CAPITOLO 4 – Il dibattito sull’identità ebraica
- Il concetto di identità etnica
- L’immigrazione negli Stati Uniti: politiche e ideologie
- Il dibattito sul caso ebraico
3.1. Israel Zangwill
3.2. Franz Boas
3.3. Louis Wirth
3.4. Horace Kallen
3.5. Mordecai Kaplan - Lo “yeshiva-college” e il sionismo: identità ebraica e cittadinanza americana
4.1. Il concetto di identità etnica
L’identità è generalmente intesa come un sentimento di identificazione condiviso da più individui verso una categoria predeterminata. Una religione, una lingua, una professione, uno status sociale o un partito politico sono categorie in cui ci si identifica. L’identità è rinnovarsi e sovrapporsi con altre identità, ogni individuo può scomporre la sua identità in una moltitudine di sotto-identità. In altre parole, può appartenere, o essere identificato come appartenente, a varie categorie contemporaneamente. Generalmente l’individuo può preferire alcune di queste sotto-identità creando una gerarchia, cioè riordinandole a seconda della rilevanza che attribuisce loro. Il termine “etnicità” viene generalmente definito come sentimento di identificazione personale con un insieme di costumi e tradizioni che sono caratteristiche di un gruppo etnico. Alcuni studiosi, come Abner Cohen (1974:137), hanno definito l’etnicità come una forma di interazione tra gruppi culturali che agiscono all’interno di un contesto sociale comune. Assume, in tal caso, molta importanza il grado di conformità, da parte dei membri del gruppo etnico, alle norme condivise nel corso dell’interazione sociale. Il riconoscimento di un’identità etnica che non comporti anche il riconoscimento di un’alterità contrapposta, del tipo “noi/loro” o “la mia gente è la mia gente perchè non è un’altra gente”. In pratica, l’individuo si accorge di avere attributi comuni agli altri membri del suo gruppo che lo contrappongono a coloro che non posseggono questi attributi; l’etnicità, quindi, è anche il risultato della relazione che un gruppo etnico ha con altri gruppi. L’antropologo norvegese Fredrik Barth ha messo in evidenza come un gruppo etnico sia prima di tutto una forma di organizzazione sociale in cui i membri fanno uso di alcuni tratti culturali presi dal loro passato storico o mitologico (in Roosens, 1989:12). In fondo, già Max Weber aveva mostrato di non tenere in nessun conto i rapporti di sangue tra i membri; ciò che importava, per lui, era la coscienza di condividere dei tratti fisici e/o culturali, o l’avere un passato comune di migrazioni e di colonizzazione (in Alba, 1990:16). Molti studiosi riconoscono però che non si deve esagerare nel porre attenzione al costume e alla cultura a scapito della struttura sociale. In questa direzione va il pensiero di Abner Cohen (1974:136), il quale ha proposto una diversa, e più ampia, definizione di gruppo etnico. Questo può essere considerato come una collettività di persone che hanno lo stesso comportamento [1] ed esprimono giudizi concordi sullo stesso tipo di comportamento. Allo stesso tempo, il gruppo fa parte di una popolazione più grande e interagisce con persone provenienti da altre collettività nel contesto di una società comune. Glazer e Moynihan hanno tentato di ridefinire i gruppi etnici come “gruppi di interesse”. Un gruppo etnico è caratterizzato da una identità comune, ma non è questo il suo elemento principale. I membri di un gruppo etnico -spiegano i due studiosi statunitensi- hanno degli interessi in comune, situati nell’organizzazione economica della produzione, nello scambio di beni, nel processo della divisione del lavoro e nella redistribuzione del reddito. E’ in conseguenza di ciò che il gruppo elabora dei modelli di comportamento che devono essere rispettati nella salvaguardia dell’interesse comune (Glazer & Moynihan, 1970:17-9). Nel gruppo etnico, lo stretto sistema di vincoli tra familiari e amici dà all’individuo un senso di sicurezza e protezione. Molti studiosi, tra cui Epstein (1983:179), hanno dedicato attenzione a questa dimensione dell’etnicità, non economica ma “psicosociale”, dando valore al fattore affettivo e alla coscienza di avere un passato e delle radici comuni. Il sistema di relazioni ampliato a tutti i membri del gruppo esplica una funzione coesiva nel momento del bisogno. Così la comunità si ritrova unita per soddisfare non solo i propri interessi politici ed economici, ma anche per affrontare avvenimenti straordinari, aggressioni dall’esterno, calamità naturali, disastri collettivi. Nel comportamento etnico, quindi, non si deve trascurare la componente affettiva che è tanto più potente quanto più radicata nell’inconscio. Anche se i singoli membri non sempre possono avere uguali comportamenti, sono coscienti della propria unità, sanno di essere un gruppo prodotto dalla sovrapposizione di sottogruppi e creano una comunità con una forte autocoscienza e precise caratteristiche. L’etnicità, quindi, dà voce agli interessi di gruppo, ma non solo questo: combina un interesse con un legame affettivo. Secondo Alba il sentimento di solidarietà è un’estensione del concetto di etnicità. I membri del gruppo etnico -egli spiega- interagiscono per conseguire scopi comuni, sfruttando il sentimento di solidarietà, dato da “un qualcosa in comune” che richiede una mutua cooperazione (1990:17). Simile è l’approccio di Abner Cohen: l’etnicità va considerata un fenomeno politico che comporta una lotta per il potere tra gruppi etnici impegnati a difendere i propri interessi collettivi. L’etnicità una questione di grado e le costrizioni che la consuetudine esercita sull’individuo variano da caso a caso. Partendo da questi presupposti, Cohen spiega che l’etnicità assumere vari aspetti che vanno dal semplice scambio di battute tra gruppi di cultura diversa sulla natura delle reciproche usanze fino alla violenza e allo spargimento di sangue. E’ probabile che, in una situazione plurietnica, i membri di ogni gruppo etnico sviluppino interessi che entrano in conflitto tra loro, come la classe sociale, le cui divisioni spesso coincidono con le linee di divisione etnica (Cohen A., 1974:141-3). Il già ricordato Barth, per spiegare le caratteristiche del gruppo etnico, ha fatto ricorso al paragone del “recipiente”. Il gruppo etnico è un recipiente da riempire con contenuti diversi e quantità diverse a seconda del sistema socioculturale. Qui diventa importante il mantenimento del “confine” etnico che definisce il gruppo più del materiale culturale che questo racchiude. In una comunità isolata e omogenea l’identità di gruppo non crea di solito problemi. Se, invece, delle persone emigrano in un ambiente sconosciuto ed etnicamente e culturalmente eterogeneo, dovranno rifarsi un’identità, rafforzando le distinzioni già esistenti e creando nuove forme di esclusione e separazione (Barth, 1994:39-42). Una società plurietnica è controllata da un sistema statale quasi sempre dominato da uno dei gruppi componenti, ma lascia a disposizione aree di diversità culturale in vari settori, come quello religioso o linguistico. Qualora non si ammetta che l’identità di un altro individuo o gruppo ha pari valore, questi vengono discriminati e perseguitati. Il loro senso d’identità viene negato o ridotto a “interno”, cioè che si esplica non allo scoperto, in forma ufficiale, ma custodito dentro di sè, al riparo di una ristretta cerchia di intimi. Laddove un gruppo etnico esercita un controllo delle risorse economiche a scapito di un altro gruppo, si stabilisce un rapporto di diseguaglianza. Al fine di mantenere meglio il potere, il gruppo dominante indotto a negare l’esistenza di gruppi etnicamente diversi. E’ una questione che si ripresenta nel corso della storia: se crolla un regime che aveva soffocato le identità particolari e le diversità, gli etnicismi risorgono dirompenti, come i gas vulcanici compressi da un tappo di lava. Quanto più dura è stata l’oppressione delle etnicità tanto più violenta sarà la loro reazione, e si potranno avere secessioni, guerre, massacri… E’ possibile scegliere il grado di conformazione all’identità etnica, variabile entro limiti più o meno ristretti a seconda del gruppo. A questo scopo si possono rivitalizzare forme di vita sociale, culturale e rituale o adottare simboli presi in prestito da altri gruppi. Simboli con funzione distintiva possono essere gli alimenti, l’abbigliamento, gli ornamenti, le celebrazioni rituali. Il significato attribuito a questi simboli varia da individuo a individuo, da gruppo a gruppo, e riflette la natura della società complessiva e la posizione degli individui o dei gruppi all’interno di questa. Gans prende ad esempio proprio la società americana per spiegare il suo concetto di “etnicità simbolica”. Molti americani, a causa della vasta mobilità sociale e dei numerosi matrimoni misti, non considerano più molto rilevante l’appartenenza a un dato gruppo etnico. Non abbandonano completamente il loro passato etnico ma, piuttosto, prendono alcuni elementi dell’eredità etnica e li riadattano alla nuova situazione; l’etnicità diventa, allora, sempre più personalizzata. Spesso l’aderenza di facciata può nascondere la perdita del significato più profondo delle tradizioni etniche ridotte a pratiche esteriori (in Alba, 1990:29-30). E’ certamente vero che, nonostante le previsioni dei teorici dell’assimilazione, la maggioranza degli americani mostra un crescente interesse per le origini etniche. Proprio il caso statunitense dimostra tuttavia quanto il concetto di identità etnica sia un concetto dinamico, dai confini mobili. Anche in quei gruppi etnici in cui l’attaccamento alle tradizioni appare più forte, l’identità non costituisce mai un dato fisso, predeterminato in grado di omologare tutti gli individui che a questo gruppo appartengono. Non c’è caratteristica esterna, per quanto in apparenza accentuata, capace di marcare definitivamente e irreversibilmente l’appartenenza o meno a un “gruppo etnico”, che possa automaticamente distinguere “noi” dagli “altri”. Ciò vale anche per fattori quali il territorio, la lingua o la religione che talora sembrano all’origine di radicali distinzioni. La costruzione dell’identità (etnica, culturale, sociale), per quanto possa essere determinata da fattori oggettivi, è sempre il risultato del modo in cui questi fattori vengono interiorizzati e vissuti.
[1] Per “comportamento” intendo qui le attività esplicate in vari contesti quali le parentele, il matrimonio, l’amicizia, i rituali e altri tipi di cerimoniali, che vengono definite da alcuni antropologi le “consuetudini” o semplicemente la “cultura”.
4.2.L’immigrazione negli Stati Uniti: politiche e ideologie
Essere americano non è una cosa che si eredita ma una cosa che si conquista.
PERRY MILLER
La nazionalità americana è ancora in via di formazione:i suoi processi sono misteriosi e la forma finale, se mai ce ne sarà una, non si conosce ancora.
N. GLAZER & D.P. MOYNIHAN
All’epoca della Rivoluzione gli anglo-sassoni di religione protestante costituivano il 75% della popolazione totale delle tredici colonie; i neri portati dall’Africa come schiavi erano esclusi dal computo della popolazione (Martellone, 1980:30). Verso la fine del Settecento le discriminazioni di natura religiosa più o meno esplicite erano dirette contro i cattolici e parallelamente si veniva consolidando l’egemonia W.A.S.P. Dominava il modello del cosiddetto anglo-conformity [2] che esaltava la purezza delle origini e prescriveva il modo in cui gli immigrati dovevano diventare americani: conformarsi ai modelli culturali anglo-sassoni. Lo storico Cubberly ne ha dato una chiara definizione: “Il nostro compito di … assimilare e amalgamare (gli immigrati) come parte della nostra razza americana, e instillare nei loro figli … la concezione anglo-sassone di giustizia, legge, ordine e governo popolare, e suscitare in loro il rispetto per le nostre istituzioni democratiche…” (in Gordon, 1964:98). Secondo i sostenitori dell’ anglo-conformity esisteva una certa somiglianza strutturale tra la vecchia e la nuova Inghilterra, ossia tra la madre-patria e le colonie nord-americane, per cui si doveva proteggere la continuità di valori. Di conseguenza, l’immigrazione in quella parte del nuovo continente andava limitata ai soli popoli dell’Europa nord-occidentale, i più vicini al ceppo britannico. Già a quel tempo, le colonie, divenute indipendenti, funzionavano da polo di attrazione per gli immigrati che cercavano di sfuggire dagli stati europei dove si trovavano al margine del sistema economico. Il gruppo di maggioranza si arrogava il diritto di dettare le regole dell’inserimento nella società americana. Se si fosse insegnato, secondo quanto auspicavano i teorici dell’ anglo-conformity , agli immigrati non solo la lingua inglese, ma anche i valori e i modelli di comportamento dei W.A.S.P., questi individui più difficilmente si sarebbero identificati con la minoranza d’origine e più facilmente si sarebbero integrati nella società.
Le prime restrizioni all’immigrazione furono gli Alien and Sedition Acts del 1798, in vigore solo per due anni, che vietavano l’ingresso nel paese e la concessione della cittadinanza agli immigrati sospettati di tendenze radicali; il provvedimento del Congresso era motivato dalla presenza di esuli inglesi radicali simpatizzanti della Rivoluzione Francese (Daniels, 1991:115). L’America aveva ormai perso la connotazione di luogo dove le ideologie europee avevano poca influenza, era divenuto il paese patria degli americani, non più un semplice luogo di rifugio per chi fosse insoddisfatto della società europea. Se nell’Ovest resisteva il mito dell’America accoglitrice di avventurieri e coloni, nell’Est si era formata, a partire dall’Ottocento, una classe dominante che deteneva le leve dell’economia mediante la quasi assoluta predominanza politica. Questa posizione privilegiata doveva essere difesa: forse questo è uno dei fattori alla base del “nativismo”. Chiunque, dicevano i nativisti, era libero di stabilirsi nel paese, ma doveva essere dissuaso dal tentare di “corrompere” la società costruita dai soli anglo-protestanti e non suscettibile di mutamenti, dal “contaminarla” con il contatto con valori etnici e tradizioni religiose diversi da quelli dei discendenti degli inglesi. Così si veniva a creare una gerarchia di accettazione culturale degli immigrati: i più vicini nel sistema delle parentele etniche europee, come gli irlandesi, gli scozzesi, i tedeschi, i norvegesi…, erano considerati più disponibili a conformarsi al modello degli anglo-protestanti. Era importante essere bianchi, di origine britannica e di religione protestante. Se sussistevano tutte e tre le condizioni, dopo pochi anni dall’arrivo l’immigrato poteva non essere più considerato come tale. Per i nativisti essere americano significava far parte della nuova società, delineata in maniera definitiva dai primi immigrati anglo-sassoni, e non suscettibile di cambiamenti. Per questi motivi si doveva limitare l’immigrazione, indipendentemente da fattori economici. Nacque, tra il 1830 e il 1845, una serie di “Native American Associations” in varie città americane sfociata nel “Native American Party”, avente lo scopo di limitare il suffragio ai soli americani. Il fenomeno era dovuto anche alla crisi economica del 1837 che induceva a credere che la sovrabbondanza di manodopera emigrata a basso costo non facilitasse affatto la ripresa. Si chiedeva altresì l’adozione di provvedimenti contro cattolici e stranieri in genere e, in particolare, la concessione della cittadinanza solo dopo 21 anni di residenza (Martellone, 1980:44-5). E’ prima dell’inizio delle migrazioni di massa, dal 1860 in poi, si era diffusa la convinzione che gli Stati Uniti si stessero sempre più differenziando da tutti gli altri paesi, anche dalla madre-patria, l’Inghilterra, e questa particolarità andava difesa. Ma la polemica dei nativisti venne messa a tacere nel periodo della guerra civile. Per far fronte alle necessità dell’economia di guerra e alla diminuzione di uomini atti al lavoro, nel 1864 si legalizzò l’immigrazione di lavoratori europei. Si proponeva come soluzione a questo conflitto di culture l’assimilazione dell’immigrato, cioè il renderlo un individuo “che parla, pensa e agisce come il nativo, conformarlo ai modelli culturali dominanti” (Marta, 1990:117). Se costui avesse resistito all’americanizzazione sarebbe stato tacciato di mancanza di lealtà ed escluso perchè i suoi costumi e i suoi ideali erano evidentemente troppo diversi e non permettevano l’inserimento nella società statunitense. Da parte loro, gli immigrati premevano per una più rapida integrazione, per essere considerati americani al pari degli altri, erano disposti a subire la perdita dei tratti caratteristici originari e assimilarsi [3] . L’americanizzazione, secondo questa ottica a lungo condivisa negli Stati Uniti, diventa assimilazione al sistema economico e produttivo statunitense. Nel 1922 Emory Bogardus, nel saggio “Essential of Americanization”, affermava: “Sia quelli che sono nati qui che gli stranieri devono ugualmente passare attraverso il processo di americanizzazione. Nel primo caso, l’americanizzazione consiste nell’acquisire familiarità con le migliori tradizioni americane e gli standard correnti, e nel provare a migliorarne la qualità. Per gli stranieri, invece, americanizzazione significa rinuncia al proprio sistema di valori ben noti e cari, e accoglimento di un altro sistema di valori, più o meno nuovi e sconosciuti. Rinunciare a un sistema di valori peraltro comporta un profondo e delicato riadattamento degli atteggiamenti mentali e sociali” (in Sollors, 1990:108). Robert Park, nel saggio Human Migration and the Marginal Man del 1928, sosteneva che “quando vengono rifiutate le vecchie abitudini e non si sono ancora formate quelle nuove, inevitabile un periodo di sconvolgimento interno e di intensa introspezione”. Egli si riferiva, in particolar modo, alle autobiografie degli ebrei americani, che egli definiva “versioni diverse della stessa storia” per essere il racconto delle esperienze vissute dai “marginali” (ibid.:12).
Torniamo alla metà dell’Ottocento per segnalare un importante mutamento nell’economia degli Stati Uniti: la riduzione della richiesta di manodopera qualificata e l’aumento di quella non qualificata nell’intento di conseguire un costo del lavoro più basso e di razionalizzare la produzione per renderla più efficiente. Negli stessi anni in Europa peggioravano le condizioni dell’agricoltura e s’acuiva la scarsità di risorse. Ciò favorì una nuova migrazione verso gli Stati Uniti. Tra il 1890 e il 1914 giunsero 15 milioni di immigrati, quasi tutti provenienti dall’Europa centro-orientale e mediterranea, non più dall’Europa nord-occidentale (Martellone, 1980:47). In questa epoca di grandi migrazioni di massa, l’opinione pubblica si pose il problema dell’integrazione degli immigrati e, a causa della generale prosperità economica del paese, ci si convinse che gli immigrati potessero venir assorbiti rapidamente. Ma i nativisti continuavano a temere le conseguenze dell’immigrazione.
Verso la fine del secolo cominciarono a giungere immigrati di origine asiatica -in genere cinesi- sempre più visti come dei pericolosi concorrenti per il basso salario che richiedevano. Si insisteva, basandosi sulle statistiche del mercato del lavoro, che il nuovo tipo di immigrazione rappresentasse una minaccia. Molte delle nuove etnie, si diceva, a causa della loro “inferiorità”, erano concorrenziali nel mercato del lavoro e potevano anche rappresentare una minaccia di radicalismo politico; il risultato di questo atteggiamento fu il Chinese Exclusion Act del 1882 (Maffi, 1992:100). A questo provvedimento seguirono richieste di limitare o proibire il movimento migratorio di individui con particolarità etniche più evidenti. La Literacy Test , la prima legge federale discriminatoria del 1897, impediva l’immigrazione a coloro che non sapessero leggere e scrivere almeno nella propria lingua, al fine di colpire i gruppi etnici con un grado di alfabetizzazione inferiore rispetto agli anglo-protestanti. La commissione inquirente Dillingham, costituita nel 1907, aveva il compito di formulare una linea di condotta sulla questione dell’immigrazione che sarebbe stata adottata dal Congresso e di delineare definitivamente il grado di assimilabilità dei vari popoli. L’ anglo-conformity ebbe forse la sua più piena espressione nel cosiddetto Americanization Movement che si diffuse nel paese durante la prima guerra mondiale. Questo movimento riproponeva un’assimilazione rapida consistente nel privare l’immigrato della sua cultura nativa e nel farlo americano secondo i canoni W.A.S.P. (Gordon, 1964:98-9). Nel 1924 venne approvato il Johnson/Reed Act , altrimenti chiamato National Origins Quota Act , che riduceva drasticamente l’immigrazione mediante un sistema di quote applicate ai vari paesi; con l’emendamento di questa legge nel 1929 e con la Depressione dei primi anni ’30, non si registrarono più arrivi in massa. Si era arrestata soprattutto l’immigrazione di operai asiatici non specializzati, non quella dall’Europa occidentale.
Il tema del rinnovamento è alla base del concetto di melting pot , che fa sentire ancora la sua influenza nel pantheon dei simboli della nazionalità americana penetrati nell’uso comune, anche se esiste un largo disaccordo sul significato e sulla portata ideologica dell’espressione. L’espressione, che significa letteralmente “pentola di fusione”, simbolica: indica il processo con cui gli immigrati vengono assorbiti dalla società americana e fatti americani. E’ probabile che sia stato il francese Crèvecoeur [4] l’iniziatore dell’uso del termine melting. Nelle sue Letters from an American Farmer del 1782, egli scrisse: “In America gli uomini di tutte le nazionalità si fondono in una nuova razza umana” (1962:41). Crèvecoeur, cercando di rispondere alla domanda ‘Cosa è un americano?’, affermava che l’americano fosse non un discendente di inglesi trapiantati negli Stati Uniti, ma il risultato della fusione di varie nazionalità europee che avevano abbandonato le vecchie tradizioni per adottarne di nuove. Questo individuo doveva essere considerato un uomo nuovo che, lasciandosi dietro tutti i vecchi pregiudizi e costumi, si comportava secondo nuovi princìpi, adottava nuove idee, formava nuove opinioni. L’America, con la forza derivatale da questa fusione, doveva assolvere al nobile compito di “completare il grande ciclo della civiltà umana che da oriente si muove verso occidente” (Crèvecoeur, 1962:43). L’espressione melting pot appare per la prima volta nella commedia dal titolo omonimo, scritta nel 1908 dal commediografo ebreo inglese Israel Zangwill. L’America è vista da Zangwill come un melting pot , un gigantesco pentolone, dove ribollivano e si dissolvevano le nazionalità della vecchia Europa e dove elementi disparati dell’eredità etnica degli immigrati si fondevano e concorrevano a formare una nuova nazionalità, mediante un processo di selezione e interazione dei vari gruppi: “‘L’America è il Crogiuolo di Dio, il grande Crogiuolo nel quale tutte le razze di Europa si fondono e rifoggiano … tedeschi e francesi, irlandesi e inglesi, ebrei e russi, tutti nel Crogiuolo! Iddio sta creando gli americani'” (Zangwill, 1924:316-7). Il porto di New York è paragonato all’apertura di questo immaginario pentolone dove vengono introdotti uomini di tutte le nazioni, razze e lingue, e Dio è l’alchimista che brandisce il mestolo per rimescolare gli ingredienti. Pare probabile che Zangwill attribuisse scarsa rilevanza alla volontà umana, dacchè era Dio a governare l’alchimia della fusione. Così, grazie a questa fusione, il protagonista della commedia David Quixano, da orfano del pogrom trasformato in un compositore idealista e Vera, la sua fidanzata, da rivoluzionaria russa in un’assistente sociale. E’ David che spiega la teoria del melting pot : “‘Il vero americano non è ancora giunto. E’ soltanto nel crogiuolo… esso risulterà dalla fusione di tutte le razze e sarà forse il superuomo dell’avvenire'” (Zangwill, 1924:317). Il processo di fusione è continuo, non esisterà mai, per Zangwill, un tipo fisso di americano. In questa “commedia musicale nazionale” le immagini di fusione ricorrono in diverse situazioni. Come scrive Sollors, “lo sfondo generale è fornito dalle implicazioni metallurgiche e alchemiche del crogiolo, ma anche l’amore fonde, aiutato da una “musica ben orchestrata” (1990:86). Infatti dice David: “‘Quelli che ci amano debbono soffrire, e noi dobbiamo soffrire delle loro sofferenze. Cose vive e non metalli morti sono fusi nel crogiuolo'” (Zangwill, 1924:365). La fusione nella commedia è quasi totalmente simbolizzata dal matrimonio misto; David è convinto che, sposando Vera, potrà dimenticare il suo passato e immedesimarsi nella nuova società. Il tema della “mescolanza” è simboleggiato anche dal fatto che l’atto finale si svolge il 4 luglio, festa nazionale statunitense, che cade di Shabbat , il sabato ebraico.
Zangwill non immaginava che il melting pot , in seguito, sarebbe diventato, assumendo un’accezione più vasta e generale, un importante oggetto del dibattito sull’immigrazione in America. Il suo linguaggio ebbe influenza sul dibattito intorno all’immigrazione e all’etnicità, e anche sul linguaggio di chi si dichiarava convinto che la teoria del melting pot non favorisse l’assimilazione degli immigrati. Un tema, di cui si è molto discusso, se il melting pot fosse un metodo di integrazione valido per tutti gli immigrati. Louis Wirth, per esempio, ha sottolineato che esso veniva applicato alle minoranze etniche, non alle minoranze razziali (1980:358). I W.A.S.P., secondo lui, non accettavano l’idea che i neri potessero subire questo processo di fusione. Ma, in realtà, Zangwill intendeva, attraverso il protagonista David, gettare nel calderone anche i “neri e gialli”. Zangwill scrisse nel 1914 una postfazione che è stata inserita nella traduzione italiana di tutte le sue opere teatrali pubblicata nel 1924. Nella postfazione egli chiariva che “un’istintiva antipatia” spingeva i bianchi a non mescolare il loro sangue con quello dei neri, “antipatia esistita in specie nei paesi in cui essi sono stati a contatto”.
Alla fine, le forze di attrazione tra bianchi e neri sarebbero prevalse su quelle di repulsione e il crogiolo avrebbe agito anche sui neri [5] . Zangwill adduceva, come esempio, il caso (in realtà mai avvenuto) dei pellerossa che “si sono uniti con uguale facilità sia con i loro vicini bianchi che coi neri” (1924:397). I nativisti furono ovviamente avversari del melting pot , in quanto rifiutavano l’idea che gli immigrati potessero arricchire l’America. Il melting pot poteva essere accettato solo nella misura in cui avesse accelerato l’abbandono da parte degli immigrati della loro cultura d’origine, quasi a significare una sorta di “bagno liberatore di scorie nefande del Vecchio Mondo” (Martellone, 1978:200). In realtà, le minoranze etniche hanno conservato molti aspetti delle loro eredità culturali, sebbene vi abbiano aggiunto alcuni elementi della società americana: la Little Italy non è l’esatta copia dell’Italia, bensì un quartiere creato dagli immigrati italiani che vi hanno introdotto sia elementi della cultura d’origine sia elementi dell’ american way of life [6] . Il melting pot era un ideale romantico e irrealizzabile in un paese in cui la maggioranza aveva molte possibilità di mantenere il controllo della società, mediante il dominio sulle minoranze. Esso implica l’esistenza di situazioni in realtà difficilmente riscontrabili negli Stati Uniti; si tratta della possibilità che le minoranze esercitino una tale influenza sul gruppo dominante da determinare la fusione dei gruppi, oppure che esista un gruppo dominante “benevolo” che riconosce il pari valore delle culture minoritarie. Se questo non succede, l’integrazione non avviene più un melting pot ma in un transmuting pot , in cui gli ingredienti vengono trasformati e assimilati a questo modello anglo-sassone idealizzato (Gordon, 1964:128). In altri termini, la maggioranza seleziona degli elementi della cultura dei gruppi minoritari e li rimodella secondo alcuni canoni W.A.S.P. predeterminati.
Con le restrizioni all’immigrazione del periodo della prima guerra mondiale, prese corpo la convinzione che fosse necessario fermare gli arrivi e dedicarsi a “lavorare” su coloro che già erano presenti nel paese. Questi dovevano essere educati a pensare e agire come dei buoni americani patrioti [7] . Sul piano storico, secondo l’opinione di Gleason (1980:245), contribuì a questa ridefinizione del “buon americano” la slealtà verso l’America mostrata da quegli immigrati che erano tornati in Europa per arruolarsi nell’esercito della patria d’origine e combattere nella prima guerra mondiale. Costoro non potevano essere considerati buoni americani patrioti, continua Gleason, avendo mancato di lealtà verso il paese che li aveva accolti nel momento del bisogno. Appariva, allora, destinata al fallimento la teoria del melting pot : c’erano ancora troppi immigrati che preferivano servire la patria europea e non gli Stati Uniti.
Nonostante il simbolo del melting pot avesse avuto risonanza nei dibattiti sull’immigrazione, riuscì difficile trarre dal simbolo stesso una teoria valida per ogni situazione. Sembrava più opportuno limitarsi al significato metaforico della locuzione e utilizzarlo per illustrare le opinioni sull’integrazione degli immigrati. Il fatto che una metafora molto chiara, come il melting pot , venisse adottata per discutere un argomento complesso e delicato, come la questione dell’integrazione degli immigrati nella società americana, contribuiva a generare confusione e a deviare il discorso. In questo contesto si inserisce la discussione sul pluralismo culturale, che ha avuto molta rilevanza nei dibattiti sull’assorbimento degli immigrati in America. Nel 1915 apparve sul giornale The Nation un articolo intitolato Democracy versus the Melting Pot , destinato a diventare celebre. L’autore, Horace Kallen, era un filosofo liberale ebreo americano di origine tedesca schieratosi contro l’assimilazione dell’immigrato. Nell’articolo egli sfidava la vecchia America e il modo con cui veniva teorizzato il processo di americanizzazione: “Chi aveva elaborato la dichiarazione d’indipendenza americana e la costituzione degli Stati Uniti -scriveva Kallen- non aveva affrontato il problema delle differenze etniche che esistevano tra i bianchi del paese … e ora i loro discendenti si trovano ad affrontarla” (in Hertzberg, 1993:213). In seguito, nel 1924, lo stesso anno della definitiva approvazione del National Origins Quota Act , Kallen pubblicò un’opera dal titolo Culture and Democracy in the United States contenente, tra altri, il saggio del 1915. Nell’introduzione a questo lavoro egli usa per primo l’espressione “pluralismo culturale” per illustrare la sua posizione; egli ne enfatizzava il ruolo di “antidoto democratico” alle paure e agli errori della società americana (Gordon, 1964:144). Gli americani di un certo livello intellettuale ammettevano, secondo Kallen, che la cultura americana fosse arricchita e sviluppata non dal soffocamento di tutte le forme culturali in un calderone (questa era essenzialmente la sua critica al melting pot di Zangwill, assieme alla convinzione che il crogiolo negasse ai gruppi etnici il diritto all’esistenza), ma dall’apporto del meglio di ogni gruppo, quindi anche di quello ebraico, alla formazione dei valori culturali americani. Si doveva riconoscere all’America il suo contributo prezioso alla civiltà mediante l’unione di vari gruppi culturali, aventi in comune l’attaccamento alle tradizioni e agli ideali propri degli Stati Uniti. Infatti l’America era il risultato dei gruppi etnici giuntivi man mano, i quali avevano il diritto a vedere rispettate le proprie tradizioni originarie, l'”eredità psico-fisica”, come diceva Kallen, per non cessare d’esistere. Ogni americano non poteva cambiare le proprie origini ed eredità culturali, non poteva perdere la sua identità etnica. La democrazia doveva dare la possibilità ad ogni americano di disseppellire le proprie tradizioni etniche e di diffonderne la conoscenza presso gli altri americani. Il tipo di democrazia garantito dalla Costituzione statunitense era alla base di questa struttura sociale inedita composta da civiltà diverse, interagenti all’interno di una collettività democratica. L’imbarcazione sulla quale i padri pellegrini giunsero in America si chiamava Mayflower , ma le navi degli immigrati dovevano chiamarsi Maiblume ,Fleur du mai ,Fior di maggio ,Majblomst .., ogni immigrato aveva il dovere di conservare la cultura di origine (Sollors, 1992:224). Kallen vedeva con favore un’America che fosse una federazione di nazionalità diverse o, meglio, di culture nazionali che usassero l’inglese solo nei rapporti tra di loro. In definitiva, il vero americanismo, per realizzare le sue aspirazioni democratiche, avrebbe dovuto conservare e incoraggiare le differenze etniche e non fonderle. I W.A.S.P., secondo Kallen, sarebbero stati messi in condizione di non poter più pensare che loro fossero i “veri americani”, solo perchè i loro antenati erano giunti per primi in America. I fautori dell’etnicità in America hanno spesso ripreso la famosa e retorica frase di Kallen: “Gli uomini possono più o meno cambiare abiti, opinioni politiche, moglie, religione, filosofia, ma non possono cambiare nonno” (in Sollors, 1990:187). Qui il nonno simboleggia il passato, l’origine, la moglie, invece, rappresenta il nuovo paese e le nuove abitudini [8] .
Esiste una differenza, teorizza Gordon (1964:70-1), tra pluralismo culturale e pluralismo strutturale. Il primo tipo di pluralismo si ha quando la minoranza, pur resasi simile alla maggioranza in molti aspetti, ha trattenuto elementi della propria cultura distintiva. Il secondo tipo definisce la situazione in cui la minoranza conserva le proprie strutture sociali e le proprie istituzioni politiche, condividendo con la maggioranza altre strutture e istituzioni. Il concetto di pluralismo può essere utilizzato in una trattazione sui rapporti intercorrenti tra gruppo di maggioranza e gruppo di minoranza. Per pluralismo, in questo caso, si può intendere l’esistenza di una minoranza come unità distinta all’interno di una società. A volte, il gruppo definito “maggioranza” detiene il potere e il dominio su un gruppo numericamente più consistente. La minoranza dovrebbe adottare certi aspetti della cultura del gruppo dominante e della società in generale, come anche delle istituzioni comuni. Il gruppo di maggioranza, invece, dovrebbe riconoscere alcuni tratti culturali della minoranza, adatti a organizzare e sviluppare la solidarietà dei membri della minoranza e la loro unità negli obiettivi, come ad esempio le tradizioni religiose. La minoranza deve tendere al miglioramento della sua posizione con i mezzi legali, politici ed economici a sua disposizione, rafforzando anche l’unità del gruppo. Si manifesta una contraddizione nell’ideologia del pluralismo culturale: allo scopo di rivendicare la diversità di un gruppo etnico, ogni membro dovrebbe conformarsi culturalmente con gli altri membri del suo gruppo. Paradossalmente si negherebbe il diritto del membro ad essere diverso da coloro che hanno le sue stesse origini e con i quali condivide gli stessi elementi culturali; in pratica, gli italiani dovrebbero fare gli italiani, gli ebrei fare gli ebrei. In nome della diversità, l’etnicità pretende che tutti gli individui, gruppo per gruppo, siano uguali tra di loro, mangino e parlino tutti nello stesso modo. Ma, in realtà, l’individuo sceglie, tra tutte le possibili combinazioni, l’etnicità su misura per lui, quella che meglio rappresenta la sua individualità e i suoi desideri. Nel 1944, ritornando sul significato di “spirito nazionale costituito dall’unione delle differenze”, ossia l’americanismo, Kallen lo paragonò a un’orchestra in cui gli strumenti erano le differenze etniche, religiose e regionali (in Gordon, 1964:147). Kallen così scriveva: “Come in un’orchestra ogni tipo di strumento ha un proprio timbro e una propria tonalità, che derivano dalla sua sostanza e dalla sua forma, come ogni tipo, nella sinfonia complessiva, ha il proprio tema e la propria melodia, così nella società (americana) ciascun gruppo etnico può diventare uno strumento naturale, il suo carattere e la sua cultura possono essere il suo tema e la sua melodia, e le armonie e le dissonanze che si creano fra loro costituiscono la sinfonia della civiltà” (in Marta, 1990:103-4).
Negli Stati Uniti, dopo la seconda guerra mondiale si dette impulso al dibattito sulle minoranze e sul ruolo che esse potevano avere nella società. Tra gli studiosi più interessati a questo dibattito c’era Louis Wirth, sociologo ebreo dell’università di Chicago, che scrisse nel 1945 un articolo, The Problem of Minority Groups , in cui poneva i gruppi minoritari al centro delle sue ricerche. “Possiamo definire minoranza -scriveva Wirth nell’articolo- un gruppo di popolazione che, a causa delle sue caratteristiche fisiche o culturali, si distingue dagli altri all’interno della società in cui vive per il trattamento differenziato e diseguale cui è sottoposto e, che per questa ragione, considera sè stesso oggetto di discriminazione collettiva. L’esistenza nella società di una minoranza implica l’esistenza di un corrispondente gruppo dominante che gode di un migliore status sociale e di maggiori privilegi. Dalla condizione di minoranza deriva l’esclusione dalla piena partecipazione alla vita della società” (Wirth, 1980:347). La definizione di Wirth attribuisce però troppa rilevanza alla “coscienza di appartenenza” a una minoranza discriminata. Infatti, “l’autopercezione che un gruppo di individui ha delle discriminazioni che subisce non può costituire il criterio decisivo per distinguere le minoranze da altri gruppi discriminati” (Marta, 1992:99). Wirth propose nel suo articolo un “ciclo di vita di una minoranza”, una costruzione teorica, più che una descrizione di un gruppo realmente esistente. Lo scopo iniziale di una minoranza, allorchè diventa cosciente della propria identità, è la ricerca della tolleranza verso le proprie differenze culturali. La minoranza, divenuta “pluralista”, cerca di assimilarsi per essere accettata e incorporata nella maggioranza. Ma se il gruppo dominante si rifiuta di concedere alla minoranza la piena partecipazione nella società, quest’ultima può tentare di separarsi dal gruppo dominante o di incorporarsi in un altro gruppo con cui esistono legami culturali o storici più stretti. Se quest’ultimo scopo raggiunto, il gruppo in oggetto perde il carattere distintivo di minoranza (Wirth, 1980:109).
La classificazione dei gruppi minoritari secondo i loro obiettivi è stata ripresa da Simpson e Yinger (1953:17-19), che hanno in tal modo ampliato la teoria di Wirth. Il primo obiettivo è il pluralismo, la preservazione dell’identità e cultura minoritarie considerate uguali a quelle della maggioranza; si presume che la minoranza desideri una coabitazione pacifica con la maggioranza e con le altre minoranze e che ci sia tolleranza verso le differenze esistenti tra i vari gruppi. Lo scopo della minoranza pluralista è raggiunto quando essa riesce a ottenere dalla maggioranza la maggior eguaglianza possibile nelle questioni politiche e il diritto ad essere indipendente nelle questioni culturali. Il secondo obiettivo prende il nome di assimilazione, la perdita dell’identità come gruppo distinto e la mescolanza con il gruppo maggioritario. Le differenze etniche esistenti tra la minoranza e il gruppo dominante non sono necessariamente un ostacolo all’assimilazione, dal momento che i tratti culturali di un gruppo sono visti come compatibili con quelli dell’altro. Il terzo obiettivo è la secessione, l’indipendenza politica e culturale dalla maggioranza che si manifesta in genere come reazione alla soppressione della diversità. Il quarto obiettivo è la supremazia politica con cui la minoranza impone (spesso militarmente) il dominio sulla maggioranza e sulle altre minoranze; la minoranza è convinta della propria superiorità e aspira alla conquista di posizioni di potere.
Solo due alternative, secondo Wagley e Harris, sembrano essere più consone ai gruppi minoritari in America: il pluralismo e l’assimilazione; essi sono due possibili alternative per l’integrazione di un gruppo di minoranza in uno di maggioranza (1958:293-5). Il pluralismo indica una situazione in cui dei gruppi differenti coesistono nello stesso territorio e sono sottoposti allo stesso sistema politico, mantenendo una separazione definita da Gordon “strutturale”. Tra questi gruppi si crea un vincolo di solidarietà, rappresentato da uno o più elementi culturali in comune che li mettano in grado di affrontare la coabitazione (ad esempio la lingua, la razza, la religione, gli usi). Ma questi elementi culturali potranno rappresentare anche le differenze che distinguono l’uno dall’altro i gruppi coesistenti nella stessa società. La società pluralista potrà dare al gruppo minoritario la possibilità di mantenere quei tratti culturali in cui esso differisce dalla maggioranza.
Nonostante alcune aperture come l’abrogazione nel 1943 del Chinese Exclusion Act (forse come ricompensa per il sostegno della Cina contro il Giappone nella seconda guerra mondiale), la situazione in materia di immigrazione nel secondo dopoguerra non cambiò molto. Erano i rifugiati politici e gli apolidi, per merito di vari emendamenti alle leggi sulle immigrazioni, ad avere la preferenza nel venir accettati nel paese. Il sistema delle quote venne reso ancora più restrittivo dall’ Immigration and Naturalization Act del 1952 di McCarran e Walter. Con esso si provvedeva a un leggero allentamento delle restrizioni riguardo alla razza, ma si dava facoltà alle autorità di deportare i simpatizzanti e i militanti di organizzazioni ritenute contrarie all’ordine pubblico (Martellone, 1980:65-6). Nel 1953, per iniziativa del presidente Eisenhower, il Congresso approvò il Refugee Relief Act con cui si concedeva la possibilità ai rifugiati dai paesi comunisti di aggirare il sistema delle quote (Reimers, 1981:3). Soltanto nel 1965, con l’ Immigration Act , il fattore razziale, nazionale o etnico non ebbe più alcuna influenza nei criteri di selezione degli immigrati. Questa legge venne affiancata, nello stesso anno, dalla Voting Rights Act , che si proponeva di eliminare le discriminazioni razziali ed etniche dagli impieghi, dal voto, dall’istruzione.
Dagli anni ’50 in poi prendono corpo negli Stati Uniti le politiche incentrate sulla affirmative action . La affirmative action consiste nel conferire vantaggi speciali a individui in virtù della loro appartenenza a un gruppo minoritario. Si tratta, come dice Sigler, di “una moderna espansione dei diritti minoritari”, a beneficio di persone svantaggiate, cui vengono destinati programmi che prevedono assunzioni e ammissioni all’istruzione fatti in forma preferenziale; lo scopo di eliminare le barriere che inibiscono il progresso sociale dei membri dei gruppi minoritari (1983:133). Negli Stati Uniti questa strategia è stata utilizzata principalmente a vantaggio dei neri, cui da sempre è stato negato l’accesso alle professioni qualificate. In molti casi, questo tipo di politica può generare forme di reverse discrimination (discriminazione al rovescio) in cui, come sottolinea Waters, i membri della maggioranza non possono accedere a posti di lavoro ed essere ammessi a scuole professionali per lasciare il posto ai membri delle minoranze (1990:161). Secondo Sigler la reverse discrimination finirebbe così per minare alla base gli stessi ideali cui essa si ispira: giustizia, eguaglianza legale, diritto alla cittadinanza (1983:134). Ormai i provvedimenti anti-discriminazione fanno parte del sistema sociale degli Stati Uniti. Queste misure, anche per le polemiche che ne sono seguite, finiscono per puntare più all’eliminazione delle barriere discriminatorie che non alla creazione di condizioni favorevoli all’integrazione dei gruppi minoritari. La garanzia di un’eguale protezione -fa notare Powell- non può significare una cosa se applicata a una persona e un’altra cosa se applicata a una persona di colore diverso. Quindi l’azione dei governanti dovrebbe accordare ad entrambi la stessa protezione. Per Powell i programmi che tendono ad avvantaggiare i membri di una minoranza sono “sospetti”, così come sospetti sono i programmi con effetti discriminatori. Se una politica anti-discriminatoria non concede qualcosa di più che una mera eguaglianza legale, è insufficiente. La affirmative action resta comunque, secondo Powell, la sola strada per compiere un maggior numero di passi avanti verso l’eguaglianza di fatto (in Sigler, 1983:135-7).
Una delle caratteristiche della società americana di questi ultimi anni è la comparsa di un fenomeno definito da Yinger dissimilazione : un processo che tende alla riaffermazione e al mantenimento delle differenze tra i “sotto-gruppi di una stessa società e alla legittimazione della divisione della società in sottosistemi con culture e identità distinte” (Yinger, 1981:257). L’assimilazione e la dissimilazione sono due modelli antitetici di integrazione. Il primo riduce le diversità tra i gruppi e tenta di assicurare maggiore eguaglianza e libertà individuale; il secondo cerca di porre rimedio alla crisi di identità tipica della società contemporanea e per opporsi alle politiche di conformazione ai modelli dominanti (ibid.:260).
La politica perseguita dalla Corte Suprema negli anni ’70, riguardo alla scuola e alla discriminazione razziale, va verso la “desegregazione”, non verso l’integrazione. Non esiste un obbligo costituzionale che promuova l’eterogeneità delle razze nelle scuole, nei circoli di ricreazione, sul lavoro, nelle case. Così la Corte Suprema ha precisato che lo stato può non chiudere una scuola per evitare la desegregazione, ma può e deve chiudere le piscine e i cortili di gioco annessi alla scuola dove non venga evitata la desegregazione. Se il Congresso e la Corte Suprema adottassero una linea di condotta favorevole all’integrazione, creerebbero leggi che in sostanza sarebbero discriminatorie verso altri gruppi, diversi da quelli cui esse sono indirizzate [9] . La Corte ha sempre affermato che in America, nazione prevalentemente protestante, non c’è una religione di stato. Come conseguenza, i cattolici, gli ebrei e i musulmani non acquistano diritti in virtù della loro appartenenza a un gruppo religioso. La Corte ha insistito sulla necessità di mantenere la neutralità del governo sull’argomento “gruppi religiosi”. Ancora adesso ebrei, protestanti e cattolici differiscono in molti aspetti nel loro atteggiamento verso la società statunitense ma la discriminazione religiosa negli Stati Uniti non è diventata un problema grave come in altri paesi. Per proteggere le minoranze religiose e gli atei, si è ricorso, quindi, all’affermazione della neutralità dello stato in materia. Le scuole pubbliche non possono insegnare la religione e festeggiare le ricorrenze religiose per prevenire il pericolo che, mediante il sistema di istruzione pubblica, la classe dominante possa divulgare le sue credenze religiose o offendere quelle degli altri americani.
4.3. Il dibattito sul caso ebraico
‘Would you tell me, please, which way I ought to go from here?’ -asked Alice That depends a good deal on where you want to get to’ -said the Cat. LEWIS CARROLL – Alice in Wonderland [10]
4.3.1. Israel Zangwill
Pur non essendo americano, il commediografo ebreo Israel Zangwill si inserisce nel dibattito sull’assimilazione degli ebrei americani, in quanto scrisse una commedia il cui tema era l’assorbimento degli ebrei nella società americana. Zangwill nacque nel 1864 a Londra da immigrati molto poveri di origine russa. Egli cominciò la sua carriera letteraria scrivendo numerose commedie teatrali e vari romanzi. In due dei suoi romanzi, Children of the Ghetto del 1892 e Dreamers of the Ghetto del 1898, descrive nostalgicamente il ghetto ed esalta la funzione che esso aveva avuto nel preservare le caratteristiche distintive del giudaismo, pur proclamandosi, allo stesso tempo, un assimilazionista. Alla fine dell’Ottocento il movimento territorialista, che rappresentava il nucleo originario del sionismo di Theodor Herzl, era ancora alla ricerca di una terra non simbolica ma reale, dove fondare uno stato ebraico. Erano gli anni in cui si discuteva se creare lo stato di Israele in Australia o in Uganda, “regioni che si troverebbero arricchite e consolidate dall’organizzazione di una grande colonia ebraica…” (Zangwill, 1911:305). Zangwill propendeva per questa versione del sionismo, infatti era più interessato alla nazionalità ebraica che alla terra degli ebrei. Abbandonò il sionismo herzliano quando i sionisti nel 1905 (al settimo congresso sionista di Basilea, il primo tenutosi dopo la morte di Herzl) rigettarono la proposta di creare lo stato di Israele in Uganda. La decisione si basava principalmente sul rapporto di una commissione indagatrice che aveva espresso parere negativo sull’Uganda: le condizioni del luogo rendevano il paese inadatto a un’immigrazione di massa dall’Europa. Ritiratosi dal Congresso Sionista, Zangwill fondò la Jewish Territorial Organization , finalizzata alla creazione di uno stato ebraico in un territorio che non fosse necessariamente la Palestina. Si dedicò a questo progetto con zelo ed energia, chiedendo l’aiuto finanziario di lord Rothschild e del filantropo americano Jacob Schiff, il capo degli ebrei tedeschi d’America. L’unico risultato concreto fu la colonizzazione ebraica di una zona remota del Texas prima della grande guerra.
Nel 1908 Zangwill, pur non essendosi mai recato negli Stati Uniti, scrisse un dramma, The Melting Pot . L’opera, in quattro atti, venne rappresentata per la prima volta a Washington e, in seguito, anche in altre città statunitensi. L’autore raccontò a un giornalista del New York Times che l’idea gli era venuta improvvisa nel 1905, come una rivelazione: “Una notte ho chiuso gli occhi; e lì, davanti a me, in un solo, chiarissimo flash, ho visto tutta la commedia, così come sarebbe stata sulla scena” (in Sollors, 1990:83). Il protagonista è David Quixano, un compositore ebreo di origine russa che vive in America con lo zio Mendel e Frau Quixano, la vecchia nonna, i suoi unici parenti sopravvissuti al pogrom di Kisinëv [11] . La loro vita a New York quella tipica di tanti immigrati est-europei, alle prese con molte difficoltà. David, per esempio, si vede costretto a lavorare il sabato per guadagnarsi il pane, nonostante che la nonna non sia d’accordo; lei, per questo motivo, piange sempre alla vigilia dello Shabbat. Nonostante queste difficoltà, David declama gli elogi dell’America, in una maniera quasi profetica ed esaltata. Ad essa dedica una sinfonia, la cui musica richiama il crogiolo di razze ed etnie diverse che si fondono per formare un’armonia. Zangwill -che aveva sposato una scrittrice non ebrea- sembra immedesimarsi nel suo personaggio quando questi decide di sposare Vera, una russa cristiana, nonostante le resistenze dello zio Mendel che esorta David a non sposare Vera per non tradire le origini e per non dare un grande dolore alla nonna. Così facendo, lo zio lo ammonisce: “‘(La vecchia Frau Quixano) porterebbe il lutto per te; si strapperebbe le vesti e rimarrebbe sette giorni per terra [12] . Tu hai dimenticato il Dio dei nostri padri!'” (Zangwill, 1924:344). Ma David scopre che Vera è figlia del generale russo esecutore del pogrom di Kisinëv in cui avevano trovato la morte i suoi familiari e, disperato, si allontana dalla ragazza: “‘Persino il Crogiuolo non può fondere quest’odio, asciugare questo sangue'” (ibid.:381). Il passato sembra difficile da dimenticare ma, sorretti dalla fede nel crogiolo, i due si riavvicinano e coronano il loro sogno d’amore: “‘Dal sangue dei campi di battaglia sbocciano margherite e primule'” (ibid.:382). Il dramma ebbe un successo clamoroso: rappresentato in vari teatri degli Stati Uniti, recitato nelle università, ristampato continuamente, citato da uomini politici e candidati alla Presidenza; a Boston fu persino fondato un Circolo del crogiuolo . Il presidente Theodore Roosevelt ebbe a dire: “‘Non so quando ho visto una commedia che mi abbia eccitato tanto'” (in Shapiro, 1992:156) [13] . Il successo del dramma di Zangwill può venir spiegato con il fatto che in esso era resa accessibile a un vasto pubblico la situazione degli immigrati che, proprio in quegli anni, sbarcavano a milioni negli Stati Uniti. La commedia, come scrisse Jane Addams, “rende un grande servigio all’America, col ricordarci le alte speranze dei fondatori della Repubblica” (in Zangwill, 1924:403). Non mancarono, tuttavia, critiche negative tese a sottolineare quanto poco rappresentative della realtà americana fossero le vicende di David e Vera. Conciso il giudizio di Glazer e Moynihan, per i quali si tratta di una commedia “piuttosto scadente” (1970:289).
Il matrimonio misto doveva servire, nelle intenzioni di Zangwill, a cancellare le più vistose differenze tra gli ebrei e i non ebrei di ostacolo all’assimilazione. Questa idea fece infuriare parecchi rabbini che la consideravano un incitamento alla dissoluzione del gruppo etnico per risolvere il problema ebraico (Hertzberg, 1993:211). In realtà, da un certo punto di vista, la teoria del crogiolo poteva essere accolta favorevolmente dagli ebrei americani. Una società intesa come melting pot avrebbe reso meno arduo il compito per i nuovi immigrati di competere con la maggioranza W.A.S.P. e di garantirsi uno spazio per affermarsi nella nuova realtà. Zangwill non credeva che una forte identità ebraica si potesse conciliare con una forte identità americana ed era convinto che l’assimilazione degli ebrei americani fosse inevitabile, nonostante i rallentamenti provocati dalle continue immigrazioni dall’Europa e dall’antisemitismo. In definitiva, Zangwill pronosticava l’estinzione culturale e religiosa degli ebrei d’America. Con il passar degli anni, Zangwill sembrò abbandonare l’idea di “fusione delle etnie”. Nel 1916 non condivideva più quell’universalismo dell’apostolo Paolo cui molto si era ispirato: “Che Paolo abbia detto che non ci devono essere nè ebrei nè greci è stato del tutto inutile. La natura tornerà sempre, anche se cacciata con il forcone, e ancor di più se cacciata con un dogma” (in Sollors, 1990:104).
Intanto era tornato a riflettere sul sionismo. Nell’articolo La race juive , scritto in occasione del primo Congresso Universale delle Razze tenutosi a Londra nel 1911, Zangwill si mostrava convinto che non ci si dovesse meravigliare che, con la morte di Herzl, il sionismo fosse ritornato ad essere un semplice movimento culturale che sacrificava l’ideale di azione pratica. Il sionismo, invece di mettere fine all’esilio, si limitava a unificare gli ebrei della diaspora per mezzo della lingua ebraica e del sentimento nazionale. Zangwill auspicava una rinascita religiosa: la “razza” (è questo il termine che usa Zangwill) da sola non poteva sopravvivere alle pressioni di tanti ambienti circostanti ostili. Nella relazione al Congresso di Londra, Zangwill scrive che la dissoluzione del gruppo ebraico è cominciata sempre dall’alto, le classi superiori, “i migliori e i più forti di Israele”, assorbite dall’ambiente circostante, avevano lasciato le classi inferiori prive delle difese naturali di un popolo. Se l’emancipazione doveva causare la dissoluzione e, di conseguenza, l'”imbastardimento”, la sola via d’uscita a questo dilemma sarebbe stata la creazione di uno stato ebraico o, almeno, di un territorio in cui gli ebrei potessero rifugiarsi. Un territorio autonomo, per Zangwill, doveva essere una sorta di super-ghetto, con lo yiddish -ritenuto il vero depositario della cultura ebraica- adottato come lingua ufficiale, in cui conservare gli aspetti ritenuti migliori del ghetto europeo (non sono specificati quali siano), Qui Zangwill non sembra condividere le idee di Ahad ha-‘Am, il fondatore del sionismo culturale, per il quale era necessario un vero e proprio processo di rinascita spirituale.
Con la Dichiarazione Balfour del 1917 (con cui gli inglesi si impegnavano formalmente a non ostacolare l’insediamento ebraico in Palestina, divenuta protettorato britannico dopo la disfatta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale, e riconoscevano l’ebraico quale lingua ufficiale assieme all’inglese e all’arabo), Zangwill ritornò temporaneamente al sionismo ufficiale, cioè alla sua versione politica enunciata da Herzl, secondo cui solo la Palestina poteva essere considerata la vera Terra di Israele. Seguì un periodo di disillusione, dovuta all’opposizione delle popolazioni arabe (che portò ai tumulti contro gli ebrei avvenuti a Jaffa nel 1909 e a Hebron nel 1929), in seguito al quale Zangwill tornò alla convinzione che lo stato da erigere dovesse trovarsi fuori la Palestina. Anche se, contraddittoriamente, affermava che la Palestina popolata da ebrei avrebbe favorito “la pace nel mondo, stabilendo nel cuore del Vecchio Mondo un ponte di civilizzazione tra l’Oriente e l’Occidente, e sarebbe stata un simbolo di speranza per l’avvenire dell’Umanità” (Zangwill, 1911:305).
Zangwill stesso si descriveva come “uomo di violenti contrasti” e mantenne questo atteggiamento fino all’ultimo. In un articolo pubblicato pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1926, dal titolo The Next Religion [14] , sferrò un violento attacco al giudaismo, ritenuto una fede non adatta all’uomo moderno. La “religione del futuro” doveva essere la fusione dei migliori elementi delle religioni ebraica, cristiana e pagana (Fisch, 1972:932). Questo concetto era già stato accennato in The Melting Pot , ma nell’articolo assumeva chiaramente il carattere di antitesi all’ideale del sionismo territorialista, di cui Zangwill era stato uno dei principali promotori in Europa. Tuttavia il contenuto di questo articolo non può essere interpretato come un ritorno al tema della fusione, ciò che era stato al centro di The Melting Pot . Qui la fusione si riferisce ai gruppi etnici, mentre in The Next Religion sono le religioni, non le etnie, che concorrono a formare una fede sincretica giudicata più consona alle esigenze dell’uomo moderno.Risalta, allora, come la principale contraddizione di Zangwill stesse forse nel non aver saputo conciliare le idee assimilazioniste con quelle sioniste.
4.3.2. Franz Boas
Franz Boas [15] è considerato da molti la figura di maggiore spicco dell’antropologia statunitense per aver delineato le basi su cui poggiano le metodologie di ricerca dell’antropologia moderna. Egli documentò rigorosamente le tradizioni etniche, i miti e le credenze religiose di popoli e culture diversi. Boas, nelle sue teorie sull’assimilazione, era profondamente influenzato dalla cultura ebraico-tedesca di cui era un rappresentante, pur non avendo mai attribuito molto valore all’identità culturale ebraica. Per molti aspetti fu un tipico rappresentante di quell’ebraismo tedesco che aveva abbandonato la lotta per un’identità ebraica integrata con la nazionalità tedesca, preferendo assimilarsi col resto della popolazione tedesca. Ma Boas non era d’accordo con gli ebrei tedeschi che, avendo rinunciato alla lotta, si erano convertiti al cristianesimo. Per conciliare il desiderio di assimilazione con la volontà di conservare l’identità ebraica, Boas aveva elaborato una filosofia personale composta da razionalismo, relativismo culturale e umanesimo etico. Si definiva come “un universalista illuminato che trascendeva sia il provincialismo etnico sia la religione soprannaturale” (Glick, 1982:546).
La formazione intellettuale di Boas avvenne in un periodo di rinascita del sentimento nazionalista in Germania. Il Volk andava molto di moda nella seconda metà dell’Ottocento; introdotto da Herder nella filosofia politica tedesca, il termine presentava due connotazioni: identità genetica e tradizioni culturali (ibid.:548-9). I tedeschi erano un singolo Volk : un gruppo razziale distinto dagli altri, unito dai legami di sangue e da una storia comune. Gli intellettuali tedeschi liberali erano convinti che gli ebrei sarebbero stati considerati parte del Volk tedesco se avessero accettato di abbandonare completamente le loro caratteristiche sociali, religiose e culturali. Andavano tralasciate -dicevano- molte peculiarità quali l’attaccamento al giudaismo come religione del “popolo eletto”, l’aspirazione al ritorno nell’antica patria perduta, l’avversione verso l’esogamia, la predilezione per certe occupazioni come il commercio e il giornalismo. Si credeva che sarebbero divenuti in tal modo tedeschi, cessando di essere ebrei.
Sembrava più accettabile per la maggioranza dei tedeschi l’ideologia antiebraica caratterizzata da un antisemitismo razziale e culturale diffusasi durante la crisi economica che si era ripercossa in Germania dal 1873 al 1879 (ibid.:549). Il nucleo di questa ideologia era un rapporto permanente e indissolubile tra i tre fondamentali elementi dell’identità tedesca: razza, territorio e cultura. Uno dei più attivi nella propaganda dell’ideologia fu Stocker; egli dichiarava che gli ebrei non potevano e non dovevano divenire parte integrante della nazione tedesca, per impedire loro di “introdurre il carattere semitico nella natura teutonica”. Treitschke, un altro rappresentante di rilievo, affermava invece che gli ebrei nativi della Germania potessero “assimilarsi e diventare buoni tedeschi, a patto di avere un atteggiamento mentale e una determinazione appropriati” (in Glick, 1982:550-1).
Gli ebrei non desideravano altro che la piena cittadinanza del paese nativo, non aspiravano ad altre nazionalità o patrie. Il loro giudaismo era solo una “persuasione religiosa”, un sistema di etica e moralità basato sulle dottrine mosaiche, che non aveva nulla a che fare con la nazionalità e che non comprometteva minimamente la loro lealtà di cittadini. Alcuni ebrei semplicemente abbandonarono gli sforzi e si convertirono o seppellirono la propria identità di ebrei il più profondamente possibile. La maggioranza degli ebrei, invece, vedeva con favore la fondazione di organizzazioni il cui scopo fosse la rivendicazione del diritto all’identità ebraica senza soffrire l’ostracismo dei tedeschi cristiani. Quando Boas frequentava l’università a Berlino, l’ideologia del Volk era tanto pervadente nella società tedesca che gli studenti ebrei si videro costretti a sviluppare delle strategie difensive. In queste condizioni, nel 1884 Boas lasciò la Germania per andare negli Stati Uniti. Nel 1888, a trent’anni d’età, scelse la residenza definitiva in questo paese, ma è solamente verso i cinquant’anni che cominciò a considerarsi definitivamente assimilato.
Nell’intervallo di tempo tra le due guerre mondiali era semplice sentirsi leali alla Germania che viveva il periodo liberale della Repubblica di Weimar . Fatti preoccupanti -come l’alta adesione popolare al nazionalsocialismo manifestata nelle elezioni al Reichstag del 1933, in cui il partito di Hitler raggiunse la maggioranza relativa- venivano considerati come aberrazioni passeggere. Fu questo l’atteggiamento condiviso anche da Boas. Egli, negli anni precedenti l’ascesa del nazismo, si era sempre mostrato fiero della sua nuova identità di tedesco-americano, essendo pronto a difendere la patria d’origine, anche a costo di rovinarsi la carriera. Ma negli anni della seconda guerra mondiale egli intensificò gli sforzi per mettere in guardia dal pericolo del razzismo e cercò di soccorrere personalmente molti intellettuali che cercavano rifugio dal regime nazista. Se essere tedesco poneva degli ostacoli al raggiungimento di una completa identità come americano, essere ebreo ne poneva di maggiori. Boas continuava a dare molta importanza alla sua identità di tedesco-americano e a tacere sulla propria origine ebraica anche se mostrava un grande interesse per la situazione degli ebrei intesi come categoria sociale. Per lui gli ebrei possedevano una cultura strettamente legata alla religione; ciò che egli criticava del giudaismo era la sua incompatibilità con la libertà individuale. L’identità ebraica era un’altra questione: la sua persistenza come realtà obiettiva era opinabile, e le persone più “illuminate” avrebbero dovuto distinguere tra l’identificazione come ebrei e l’identificazione come cittadini di un paese. Della stessa opinione era un rabbino di Chicago, Bernhard Felsenthal, che espresse il concetto di “triplice lealtà”: “‘Razzialmente sono un ebreo, perchè sono nato nella nazione ebraica. Politicamente sono un americano, un patriota entusiasta, devoto, quanto possa essere un cittadino americano. Ma spiritualmente sono un tedesco, perchè la mia vita interiore è stata profondamente influenzata da Schiller, Goethe, Kant e altri grandi intellettuali della Germania'” (in Goren, 1980:579).
Boas diceva che gli individui non dovevano essere classificati in “gruppi”; insisteva che i gruppi erano troppo spesso delle “costruzioni soggettive”. Coloro che vengono assegnati a un gruppo spesso non si sentono parte di esso, e l’ingiustizia fatta a loro è uno dei difetti della nostra civiltà. Lo stesso succede quando un gruppo è caratterizzato dai costumi tipici, dalle scelte di vita, o se un gruppo dominante gli attribuisce un simbolo distintivo cosicchè ogni individuo, non importa quale carattere (e inclinazione) personale abbia, conferita l’appartenenza al suo gruppo e trattato di conseguenza (Boas, 1940:15). All’inizio dei suoi studi di antropologia, Boas si limitava a considerare gli ebrei dal punto di vista fisico, studiava non il loro comportamento sociale ma le loro caratteristiche anatomiche e concludeva che, sotto tale aspetto, gli ebrei dovessero essere considerati un gruppo etnico dalle caratteristiche fisiche molto diverse.
Proprio dalle indagini da lui compiute in America, emerse come una lunga residenza in questo paese comportasse uno sviluppo fisico e psichico più rapido. Boas portava ad esempio il fatto che i bambini ebrei in America presentavano una tendenza all’aumento nell’altezza media (1940:124). Anche le caratteristiche di “razza” più resistenti nel paese d’origine non rimanevano intatte nel nuovo ambiente: “Quando le peculiarità del corpo cambiano, l’intera struttura corporea e mentale può mutare” (ibid.:119).
Nella seconda fase della sua ricerca sul gruppo ebraico, egli tentò di comprendere l’origine dell’identità ebraica, ma non prese mai seriamente in considerazione, al di là dei tratti fisici, lo status sociale e le caratteristiche culturali degli ebrei. Boas insisteva che coloro che avessero voluto assimilarsi sarebbero dovuti essere liberi nelle loro scelte; gli ebrei, come altre etnie, non dovevano essere obbligati a rimanere in una “classe”. E’ particolarmente doloroso per i membri, appartenenti a una classe tenuta in disparte e divenuti coscienti del fatto che non sono più una classe ma dei semplici individui, constatare che questa richiesta non viene accolta dalla maggioranza, la quale continua a vederli ancora come membri del gruppo disprezzato; “è l’individuo che conta non la classe alla quale è stato assegnato” [16] (in Glick, 1982:559). Boas era sensibile verso il pregiudizio etnico, ma anche indifferente verso i problemi delle classi sociali dei gruppi immigrati e della cultura da loro espressa. Per lui c’erano soltanto popolazioni fisicamente diverse, e anche differenze regionali nella stessa popolazione, a causa della lunga permanenza in un ambiente e dei matrimoni nello stesso ambito territoriale. Le differenze non erano mai stabilite per sempre, ciò valeva anche per gli ebrei che “esibiscono una varietà di tipi locali impossibili da catalogare, dipendenti dall’ambiente naturale e sociale circostante” (in Glick, 1982:559). Uno dei cardini del pensiero di Boas consiste nel sottolineare l’indipendenza delle tre variabili razza, lingua e cultura. In particolare, la prima delle variabili non influenzava le caratteristiche mentali (Boas, 1940:10); in base a questa logica gli ebrei tedeschi dovevano divenire tedeschi, come tedeschi lo erano diventati alcuni slavi e francesi germanizzati, come i russificati erano divenuti russi…
Boas era un assimilazionista e credeva nel potere amalgamante del suo paese di adozione, guardava al tempo in cui tutti -persino i neri e gli ebrei, i meno probabili candidati all’assimilazione completa- sarebbero stati così ben amalgamati che gli antagonismi etnici sarebbero spariti per mancanza di obiettivi o vittime. Riteneva, come la maggior parte degli intellettuali ebrei, che l’antisemitismo non sarebbe scomparso se non fossero spariti gli ebrei. Boas manteneva un “atteggiamento bipolare” verso le due dimensioni della sua identità, la tedesca e l’americana, definendosi esplicitamente un tedesco-americano. Coerentemente con le sue teorie sull’assimilazione, voleva venir identificato come un individuo autonomo, “libero dai ceppi della tradizione”. Gli antropologi culturali americani allievi di Boas si sono mostrati generalmente indifferenti riguardo alla questione etnica interna agli Stati Uniti. Questo atteggiamento di rifiuto verso le particolarità etniche ha determinato un ritardo nelle ricerche antropologiche sui gruppi etnici americani: solo nel 1935 venne pubblicata la prima ricerca di questo genere, seguita da pochi altri esempi (Marta, 1990:111). L’analisi del fenomeno dell’assimilazione degli ebrei in America compiuta da Boas sarebbe stata più profonda se egli avesse dato maggiore importanza alla storia e alla cultura ebraica europea. Ciò costituisce una contraddizione in questo antropologo mostratosi così attento alle specificità culturali di molti popoli “esotici”. Boas rimane un tipico esempio di intellettuale ebreo che individua nella rigida appartenenza a un gruppo etnico uno degli ostacoli principali nel superamento del razzismo.
4.3.3. Louis Wirth
Louis Wirth nacque nel 1897 nel villaggio tedesco di Gemünden, da una famiglia ebraica ortodossa; venne portato nel 1911, ancora giovane, da uno zio negli Stati Uniti e si stabilì dapprima ad Omaha (Nebraska), e tre anni dopo si trasferì a Chicago. Si laureò all’università di Chicago nel 1925 con una tesi sugli ebrei di Chicago, Il Ghetto . In questa opera, condotta secondo un approccio sociologico, viene analizzato l’insediamento ebraico di Chicago non come mera struttura fisica, ma come “stato mentale”. Dal 1940 fino alla morte, avvenuta nel 1952, insegnò sociologia all’università di Chicago, dove fu uno dei più importanti rappresentanti del celebre dipartimento di sociologia, la cui fama e influenza sono legate a R. E. Park. Non si può scindere il pensiero di Wirth dagli insegnamenti di Park, il pioniere degli studi sull’assimilazione. Il metodo di lavoro di Park, Burgess e degli altri collaboratori consisteva nell’osservazione critica, nella convinzione che il ricercatore dovesse identificarsi con l’oggetto dello studio da condurre. Così Wirth venne indirizzato, da Park e Burgess, verso lo studio dei conflitti culturali nelle famiglie di immigrati perchè egli stesso era passato attraverso l’esperienza dell’immigrazione. Wirth era interessato al mantenimento e allo sviluppo delle istituzioni democratiche e alla promozione della giustizia sociale e quindi anche a come eliminare le discriminazioni contro le minoranze razziali e culturali. Nel 1945 scrisse in proposito il già citato saggio, The Problem of Minority Groups . Quello degli ebrei, secondo lui, era un esempio interessante di quali problemi incontrasse una minoranza nell’integrazione in uno stato democratico. Ne Il Ghetto , rimasto l’unico libro di Wirth (escludendo i suoi numerosi articoli e saggi), c’è una prospettiva storica, assente negli altri studiosi della scuola di Chicago, consistente nel considerare il ghetto come una fase di storia sociale ebraica, senza dimenticare però che la comunità ebraica non sempre si è identificata nel ghetto. Alessandro Cavalli -l’autore dell’introduzione all’edizione italiana de Il Ghetto – fa notare che la storia ebraica deve essere vista come “la storia di un gruppo marginale, di un gruppo il quale vive nel mezzo di una cultura dominante che nello stesso tempo lo attrae e lo respinge” (1968:xvi-xviii). Wirth considerava gli ebrei un prodotto della storia, un gruppo religioso, etnico o culturale, o una combinazione dei tre. Il problema della condizione ebraica nella diaspora si confondeva con il problema delle cause della formazione e del mantenimento del ghetto. Questo problema avrebbe avuto una soluzione -secondo Wirth- quando fossero finite le cause che avevano portato alla creazione del ghetto americano e non con l’emancipazione degli ebrei in Europa. La marginalità sociale coatta si è sempre riflessa nel ghetto, un’angusta entità territoriale che ha mantenuto in vita una comunità con cui gli ebrei si potessero identificare e che garantisse la sopravvivenza della loro cultura nel corso dei secoli. Le pressioni e le discriminazioni della società ospitante hanno finito per perpetuare il ghetto, accentuandone il carattere di rifugio. Wirth, pur propendendo per l’assimilazione, riteneva che la comunità ebraica sarebbe rimasta compatta anche dopo la rimozione degli ostacoli fisici che impedivano i rapporti con i membri della società esterna. Egli affermava che se gli ebrei avessero voluto assimilarsi “totalmente” nella società americana, avrebbero dovuto fare a meno dei tratti culturali caratteristici del loro gruppo etnico, che li identificavano come tali. Finchè fosse rimasto qualcosa di simile al ghetto, per gli ebrei sarebbe stato impossibile evaderne completamente. L’ebreo diventa allora un “uomo marginale” non perchè appartenga a un gruppo marginale, ma contemporaneamente a due mondi culturali, quello del proprio gruppo etnico e quello del paese di adozione, l’ebraico e l’americano. E’, in un certo senso, quanto affermava Kallen secondo cui gli ebrei possiedono una “duplice cultura” (in Caffaz, 1974:48); chi appartiene alla seconda generazione sente un bisogno di identità sconosciuto alla generazione degli immigrati e un desiderio di appropriarsi di una nuova cultura. La rottura con il passato provoca spesso una crisi di identità, acuita dalla consapevolezza che il passato è perduto per sempre. Nascono dei dubbi se l’assimilazione possa essere effettivamente completa. Anche il ghetto ebraico è sottoposto a forze che lo trasformano, per cui la comunità non rimane mai compatta, ma si differenzia. Naturalmente, più forte sarà la spinta delle forze esterne tanto maggiore sarà la trasformazione interna della società ebraica. Le cause esterne che possono venir considerate responsabili della stratificazione sociale del ghetto sono state la principale delle questioni affrontate da Wirth ne Il Ghetto . Poichè il ghetto americano ospitava momentaneamente immigrati ebrei provenienti da vari paesi, con culture e lingue diverse, era necessariamente più instabile. Era un fatto comune che gli immigrati ebrei riproducessero al loro arrivo negli Stati Uniti le condizioni per la perpetuazione del ghetto, ritardando così l’assimilazione degli immigrati arrivati in precedenza. Secondo Wirth ci sarebbe stata comunque la piena assimilazione con la fine dell’isolamento sociale e con l’integrazione culturale, e ciò avrebbe comportato, inevitabilmente, la perdita dell’identità etnica. La soluzione del problema ebraico si trovava nell’abolizione delle discriminazioni e nella completa accettazione da parte degli ebrei di un modo di vita democratico. In realtà, la società americana è divisa; ci sono alcuni gruppi etnici che non si sono integrati, e continuano a non esserlo. Si può dire che l’assimilazione, così come la teorizzava Wirth, non sarà mai raggiunta. Dalla prima edizione de Il Ghetto (1928) la comunità ebraica si è evoluta di pari passo con la società americana. Un esempio è il fatto che ovunque gli ebrei hanno acquistato posizioni sociali elevate, tranne che a New York dove molti ebrei fanno ancora parte delle classi medio-inferiori. Un altro cambiamento, sottolineato da Cavalli (1968:xxi), è il caratteristico attaccamento degli ebrei contemporanei alla nazione statunitense e la conseguente accettazione dei valori basilari americani. Nelle città, dove non si è concentrata la nuova ondata migratoria, il ghetto si è in larga misura disgregato e, di conseguenza, la minoranza ebraica ha mostrato la tendenza a scomparire. Ciò non significa, però, che gli ebrei abbiano perso la loro identità nel processo di assimilazione. Piuttosto si sono ridotte di molto le diversità esistenti tra ebrei ashkenaziti, sefarditi, est-europei. Così per un osservatore esterno, essi sembrano essere diventati più compatti e la loro comunità omogenea.
La comunità ebraico-americana, secondo il sociologo Will Herberg (in Cavalli, 1968:xxii), negli anni ’50 era diventata parte integrante della società statunitense. Gli ebrei manifestavano apertamente sia la loro appartenenza all’ebraismo sia il loro attaccamento alla nazione americana e l’ebraismo era ormai riconosciuto come una delle tre religioni della democrazia americana. Non era più considerato un ostacolo all’integrazione ma addirittura un suo possibile incentivo. L’identificazione religiosa cominciava a distaccarsi dall’identificazione etnica, permettendo agli ebrei una maggiore integrazione, sebbene in misura minore di quanto previsto da Wirth (il sociologo non è sempre un profeta…). Se il pluralismo etnico da alcuni è considerato ancora un ostacolo alla formazione della coscienza nazionale americana, ciò è vero per il pluralismo religioso. Ogni americano può scegliere la propria religione e la pluralità garantita per le tre confessioni riconosciute come parte delle tradizioni americane, il protestantesimo, il cattolicesimo e l’ebraismo.
4.3.4. Horace Kallen
Il concetto di crogiolo e l’idea di assimilazione non convincevano la maggioranza degli ebrei. La visione pluralista della cultura americana sviluppata dagli ebrei borghesi serviva a difendere il loro ideale di democrazia che sintetizzava aspetti di americanismo ed ebraicità. Il pluralismo culturale, peraltro mai impostosi largamente, tornava utile agli ebrei unicamente per giustificare l’abbandono delle vecchie tradizioni. Gli Stati Uniti erano terra di contraddizioni: nonostante le garanzie costituzionali, era difficile aggirare gli ostacoli creati per allontanare chi avesse voluto integrarsi o confondersi con gli altri americani. L’America che si definiva “pluralista” continuava, negli anni ’20 e i primi ’30 precedenti l’ascesa di Roosevelt, a tenere gli ebrei lontani dall’inserimento nella società, nonostante fossero uno dei gruppi più colti e istruiti in America (Hertzberg, 1993:220).
Contro l’assimilazione dell’immigrato si era schierato il filosofo ebreo di origine tedesca Horace Kallen, che aveva esposto la sua teoria del pluralismo culturale nel famoso articolo del 1915, Democracy versus the Melting Pot , concepito come una risposta indirizzata a Zangwill e al suo concetto di melting pot (vedi cap. IV.2). Kallen nacque nel 1882 a Berenstadt, nella regione tedesca della Slesia, attualmente polacca; figlio di un rabbino, all’età di 5 anni era già emigrato in America. Insegnò alla Harvard University e in altre università americane, e dal 1965 alla Long Island University. Morì nel 1974. Tra le sue numerose opere: il già citato articolo Democracy versus the Melting Pot (1915) pubblicato sulla rivista The Nation , poi inserito nella raccolta dei suoi articoli Culture and Democracy in the United States del 1924, Zionism and World Politics (1921), Individualism: an American Way of Life (1933), Of them which say they are Jews (1954), una raccolta di saggi sulla lotta degli ebrei per la sopravvivenza, Utopians at Bay (1958), che raccoglie le sue impressioni su Israele. Nella filosofia di Kallen il pluralismo culturale ha un posto di rilievo. Era a favore di un mondo ideale in cui tutte le varietà di popoli e culture potessero vivere in libertà e con uno spirito di uguaglianza. Teorizzava un legame tra pensiero e azione che portasse a un’attiva partecipazione nella democrazia in America e nel mondo, in specie in rapporto alle libertà civili e ai diritti delle minoranze.
Era proprio il pluralismo culturale che poteva dare a ogni gruppo etnico e culturale negli Stati Uniti la possibilità di contribuire ad arricchire la cultura americana e fornire agli ebrei la possibilità di preservare la propria identità culturale (vedi cap. IV.2.). Il melting pot , secondo questa ottica, negava ai gruppi etnici il diritto all’esistenza, ponendosi come antitesi alla nozione di democrazia. Lo spirito americano, per Kallen, si esprimeva nell’unione delle differenze e nell’eguaglianza tra i gruppi etnici; tra i quali doveva esistere un libero commercio di ogni cosa che la vita e la cultura della comunità potessero produrre. La “federazione di nazionalità” avrebbe attuato una “sinfonia delle civiltà”, un’immagine già utilizzata nel saggio Judaism, Hebraism, Zionism del 1910, in cui aveva parlato di “un’armonia prodotta da strumenti che sono i popoli e le nazioni, che (alla cultura) contribuiscono ciascuno col suo tono specifico, e nella quale è presente tutto il passato dell’umanità come … sfondo da cui viene alla luce il presente” (in Sollors, 1990:225).
Per gli ebrei d’America Kallen immaginava una comunità in cui potessero essere coltivate la storia e la cultura ebraiche, i movimenti politici ebraici potessero fiorire, l’arte, la filosofia e la cultura in generale potessero essere incoraggiate, la filantropia si prendesse cura dei particolari bisogni ebraici e la religione fosse solo una tra queste possibili espressioni dell’ebraicità. Per Kallen l’etnicità era una categoria immutabile, egli formulava una netta distinzione tra gruppi a cui si appartiene per discendenza naturale e gruppi in cui l’appartenenza si acquisisce. Nell’articolo del 1918 The Structure of Lasting Peace aveva scritto che “un irlandese è sempre un irlandese, un ebreo sempre un ebreo. Irlandesi o ebrei si nasce, cittadini, avvocati, membri di una Chiesa si diventa. L’irlandese e l’ebreo sono realtà di fatto in natura; i cittadini e i membri della Chiesa sono prodotti della civiltà” (ibid.:225). Egli non pensava che nel gruppo ebraico potessero sopravvivere i figli di matrimoni misti; Kallen sembrava cadere vittima della convinzione, diffusasi alla fine dell’Ottocento, che i “sanguemisti” fossero sterili. Infatti, nell’articolo del 1906 The Ethics of Zionism , pubblicato nello stesso anno sulla rivista Maccabean, aveva scritto: “E’ l’ebreo che è predominante nel bambino nato da un matrimonio misto e, dopo qualche generazione, se non sopravviene la sterilità, come accade di solito, la parte non ebrea muore o si modifica” (ibid.:274).
Il pluralismo culturale poteva rappresentare un modello per il futuro degli Stati Uniti che, secondo Kallen, come si è detto, dovevano diventare una sorta di federazione di nazionalità etniche. In realtà ci vollero molti anni prima che questo modello si affermasse. Fino agli anni ’50 prevalse l’assimilazione con sfumature diverse e con le contraddizioni tipiche dell’ideologia del melting pot. Kallen sosteneva che il popolo ebraico dovesse avere una patria in Palestina per proteggersi dalle persecuzioni e per salvaguardare il suo patrimonio culturale. Nel citato articolo The Ethics of Zionism , Kallen comunque si mostrava in disaccordo con alcune posizioni del sionismo tradizionale. Ad esempio, rifiutava di considerare il sionismo come “realizzazione di un impulso religioso di antica data”, l’identità ebraica non si poteva basare sulla fede giudaica, ritenuta troppo antiquata, anche se le attribuiva la capacità di contrastare la minaccia dell’assimilazione: “Dobbiamo schiacciare il camaleonte e il bastardo spirituale; dobbiamo affermare l’israelita” (ibid.:224). Per “israelita” Kallen non intendeva nè il vecchio ebreo religioso, come suo padre, e nemmeno il “convertito completamente sradicato che considera la Torah solo un libro limitato e bigotto”, come era lo stesso Kallen da giovane, quando studiava a Harvard. L'”idea ebraica” di Kallen, cui doveva aderire il sionista ideale rinato -l’israelita modello, consisteva nell’adempimento del dovere di “riebraizzare gli ebrei”. Alla base di questa convinzione stava il pensiero che “ogni uomo della famiglia umana ha il diritto di vivere e dare alla sua vita un’espressione ideale”. Nell’elaborazione dell'”idea ebraica” Kallen fu influenzato, come egli stesso ammise, da Barrett Wendell, un bramino W.A.S.P. [17] , che Kallen aveva definito “uno yankee di Harvard che mi riebraizzò”.
Alcune delle teorie di Kallen furono rigettate da Isaac Berkson, un pedagogista ebreo, autore di una “teoria della comunità”, che cercava di risolvere il problema di come preservare il gruppo ebraico americano (in Gordon, 1964:150-1). Berkson era critico verso la “federazione di nazionalità” di Kallen, in cui, a suo parere, si assegnava troppa importanza alle caratteristiche etniche ereditarie. Berkson sottolineava che la crescente industrializzazione, l’urbanizzazione e le migrazioni interne avevano causato una dispersione delle etnie, compresa quella ebraica, anche se ciò non aveva significato la loro disintegrazione. Era opinione di Berkson che Kallen violasse soprattutto i princìpi democratici quando egli tentava di predeterminare il destino di un individuo dalla sua appartenenza a un gruppo etnico, subordinando a questo criterio tutte le relazioni tra gruppi e individui e tralasciando le variabili che concorrono a determinare il destino dell’individuo e le sue scelte. Kallen, in verità, credeva nell’esistenza di caratteristiche razziali ereditarie che trovavano espressione nella personalità dei membri di un gruppo etnico e nella cultura del gruppo stesso, senza attribuire nè una superiorit à o un’inferiorità in queste relazioni inter-etniche (in Gordon, 1964:150). Berkson era convinto che il mantenimento dell’etnicità ebraica fosse compito di un’istituzione che chiamava “scuola etnica della comunità”, da affiancare alla scuola pubblica, in cui i bambini potessero apprendere cosa rendesse il loro gruppo etnico diverso dagli altri (Goren, 1980:587).
Tra gli anni ’20-’30 di questo secolo l’attività politica e culturale ebraica in America era molto variegata e appariva piena di vigore se paragonata alla vita religiosa giudaica di quel periodo. Sorprende allora come proprio dei religiosi si fossero affiancati a Kallen nella sua formulazione del pluralismo culturale; tra questi c’era il rabbino Kaplan.
4.3.5. Mordecai Kaplan
Si cominciava a fare strada, dagli anni ’20 in poi, la convinzione che la religione ebraica non fosse più fondamentale per la continuità di un sentimento di identificazione etnica. Nello stesso periodo nasceva la sinagoga-centro, un’istituzione di cui si è trattato nel terzo capitolo. Espressione di un movimento religioso “ricostruzionista” fondato da Mordecai Kaplan [18] nel 1918 (Moore, 1981:128), la sinagoga-centro non aveva come obiettivo la religione, ma l'”ebraicità”. Questa ebraicità doveva essere presente in tutte le varie attività praticate nella comunità ebraico-americana così come Kaplan la concepiva: religiose, politiche, culturali, intellettuali, filantropiche (Glazer, 1957:91-6). Si desiderava cambiare non la comunità come entità spaziale, ma il concetto che si aveva di essa. Questa comunità, probabilmente, avrebbe potuto aiutare il giudaismo conservatore a soppiantare l’ortodossia che stava attraversando in quel periodo una grave crisi. Si cercava, in sostanza, di adattare il giudaismo all’America, meglio di quanto avesse fatto la Riforma, che aveva eliminato molti elementi tradizionali. Il disprezzo di Kaplan verso la Riforma era motivato dal fatto che i riformisti avevano commesso “un nuovo tipo di suicidio”, avendo abbandonato il concetto di appartenenza a un’etnia. Il giudaismo nelle versioni riformata e ortodossa non aveva molto da condividere con la comunità delineata da Kaplan, dove la religione costituiva solo una delle possibili espressioni di ebraicità. In tal modo si spiega lo sviluppo dell’ala conservatrice del giudaismo, fondata da elementi sefarditi e ashkenaziti verso il 1880 e riorganizzata nei primi del Novecento da ricchi ebrei insoddisfatti della Riforma, con il sussidio di studenti dell’Europa orientale appena immigrati che studiavano per diventare rabbini (Glazer, 1957:77). Il presidente del Jewish Theological Seminary di New York -l’istituzione principale del giudaismo conservatore dove insegnò anche Kaplan- Solomon Schechter, cercava di accogliere nel suo istituto sia gli studenti religiosi che trovavano la Riforma troppo distante dall’ebraismo ed espressione di un livello sociale ed economico troppo elevato, sia coloro che ritenevano l’ortodossia troppo rigida e un impedimento ai contatti con il mondo non ebraico (Glazer, 1957:92). Questo seminario si distinse rapidamente come uno dei più importanti centri di studio e il fulcro del revival intellettuale ebraico-americano.
Il sociologo Marshall Sklare ha fatto osservare come il conservatorismo mediasse tra le esigenze della tradizione ebraica e le regole del culto religioso della classe borghese (in Moore, 1981:138). La vera essenza del giudaismo conservatore era la passione per la storia intensa e unica degli ebrei, come anche l’impegno per il sionismo. Kaplan, nel suo libro più importante Judaism as a Civilization del 1934, scriveva che la fede nel Dio ebraico era stata alla base del sentimento di coesione del suo popolo e che questa fede era svanita. La maggioranza degli ebrei sembrava -per Kaplan- aver dimenticato completamente che a tenere uniti gli ebrei era la loro convinzione di essere il “popolo eletto”. Kaplan era convinto che il giudaismo, rafforzato da questi mutamenti, non fosse più una religione nel senso occidentale, ma una “civiltà religiosa” ( a religious civilization ) utile alla società americana e degna di diventarne una componente. “Il giudaismo -aggiungeva Kaplan- comprende la lingua, i costumi, i modelli di organizzazione sociale, gli ideali spirituali, che danno a un popolo un’individualità che lo differenzia dagli altri popoli” (in Goren, 1980:590). Kaplan sperava nel rafforzamento di quelle organizzazioni ebraiche in cui si potessero condurre varie attività, non solo religiose, dirette da un’istituzione centrale rappresentante tutti gli ebrei. Uno degli esempi era la Kehillah di New York che Kaplan aveva contribuito a fondare.
Le proposte di Kaplan per una comunità ebraica da inserire nella struttura americana parevano meno importanti rispetto all’ideologia di cui egli era diventato il principale teorizzatore, secondo cui la religione, il sionismo e altri elementi ebraici caratterizzavano la civiltà ebraica. L’America permetteva la separazione dei culti, ciò che era la base principale della civiltà religiosa. Chiunque si fosse avvicinato al giudaismo inteso come civiltà non si sarebbe dovuto interessare molto della dottrina della rivelazione, bensì alla questione se questi cambiamenti fossero conformi alla natura essenziale del giudaismo e se portassero a un arricchimento della vita spirituale ebraica. Le proposte di Kaplan vennero accettate da altri teologi e la sinagoga-centro ebbe un certo successo tra gli ebrei conservatori, ma il pensiero di Kaplan su come costituire una nuova comunità ebraica non ebbe la stessa diffusione. L’accusa rivoltagli consisteva nel fatto che Kaplan, pur essendo rabbino, aveva minato alla base l’autorità religiosa dei rabbini. In America i rabbini avevano perso quasi tutta la loro autorità in campo civile [19] , e volevano evitare di perdere anche le prerogative religiose da esercitare all’interno della sinagoga. Negativa, per i suoi avversari, era la confusione che Kaplan faceva tra il sionismo e il tentativo di adattare il giudaismo alla società americana. Il sionismo, ribatteva Kaplan, poteva tenere gli ebrei occupati in un’attività ideologica più pragmatica, più americana, perchè esso esaltava l’azione e il coraggio. Era convinto che il sionismo riguardasse solo gli ebrei in pericolo e alla ricerca di una terra in cui vivere in sicurezza, quindi non gli ebrei americani; il gruppo etnico ebraico sarebbe sopravvissuto in America, come negli altri paesi della diaspora (Cohen J., 1972:752). Kaplan era un idealista che immaginava un’America in cui tutte le tradizioni etniche sarebbero state considerate uguali e avrebbero proceduto assieme verso il compimento della civiltà, compito ultimo dell’America. Kaplan riteneva che, allo scopo di realizzare una società dove la tradizione ebraica si trovasse su un piano di parità con le altre tradizioni etniche americane, gli ebrei dovessero riadattare l’antica dottrina del “popolo eletto”, che li aveva consolati durante i secoli di persecuzioni in Europa. Kallen metteva in rilievo, però, che questa dottrina apparteneva alla religione, non all’ebraismo; Kaplan, essendo rabbino, ribatteva che l’ebraismo dovesse avere come centro la religione. Essendo anche un filosofo pragmatico, Kaplan, come Kallen, non intendeva per Dio la divinità rivelatasi ad Abramo e a Mosè: il Dio ebraico era per lui un’entità che racchiudeva in sè alti valori di una comunità. A questo proposito spiegava, in The Future of the American Jew del 1963, che “la fede in Dio è la fede nell’esistenza di un Potere che conduce alla salvezza ossia al compimento, il destino finale dell’umanità” (in Cohen J., 1972:753).
L’idea del pluralismo culturale, almeno in questa fase, non riscosse gran successo neanche tra gli ebrei. Hertzberg (1993:219) spiega questo insuccesso con il fatto che le teorie sia di Kallen che di Kaplan presupponevano l’abbandono di elementi ritenuti il fondamento delle tradizioni culturali ebraiche. Una volta scomparsi questi elementi, si temeva che gli ebrei americani avrebbero perso i tratti distintivi dell’etnia ebraica.
4.4. Lo yeshiva-college e il sionismo: identità ebraica e cittadinanza americana
Con lo yeshiva-college gli ebrei mettevano l’istruzione al servizio delle loro battaglie ideologiche. La yeshivah era una scuola di studi talmudici per ragazzi, che forniva l’istruzione di base per chi volesse proseguire gli studi per diventare rabbino. In America, per estensione, ogni scuola in cui venivano insegnati i testi religiosi giudaici era chiamata yeshivah . Negli anni ’20 si cominciò ad avvertire la necessità di impartire agli studenti ebrei anche l’insegnamento delle materie laiche per poterli aiutare ad inserirsi nella società statunitense che portò nel 1928 alla creazione della prima yeshiva-university , costituita da una yeshivah tradizionale e da un college. Era un’università nel senso occidentale, in cui accanto ai testi sacri dell’ebraismo, alla storia e alla lingua del popolo ebraico, che rimanevano le discipline fondamentali, trovavano posto corsi analoghi a quelli delle altre facoltà americane. La costituzione dello yeshiva-college può venire interpretata come un tentativo di aggirare le limitazioni imposte nel 1922 alle iscrizioni degli ebrei nelle università di Columbia e Harvard. Bernard Revel, preside della yeshiva-university , considerava la sua facoltà un compromesso con le esigenze della società americana che l’avanguardia di un nuovo movimento nella vita culturale ebraico-americana. Egli era convinto che la società americana avrebbe apprezzato la nuova istituzione se questa avesse incluso nei suoi insegnamenti anche le materie laiche. Scriveva Revel: “Questo college aiuterà a gettare un ponte sull’abisso tra intellettualismo e fede” (in Moore, 1981:188). La yeshiva-university , secondo questo punto di vista, doveva accelerare la fusione tra i valori americani e i valori ebraici. Ma Revel ricordava che gli ideali ebraici avevano comunque la precedenza: “La Torah è una materia di studio tra tutte le altre -diceva Revel- ma il perno della nostra esistenza morale e spirituale” (ibid.:190); Marshall Sklare aggiungeva che nello yeshiva-college si dovesse insegnare “la scienza del giudaismo” (ibid.:198). Le reazioni alla creazione dello yeshiva-college riflettevano differenti idee sul rapporto degli ebrei e del giudaismo con la società americana. Nei dibattiti che seguirono, l’istruzione ebraica assumeva un carattere simbolico, la sua forma e il suo contenuto definivano gli ebrei alternativamente come un gruppo etnico, religioso o nazionale, implicando un ideale di cultura ebraico-americana e un’istituzione adatta per realizzarlo. In pratica, la yeshiva-university presupponeva una società americana pluralista in cui trovasse posto l’insegnamento delle tradizioni religiose ebraiche e una più precisa definizione del giudaismo ortodosso americano.
Il sionismo, ideologia del ritorno degli ebrei a Sion e, quindi per traslato, in Palestina, è un’ideologia formatasi in Europa in seguito alle dottrine razionaliste dell’Illuminismo del Settecento e diffusasi alla fine dell’Ottocento ad opera principalmente di Theodor Herzl (1860-1904). Il termine fu coniato da Nathan Birnbaum [20] , uno dei primi sionisti americani, che era in disaccordo con Herzl. Il motivo del contrasto era il timore di Birnbaum che la soluzione del problema ebraico che prescindesse dalla salvaguardia dell’ebraicità potesse favorire la scomparsa del gruppo. Herzl, ungherese di nascita e viennese d’adozione, non era un ebreo osservante e non era d’accordo con quanto Ahad ha-‘Am [21] e quasi tutti gli altri sionisti europei propugnavano: la rinascita di una cultura ebraica unitaria che fosse la base per la creazione di uno stato ebraico, in aperta antitesi agli ideali occidentali. Da giovane, Herzl vedeva con favore l’assimilazione totale e fantasticava sulla possibilità di portare tutti gli ebrei alla grande cattedrale di Santo Stefano a Vienna, affinchè ricevessero il battesimo; così forse si sarebbe risolto il problema ebraico e si sarebbe messo fine all’antisemitismo. Egli tuttavia era convinto che le cose non fossero così semplici: gli antisemiti odiavano tanto gli ebrei apostati e assimilati quanto gli ebrei rimasti fedeli al giudaismo.
Nel 1894 Herzl scrisse un dramma, Das Ghetto , con cui sperava di mettere sulla scena il problema ebraico e avviare un dibattito pubblico; nel dramma l’assimilazione e la conversione erano rifiutate come soluzione del problema ebraico. Le stesse idee furono espresse con maggior vigore in un altro suo libro, Der Judenstaat del 1895 (pubblicato in inglese l’anno seguente, col titolo di The Jewish State ), scritto in reazione allo scoppio della polemica tra colpevolisti e innocentisti sul caso Dreyfus in Francia, di cui egli era stato diretto testimone in veste di corrispondente da Parigi del quotidiano viennese Neue Freie Presse . In questo libro Herzl teorizzava l’auto-emancipazione, l’attiva partecipazione alla realizzazione di un ideale: colonizzare la Palestina, per impiantarvi uno stato in cui gli ebrei potessero praticare liberamente la propria religione e la propria cultura e riallacciare il legame con il passato. Il problema ebraico non poteva essere risolto con l’assimilazione, pensava Herzl, perchè l’antisemitismo implicava l’esistenza degli ebrei, ed essi non avrebbero cessato di esistere.
Nel 1897 venne fondata la World Zionist Organization il cui fine ultimo era la soluzione del problema ebraico attraverso l’ottenimento di un documento politico che garantisse agli ebrei l’autonomia e il diritto di risiedere in Palestina. Era la base da cui iniziare per la costituzione di uno stato che accogliesse gli ebrei di qualsiasi provenienza, lasciando in Europa quei pochi disposti all’assimilazione. Scopo politico del sionismo non era solo la fondazione di Israele, ma anche la pianificazione delle sue strutture economiche, culturali e sociali, che dovevano ispirarsi alle ideologie sioniste [22] . Il sionismo fu portato in America da alcuni intellettuali, tra cui Birnbaum e Schechter, e si sviluppò assumendo talvolta connotazioni differenti dal sionismo europeo. Qui il sionismo dovette affrontare l’opposizione di molti rabbini ortodossi, dal momento che essi erano convinti che il ritorno degli ebrei in Palestina sarebbe dovuto iniziare con l’arrivo del Messia, in un momento che solo la Provvidenza poteva decidere. A questi si affiancavano i riformisti che ritenevano il sionismo un’ideologia reazionaria e anti-americana. I rabbini riformisti, in occasione di una riunione della Central Conference of American Rabbis nel 1897, approvarono un documento di condanna del sionismo: “Noi disapproviamo totalmente ogni tentativo volto a fondare uno stato ebraico. Tali tentativi mostrano un fraintendimento del significato della missione di Israele che, dal campo politico e nazionale, è stato allargato alla promozione … della religione universalistica proclamata dai profeti ebrei” (AA.VV., 1972:1142). I rabbini conservatori fondamentalmente non erano ostili, in quanto credevano che il sionismo -come affermava Schechter- fosse “un grande bastione contro l’assimilazione” (Ben-Horin, 1972:948).
Louis Dembitz Brandeis, leader dei sionisti americani dal 1914 e sostenitore del presidente Wilson, fu da questo nominato nel 1916 giudice della Corte Suprema [23] . Brandeis fu il primo ebreo ad occupare una così alta carica, sebbene avesse dovuto affrontare feroci critiche per le sue presunte simpatie verso il radicalismo. Si temeva che Brandeis si potesse battere per le riforme e i cambiamenti, non rispettando il ruolo di garante delle istituzioni statunitensi assegnato alla Corte Suprema (Hertzberg, 1993:161-4). Brandeis era convinto che la lealtà verso l’America e la lealtà verso l’ebraismo non fossero incompatibili. Anzi, il sionismo poteva essere considerato la più nobile espressione degli ideali ebraico-americani. Brandeis esprimeva questo concetto nel suo aforisma: “Per essere buoni americani si deve essere ebrei migliori, e per essere ebrei migliori si deve diventare sionisti” (in Moore, 1981:106). La democrazia, la giustizia sociale e la libertà -Brandeis ribadiva- erano concetti sionisti compatibili con gli ideali americani; invece, da più parti, si faceva notare che non era possibile essere parte della nazione ebraica e patriota americano allo stesso tempo.
Ai programmi di aiuto in favore dei coloni in Palestina aderivano tutti gli ebrei, tedeschi, russi, est-europei… ciò dimostrava come il sionismo fosse riuscito ad accomunare gli ebrei in un unico sforzo, più di quanto avesse fatto l’anacronistica Kehillah . Il sionismo, in quanto espressione dell’identità ebraica, offriva agli ebrei americani il rispetto di sè e la possibilità di essere rispettati. Nonostante l’entusiasmo per il sionismo, pochi ebrei si mostrarono pronti a lasciare l’America e a trasferirsi in Palestina per partecipare in prima persona alla rinascita della patria e della lingua ebraiche. “Il posto -scriveva Brandeis- è pronto; il diritto legale di abitarvi è garantito, e chiunque voglia è libero di andarvi. Ma fa parte dell’essenza del sionismo il fatto che non ci sia nessun obbligo” (in Howe, 1990:207). Questa fu una contraddizione del sionismo americano: i pionieri che partirono alla volta della Palestina provenivano in massima parte dall’Europa centro-orientale, almeno fino al 1948-9. Nel 1942 l’ American Council for Judaism , nell’eventualità che venisse costituito uno stato ebraico, ritenne opportuno fare una precisazione: “Lo stato di Israele non è lo stato o la patria del popolo ebraico; per gli americani di fede ebraica esso è uno stato straniero. La nostra esclusiva identità nazionale è per gli Stati Uniti” (AA.VV., 1972:1145). Sei anni dopo questa dichiarazione, il 14 maggio 1948, venne proclamato lo stato di Israele: era la vittoria dei sionisti di tutto il mondo.
Il sionismo brandeisiano simboleggiava alla perfezione la mentalità di quegli ebrei americani che si limitavano a inviare denaro per procurare un rifugio agli ebrei perseguitati di altri paesi. Questo atteggiamento aveva suggerito a Shapiro una mordace definizione del sionismo brandeisiano: “(Esso è) un movimento in cui una persona dà una somma di denaro a una seconda persona, affinchè una terza persona possa raggiungere la Palestina” (1992:160). In effetti, alcuni sionisti europei originari dell’Europa centro-orientale, destinati a diventare in seguito i “padri” dello stato ebraico, ricevettero direttamente dai sionisti americani un sostegno per le attività finalizzate alla costituzione del nuovo stato [24] .
Gli ebrei americani avevano già compiuto la loro ‘aliyah [25] verso la Terra Promessa, e non avevano intenzione di emigrare una seconda volta. Negli anni 1950-1 i governanti israeliani dichiararono che tutti gli ebrei del mondo avevano l’obbligo morale di emigrare in Israele. Ma era chiaro che la comunità ebraico-americana non avrebbe accettato l’antica tesi di Herzl secondo la quale chi sceglieva di rimanere nella diaspora si sarebbe dovuto assimilare, per dare un contributo alla soluzione del problema ebraico.
I sionisti americani, attraverso il loro leader Abba Hillel Silver, successore di Brandeis, chiesero a Israele di dichiarare ufficialmente che gli ebrei d’America non avevano in realtà alcun obbligo politico verso Israele. Così il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, nell’agosto del 1950, dichiarò pubblicamente che gli ebrei in America non dovevano essere più considerati in esilio e che lo stato ebraico rappresentava e agiva per conto solo dei propri cittadini, non degli ebrei di altri paesi. Gli ebrei americani furono soddisfatti della formula proposta da Ben-Gurion che prevedeva il “sostegno senza ingerenza”, una soluzione alla questione dei rapporti tra Israele e la diaspora che funzionò per trent’anni. Questa formula, in fondo, ha fatto comodo al governo israeliano che, in tal modo, ha potuto gestire per i suoi scopi politici il denaro versato dalle comunità ebraico-americane, oltre che a sfruttare l’aiuto militare fornito dagli Stati Uniti. Gli ebrei americani potevano essere fieri di Israele, sentendosi con la coscienza a posto nei riguardi di ogni possibile e sgradevole questione. In Palestina preferivano recarsi da turisti, per ammirare le opere finanziate con i loro soldi e tornare a casa sani e salvi, lasciando agli israeliani il compito di difendere militarmente lo stato ebraico. La loro diaspora era finita, la Terra Promessa era l’America.
[2] In realtà l’origine del termine è relativamente recente. La paternità viene attribuita ai coniugi Cole, i quali pubblicarono nel 1954 un libro in cui si affrontava il problema delle minoranze in America (Gordon, 1964:85).
[3] I sociologi Park e Burgess -fondatori della scuola di studi sociologici di Chicago- consideravano l’assimilazione un “processo di interpenetrazione e fusione -spontaneo e genuino- nel corso del quale individui e gruppi acquisiscono le memorie, i sentimenti, le attitudini di altri individui e gruppi e, condividendone le esperienze e la storia, vengono incorporati con loro in un comune ambito culturale”. Il significato del termine “assimilazione”, per Banton, si rifà all'”assorbimento di un nutrimento da parte di un organismo vivente” e non più all’originario “processo che rende simile” (Banton, 1988:25). L’assimilazione include sia l’acculturazione, in cui le credenze, i valori e i modelli di comportamento di un gruppo convergono verso quelli del gruppo dominante, sia l’amalgamazione biologica, che indica l’assorbimento fisico di una popolazione da parte di un’altra mediante unioni miste.
[4] Michel Guillaume Jean de Crèvecoeur (1735-1813) era un nobile normanno giunto in America con l’esercito francese nel 1759. Venne naturalizzato americano col nome di J. Hector St. John ma abbandonò gli Stati Uniti nel 1780, essendo stato dalla parte dei Lealisti durante la Rivoluzione. L’anno dopo la pubblicazione delle Letters from an American Farmer , nel 1783, tornò negli Stati Uniti come console francese a New York, dove rimase sette anni prima di tornare definitivamente in Francia.
[5] Questo atteggiamento favorevole ai neri sembra essere una reazione all’opinione di Croly il quale, nel 1888, affermava che solo i bianchi potevano definirsi americani. I neri e le razze miste non erano assimilabili e non potevano richiedere la piena cittadinanza e godere dei diritti della democrazia. La metafora del melting pot , seguendo il ragionamento di Croly, non sarebbe stata estesa ai non bianchi: la razza rimaneva la linea di divisione più persistente.
[6] Per dimostrare la sconfitta delle teorie assimilazioniste, Henry Pratt Fairchild scrisse nel 1926 The Melting Pot Mistake , in cui metteva in rilievo che, dopo un secolo e mezzo di immigrazioni, ogni grande città americana aveva vari ghetti etnici, vere e proprie isole sociali, linguistiche e culturali. Il mitico pentolone non era riuscito a fondere le nazionalità: anzi esso “coagulava e cristallizzava l’impasto e poi nella massa solidificata si creavano grosse fenditure” (Martellone, 1978:201).
[7] Ci furono varie prese di posizione contro chi voleva privare l’immigrato della cultura originaria per potersi americanizzare. Tra di esse è da notare quella dell’immigrato olandese Edward Bok il quale osservava che agli americani “non viene mai in mente che possano aver bisogno loro stessi di americanizzarsi. Ci sono migliaia di americani di nascita che avrebbero bisogno di essere americanizzati quanto gli stranieri”. L’attrice Luise Rainer dichiarò di temere “che alcuni americani di nascita diano troppo per scontata la loro identità di cittadini democratici” e rispolverano “i loro pensieri patriottici per le feste nazionali come il compleanno di Washington e il 4 luglio!”. Anton Lang sosteneva che “la democrazia un’esperienza che ogni cittadino deve rinnovare: qualcosa che si sviluppa, non è fissa. Per ogni americano dovrebbe essere un fatto personale, così come lo è per tutti i nuovi americani” (in Sollors, 1990:108-9).
[8] In proposito Sollors ricorda (1990:190-1) due brani significativi, il primo dei quali è del danese-americano Jacob Riis: “Che marito sarà l’uomo che butta fuori il vecchio nonno per far spazio alla moglie? E che tipo di moglie sarebbe lei, se chiedesse o tollerasse una cosa del genere?”. Similmente si esprimeva Bridges nel secondo brano citato: “… anche se un uomo deve lasciare padre e madre e unirsi a sua moglie, ciò non vuol dire che deve smettere di amare i genitori o di pensare a loro con gratitudine”.
[9] vedi ad es. Sigler, 1983:149-159 e Simpson & Yinger, 1953:16-26.
[10] in Gordon, 1964, frontespizio.
[11] Kisinëv all’epoca si trovava nell’impero russo. Attualmente è la capitale della Moldavia.
[12] Zangwill allude alla shiv’ah , i sette giorni in cui gli ebrei piangono i loro morti stando prostrati per terra. L’ortodosso era moralmente obbligato a fare la shiv’ah se un figlio o una figlia sposassero un gentile .
[13] Fu Theodore Roosevelt a chiedere nel 1908 a Zangwill di cambiare una battuta della versione definitiva. Nella trama si parla di Quincy Davenport, un ricco dissoluto di origine W.A.S.P. che, pur essendo sposato, fa la corte a Vera; l’identificazione tra “americani di origine” e adulterio e tra immigrati e fedeltà pareva offensiva a Roosevelt. Il presidente venne accontentato: l’autore sostituì la battuta di Vera “‘Siamo … sposati (lei e David) davanti a Dio: non essendo americani di origine, per noi anche la nostra parola eterna'” con “‘Non essendo milionari sfaccendati come il signor Davenport, per noi anche il nostro fidanzamento eterno'” (Zangwill, 1924:355).
[14] Le fonti consultate non danno indicazioni sull’anno della pubblicazione di questo articolo.
[15] Franz Boas nacque nel 1858 a Minden, in Germania. Studiò e insegnò geografia a Berlino, ma presto cominciò ad interessarsi di antropologia, appassionandosi alle culture di alcune popolazioni del Nord America. Nel 1886, due anni dopo il trasferimento a New York, diventò professore di Antropologia alla Columbia University. Egli criticò la tendenza di questa disciplina alle generalizzazioni affrettate sostenendo la necessità di una meticolosa raccolta di dati prima di azzardare teorie generali; riorganizzò l’antropologia secondo metodi rigorosamente empirici. Il Governo americano incaricò Boas di compiere una ricerca sui cambiamenti del volume del cranio nei figli degli immigrati rispetto ai loro genitori. I risultati della ricerca sono esposti in Changes in Bodily Form of Descendants of Immigrants del 1912, ristampato nel libro Race, Language and Culture del 1940. Altre sue opere: Ethnology of the Kwakiutl (1921), The Mind of Primitive Man (1965, 3a. ed.). Morì nel 1942.
[16] L’uso del termine “classe” nel senso di categoria etnica è frequente sia nel saggio di Boas The Individual Counts apparso su The Nation nel 1936 sia in altri suoi scritti.
[17] Barrett Wendell, professore di inglese all’università di Harvard, cercava, in un saggio del 1906 di cui Sollors non riporta il titolo, di analizzare la natura del carattere nazionale dell’America, chiedendosi cosa dell’America fosse americano (Sollors, 1990:5). Wendell sosteneva che, al loro arrivo, i primi coloni puritani fossero già americani, come se avessero portato dall’Inghilterra il “gene” dell’americano. I bramini, similmente ai monaci indù, erano teorizzatori della divisione della società americana in caste, sul modello dell’India, in cui prevaleva la classe W.A.S.P.
[18] Kaplan nacque a Sven cØionys, in Lituania, nel 1881 ed emigrò negli Stati Uniti nel 1890. Venne ordinato rabbino nel Jewish Theological Seminary , esercitando il culto nella famosa Kehillat Yeshurun di New York. Sviluppò una visione conservatrice del giudaismo, e per concretizzare le sue idee collaborò alla fondazione della Kehillah di New York. Tra le sue opere: Judaism as a Civilization (1934), A New Zionism (1955), Festival Prayer Book (1958), Daily Prayer Book (1964).
[19] In Europa i rabbini, oltre a celebrare i matrimoni e concedere i divorzi, vedevano confermata la validità civile dei loro atti; erano abilitati a dirigere la vita civile della comunità, erano arbitri di dispute, controllori di istituzioni pubbliche, insegnanti. In America, invece, le autorità dovevano confermare la validità civile delle cerimonie nuziali; per quanto riguardava i divorzi, il concederli senza l’assenso delle autorità poteva essere considerato un atto criminale. Per gli alimenti kosher i rabbini conservavano poca influenza sulla concessione dei permessi di vendita, e percepivano bassi salari dalle congregazioni, con cui stipulavano veri e propri contratti di lavoro.
[20] Nathan Birnbaum fece derivare il termine da Sion, nome di un colle di Gerusalemme, sacro agli ebrei e ricordato anche nei Salmi, poichè vi si trova la tomba di Davide, secondo re degli ebrei che conquistò la città nel 996 a.C. Durante la diaspora il monte è stato reso idealmente il centro di Gerusalemme, dal momento che non esisteva più il Secondo Tempio, distrutto dai romani nel 70 d.C. Quindi Sion è diventato sinonimo di Gerusalemme.
[21] Ahad ha-‘Am, pseudonimo di Asher Ginzberg (1886-1927), considerato il fondatore del sionismo culturale, affermava che la maggior parte degli ebrei avrebbe continuato a vivere in esilio, convinti di poter migliorare la propria condizione sociale ed economica senza trasferirsi in Palestina. Era nella diaspora che si sarebbe dovuto cercare una soluzione al problema ebraico. Diversamente da Herzl, che proponeva il trasferimento degli ebrei di ogni parte del mondo verso la Palestina, Ahad ha-‘Am pensava alla creazione di una comunità costruita da intellettuali ebrei preparati nella cultura giudaica, piuttosto che dall’avvento di un messia. Questo centro spirituale avrebbe legittimato la rinascita di una nazione e, in seguito, della religione. I rapporti all’interno della futura società ebraica di Israele e con il resto degli ebrei nel mondo sarebbero stati soprattutto di carattere laico e culturale.
[22] Valga ad esempio la Histadrut , l’associazione sindacale dei lavoratori sionisti in Palestina, ad orientamento socialista. Essa è diventata il più potente sindacato di Israele con interessi in tutte le attività economiche del paese.
[23] Brandeis (1856-1941) era un avvocato e un riformista sociale. Egli negoziò il protocollo di pace con cui la settimana lavorativa veniva ridotta a 50 ore e il sistema di contrattazione veniva abolito, prevedendo un meccanismo di composizione delle liti giudiziarie nel campo del lavoro. Su proposta di Brandeis fu istituito un controllore imparziale che vigilasse su ogni tentativo di infrazione degli accordi sindacali.
[24] Tra questi c’erano David Ben-Gurion, che visse qualche anno a New York e che fu il primo ad occupare la carica di primo ministro israeliano, Golda Meir, un altro primo ministro, originaria di Milwaukee, lo scienziato Hayim Weizmann, il primo capo di stato di Israele, Teddy Kollek, per trent’anni sindaco di Gerusalemme.
[25] Dato che la terra di Israele si trova, nell’immaginario di ogni ebreo, su un piano più elevato rispetto agli altri paesi, l’immigrazione in Palestina è paragonata a una salita e il suo abbandono a una discesa; così i movimenti migratori in e dalla Palestina sono definiti ‘aliyah e yeridah.