi il conflitto tra le due lealtà sarebbe emerso, eventualità che gli intervistati non desideravano. In questo caso praticamente tutti avrebbero preferito gli Stati Uniti; era qui che questi ebrei avevano messo le loro radici. Dall’indagine era emerso un piccolo gruppo di persone che non voleva dare neanche un appoggio morale a Israele; questo atteggiamento era motivato, oltre che dal timore che un tale appoggio avrebbe messo in dubbio la lealtà dovuta agli Stati Uniti, dalla considerazione che l’appoggio al nuovo stato avrebbe determinato una reazione ostile dei gentili verso Israele e anche verso gli ebrei d’America. L’opinione generale degli intervistati era che, per minimizzare le ripercussioni del conflitto, gli ebrei dovessero affermare la loro distinzione dai coloni della Palestina e limitare gli aiuti al solo denaro.
[4] Alcuni erano convinti che i Rosenberg fossero in realtà innocenti, i colpevolisti invece pensavano che i due coniugi dovessero vivere finchè si convincessero a confessare o che, per il reato di spionaggio in tempo di pace, non si dovesse ricorrere alla pena capitale. Ci si accorse in seguito che gli Stati Uniti non avrebbero potuto continuare per molto tempo a monopolizzare la costruzione di bombe atomiche e che i sovietici, in realtà, vennero aiutati in minima parte dallo spiare gli americani. Infatti, nel 1953, il presidente del Consiglio sovietico, Georgij Malenkov, annunciò al mondo che l’U.R.S.S. era ormai in possesso della bomba all’idrogeno.
[5] Si racconta come un uomo avesse detto a un funzionario della Jewish Agency di New York: “‘Non ho denaro da darvi, ma questi sono i miei figli. Vi prego, mandateli laggiù immediatamente'”. Episodi significativi come questo non erano isolati (Hertzberg, 1989:362-3).