CAPITOLO 3 – Prima e seconda generazione a confronto
- I ghetti dorati
- Il giudaismo e la sinagoga
- La filantropia
- La scuola pubblica
- Tre studi sugli ebrei della seconda generazione
5.1. Yankee City
5.2. North City
5.3. Lakeville
(Il tipico membro della seconda generazione) vuole dimenticare tutto: la lingua straniera, che lascia una traccia inconfondibile nel suo inglese, la religione, che gli ricorda le tensioni adolescenziali, le abitudini familiari, che dovrebbero essere i ricordi più felici. Vuole allontanarsi da tutto ciò che gli ricorda fisicamente la sua origine e ritrovarsi in un ambiente così diverso, così americano che tutti quelli che gli stanno vicino diano per scontato che sia un americano, come loro.
MARCUS HANSEN [1]
Dopo aver trattato le principali caratteristiche dell’insediamento ebraico di New York, in questo capitolo esamino gli aspetti più rilevanti che hanno caratterizzato gli ebrei della seconda generazione, cioè il quartiere di abitazione, la religione, la filantropia e l’istruzione. Segue la sintesi di tre ricerche sugli ebrei della seconda generazione, compiute in località e tempi diversi.
3.1. I ghetti dorati
Gli ebrei che avevano compiuto in varie ondate ed epoche la traversata dell’Atlantico per giungere in America rappresentavano un ponte tra il mondo tradizionale e chiuso che avevano lasciato (o, come in alcuni casi, riprodotto) in Europa, e la modernità dell’America, la nuova patria. Arrivati negli Stati Uniti, gli immigrati si insediavano in quartieri comuni, i nuovi ghetti, quasi a mostrare una certa riluttanza a rimuovere dalla propria mentalità quella condizione che aveva caratterizzato la loro vita europea. Nel Medio Evo gli ebrei generalmente vivevano, di loro iniziativa, separati dai cristiani nei quartieri centrali delle città europee. Fu verso il Seicento che nell’Europa centrale venne imposto agli ebrei di abitare nei ghetti, dai quali non potevano uscire di notte; questo fenomeno storico cominciò in Italia nella metà del Cinquecento quando il papa Paolo IV impose agli ebrei la chiusura nel ghetto. Le condizioni di sovraffollamento e di scarsa igiene rendevano questi luoghi malsani e nocivi per la salute ma, non impediva una ricca vita culturale basata sui libri sacri del giudaismo. Nel nuovo ghetto americano, costituito dal quartiere di primo insediamento, gli ebrei si sentivano a proprio agio, soffrivano meno le conseguenze del mutamento della situazione sociale ed erano aiutati nello sforzo di integrazione. L’affollamento del quartiere ebraico dava una sensazione di intimità e di familiarità tra gli abitanti di una via, di un isolato, tra gli avventori di uno stesso mercato. Questa intimità era avvertita anche dai figli, cresciuti nei quartieri ebraici delle maggiori città americane, diventati una sorta di ghetto volontario. Nei loro sforzi di conquistare migliori posizioni nella società americana, essi davano grande importanza al sentimento etnico inteso come una sintesi tra i valori e le mode prese in prestito dalla borghesia e la cultura urbana americana arricchita dai valori e dagli ideali ereditati dai genitori, senza per questo tralasciare la grande importanza della storia e dei costumi ebraici.
Ai membri della seconda generazione va riconosciuto il merito di aver affermato che si potesse essere ebrei in vari modi. Diciamo “merito”, considerata la staticità dell’ebraismo tradizionale in Europa attraverso i secoli, dovuta alla rigidità delle forme di osservanza e al ghetto coatto. Sempre loro è il merito di aver creato l’ossatura di una struttura sociale per i loro figli, tanto amalgamata che questi ultimi erano incapaci di distinguere la diversa provenienza degli elementi dell’educazione ricevuta. Il miglioramento dello status sociale conseguito dai figli degli immigrati causò un’esodo di massa dal ghetto verso gli eleganti sobborghi di residenza, che costituirono la base dei cosiddetti “ghetti dorati” (vedi cap. II). Questi erano delle comunità chiuse in cui viveva la borghesia ebraica che aveva relazioni sociali esclusivamente con altri ebrei di eguale status e le cui istituzioni erano parallele a quelle della borghesia americana, anche se formate da ebrei. Non tutti riuscirono a raggiungere una buona posizione economica e così cominciarono a svilupparsi differenze di status tra gli ebrei. Ciò all’origine di gravi contrasti che resero meno evidente la crescente omogeneità di una nuova società ebraica. Durante la prima guerra mondiale, tuttavia, il processo di fusione tra gruppi diversi ebbe una spinta notevole e, verso gli anni ’20, la comunità ebraica poteva dirsi realmente più omogenea. Una maggiore prosperità economica aveva permesso alle famiglie di più recente formazione di abbandonare i quartieri sovraffollati degli immigrati per trasferirsi in ambienti migliori, più “americani”, accelerando ulteriormente il processo di integrazione. Gli ebrei hanno utilizzato le relazioni di vicinato, caratterizzate dall’esistenza di organizzazioni, come l’ordito per tessere la struttura della comunità, e l’hanno fatto sia individualmente che come membri di un gruppo. Ne è risultato un ambiente che ha incoraggiato lo sviluppo di un senso di identità indipendente da ogni associazione religiosa ebraica. I contatti e i legami di amicizia che univano gli ebrei dello stesso quartiere avevano trasformato l’ambiente fisico in una comunità morale. Nell’intimità del quartiere-rifugio, gli ebrei si identificavano con i loro vicini; le loro attività quotidiane, la famiglia, le relazioni sociali e le istituzioni diventavano motivo di coesione etnica. E’ interessante, in proposito, la testimonianza di Gornick: “La caratteristica dominante delle strade dove sono cresciuto era l’ebraicità nelle sue varie forme” (in Moore, 1981:63).
Secondo il sociologo Nathan Glazer il ghetto dorato, in cui erano andati ad abitare gli ebrei, assicurava a ogni forma di giudaismo un numero minimo di seguaci. C’erano i conservatori, i riformisti, i tradizionalisti, tutti potevano coabitare tranquillamente nel ghetto dorato. Allo stesso tempo il quartiere sviluppava un modello di vita sociale indifferente verso il giudaismo, e addirittura ostile in alcuni casi. Nel quartiere ebraico c’erano organizzazioni di sionisti o di yiddishisti che erano formalmente indifferenti verso la religione, pur perseguendo delle attività inequivocabilmente ebraiche. Le istituzioni ospitate dal quartiere erano fondamentali nel processo di ricostruzione dell’ebrai, ma a causa dell’eterogeneità della popolazione davano anche adito a controversie sia all’interno delle comunità ebraiche, sia con altre etnie che abitavano il quartiere. Questi nuovi quartieri avevano in comune varie caratteristiche tanto nella struttura fisica che in quella sociale. Approdandovi con atteggiamenti mentali differenti, ereditati dai genitori immigrati da vari paesi, gli ebrei della seconda generazione trovarono che la vita di quartiere li incoraggiava a mutare i loro comportamenti e a ristrutturare le loro organizzazioni aggiungendovi modelli sociali provenienti sempre dalla cultura del gruppo ebraico, soprattutto quello dell’associazionismo. Non si riusciva però a formalizzare il riconoscimento che era attribuito alle esperienze passate: “Il ghetto degli anziani ha preservato il giudaismo ma il ghetto dorato di oggi non ha più valori spirituali” (Moore, 1981:69). Di fatto le istituzioni religiose che incoraggiavano lo studio dei testi sacri erano state relegate ai margini dell’organizzazione della vita nel ghetto dorato. E’ capitato talvolta che gli ebrei residenti in aree etnicamente più eterogenee ne siano fuggiti per andare in zone di concentrazione residenziale che offrissero maggior protezione alle famiglie e ai bambini dai comportamenti discriminatori. “Abbiamo fatto un errore a crescere i nostri figli nella comunità dei cristiani; ne sono stati feriti. Le amicizie dell’infanzia non contano. Ritornando dal college non sanno dove cercare degli amici” (in Wessel, 1948:442). Erano più o meno questi i commenti delle famiglie ebraiche che avevano ritenuto di poter convivere con membri di altre etnie. La famiglia ebraica effettivamente sembrava essere ancora più coesa quando offriva ai propri membri un’oasi di intimità e comprensione, e tendeva a migliorare e rafforzare la comunità etnica per offrire un ambiente sociale adatto allo sviluppo della personalità. Questi modelli di associazione, inerenti alla vita di quartiere, favorivano la persistenza di un senso di etnicità ebraica, permettendo agli ebrei delle grandi città americane di mantenere stabili confini di quartiere. A causa di questa autosegregazione i quattro quinti degli ebrei non avevano contatti con non ebrei, salvo nelle scuole pubbliche dove la percentuale s’abbassava di molto (Moore, 1981:85). Ciò induce a concludere come, negli anni tra le due guerre, la grande maggioranza degli ebrei in America non desiderasse l’assimilazione: nonostante frequentassero scuole e università americane, leggessero libri e giornali in inglese, erano socialmente molto distanti dagli altri gruppi etnici. Il sociologo Will Herberg confermava che per gli ebrei della seconda generazione le occasioni di socializzare con non ebrei erano ridotte: dopo la chiusura di scuole, uffici e negozi era più difficile avere contatti, non c’erano feste, visite, club in comune. Lo scopo da raggiungere -secondo questo autore- era limitare i rapporti sociali all’interno del proprio gruppo e favorire i matrimoni con altri ebrei. In effetti, parallelamente all’allargarsi della cerchia di conoscenze al di fuori del proprio gruppo, si notava nei figli dei primi immigrati un aumento della tendenza a contrarre un matrimonio misto (in Gordon, 1964:181 [2] ).
3.2. Il giudaismo e la sinagoga
Negli anni ’20-’30 furono le aree di secondo insediamento, quelle dove si concentrava il maggior numero di ebrei, a diventare il luogo privilegiato per la costruzione di modelli di vita ebraica per il futuro. Sebbene fosse aumentato il numero delle sinagoghe e dei centri culturali e ricreativi ispirati alla religione sembrava che il giudaismo fosse ormai destinato a dissolversi. La grande maggioranza dei figli degli immigrati aveva assunto un atteggiamento di quasi indifferenza od ostilità verso il giudaismo. Ciò contrasta con il fatto che l’istruzione religiosa ebraica fosse meglio organizzata che in passato. In quel periodo si affermò un tipo di scuola, a volte mantenuta dalla comunità, altre volte affiancata alla sinagoga, dove si insegnavano l’ebraico, la storia degli ebrei, la lettura dei testi sacri. Nel 1935 venne calcolato che circa un quarto degli scolari ebrei riceveva qualche tipo di educazione ebraica (Glazer, 1957:112). Spesso, tuttavia, questa istruzione non aveva nulla a che fare con il giudaismo. Del resto, la vita delle comunità concentrate nelle aree di secondo insediamento non aveva necessariamente qualcosa a che vedere con la religione ebraica. Così molte scuole che i bambini ebrei frequentavano dopo la scuola pubblica erano non solo neutrali verso la religione, ma addirittura antireligiose. Le attività che si erano sviluppate non erano direttamente collegate alla religione: la filantropia, le organizzazioni fraternali, gli ospedali, gli orfanotrofi, le case di riposo per anziani, le agenzie sociali per i poveri, i centri di adattamento. La religione vedeva diminuita la propria influenza sulla comunità ebraica, essa era solo uno dei tanti elementi presenti nelle diverse attività che fervevano: religiose, politiche, culturali, intellettuali, filantropiche. Si dovrebbe forse distinguere, come fa Gans, tra due aspetti della vita ebraica, il giudaismo e l’ebraicità (in Dworkin & Dworkin, 1976:330). Con il primo si deve intendere la cultura ebraica, anche se il termine indica prevalentemente (e tradizionalmente) il complesso di codici cerimoniali religiosi. Invece l’ebraicità si riferisce al sentimento di identità che un individuo ha in quanto ebreo, e il concomitante senso di identificazione con altri membri della comunità ebraica. Piuttosto che sentimento di appartenenza, l’ebraicità un effetto della coesione della comunità ebraica, non una sua causa. Molti ritenevano che questo tipo di comunità potesse sostituire l’allora morente ortodossia e ridare al giudaismo una nuova forma più adatta all’America. Il giudaismo, sia riformato che ortodosso, non aveva molti punti di contatto con una comunità ebraica di questo tipo, in cui la religione diventava solo un possibile aspetto dell’ebraicità. Gli immigrati ebrei più poveri, generalmente molto osservanti, avevano trasformato la sinagoga tradizionale. I loro figli, trasferitisi nei ghetti dorati, l’avevano trasformata di nuovo dandole la funzione di argine contro la completa assimilazione.
Nel sistema religioso istituzionale degli ebrei in Europa orientale e degli immigrati era presente la hevrah , una sorta di appendice della shul [3] che si occupava di varie attività non strettamente collegate al rituale religioso. Raggiunta una migliore posizione, i membri della seconda generazione non avevano più riconosciuto la hevrah come una variante americana, ritenendola piuttosto una tradizione simboleggiante il vecchio mondo ortodosso. S’erano resi conto che la cultura e la religione tradizionali erano troppo rigorose per essere il collante che potesse tenere uniti gli ebrei in America. Perciò si fondarono nuove istituzioni che, oltre alla celebrazione dei riti semplificati nella forma esteriore, tentassero di evidenziare la posizione sociale degli ebrei della seconda generazione. Gli ebrei dell’Est, a differenza dei discendenti dei tedeschi di qualche decennio prima, come si è detto, intendevano affermare la propria diversità etnica creando delle strutture atte sia al culto, elemento prettamente ebraico, sia alle mode mutuate dalla borghesia protestante. Nelle nuove sinagoghe d’America i fedeli si trovavano a loro agio, consideravano il tempio come luogo di ritrovo, come circolo sociale, attratti perlopiù dal servizio salmodiante del hazzan. Si dava insomma la possibilità di inserirsi nel sistema sociale statunitense mantenendosi in un ambiente ebraico che superasse la logica del quartiere-ghetto. Le sinagoghe-centri erano espressione del movimento ricostruzionista del rabbino Mordecai Kaplan, il quale sperava di poter contribuire a un inserimento del giudaismo nella società americana che non comportasse l’assimilazione degli ebrei. Le sinagoghe-centri, che via via vennero fondate, servirono a favorire i contatti primari essenziali per preservare il gruppo ebraico e garantirne la separazione dal resto della società, senza impedire che venissero assorbiti i valori della borghesia americana.
3.3. La filantropia
Un’altra fondamentale differenza tra gli immigrati e la seconda generazione consistette nel passaggio dalla tzedakah [4] alla filantropia. La tzedakah era stata parte integrante della tradizione rituale israelita, sia tra i sefarditi che tra gli ortodossi est-europei. “Ogni ebreo è responsabile del suo prossimo…” dice il Talmud , enfatizzando così il dovere morale di carità e implicando il concetto di giustizia. Era un modo pratico per indurre gli ebrei a prendersi cura dei poveri e dei bisognosi. Nella tzedakah veniva affermato quel senso di responsabilità collettiva e sociale che in America ricevette nuovo slancio e significato. Spesso, nel ghetto americano, come nello shtetl estevano organizzazioni ad hoc, che raccoglievano gli oboli versati e li destinavano al finanziamento delle attività della hevrah ; la tzedakah continuava così ad avere un ruolo importante nella comunità israelita. Una prima trasformazione, superficiale e classista, si era registrata, nel diciannovesimo secolo, tra gli ebrei tedeschi nel tentativo di inserirsi meglio nella società anglo-sassone. Con loro la filantropia aveva assunto la caratteristica di un’attività sociale di facoltosi individui, quasi una moda da praticare in società, una “carità interessata”. Ai primi di questo secolo la filantropia diventò, con gli ebrei della seconda generazione, soprattutto est-europei e anche tedeschi, uno sforzo comunitario, un’impresa collettiva che cercava di unire gli ebrei in una comunità di interesse con dimensioni morali. Diceva Rosenfelt, un ricco donatore: “Non siamo più ortodossi e riformisti, conservatori e radicali, stiamo diventando tutti uniti, legati insieme dall’antica formula ‘Sono un ebreo!'” (in Moore, 1981:153).
La legittimazione della posizione di classe acquisita dai donatori di origine orientale diveniva uno degli elementi principali della filantropia, non più il fondamentale come era stato nel caso dei tedeschi. Elemento altrettanto importante, la filantropia appariva come la messa in pratica del “Vangelo del Benessere”, di moda negli anni precedenti il crollo di Wall Street del 1929. Era un dogma della religione civile americana che richiedeva che la filantropia fosse non settaria ed effettivamente a vantaggio di tutti gli americani. Facendo acquistare agli ebrei lo status di membri della religione civile si prometteva loro l’accettazione nella società e, in alcuni casi, anche una parziale integrazione. Questi atti di generosità rafforzavano nei donatori il senso di identità etnica e creavano una base per ricostituire la comunità. Le possibilità per la filantropia organizzata sembravano infinite, sia in senso materiale che astratto.
Un altro compito assolto dalla seconda generazione è stato la trasformazione, ai propri fini, di un istituto prettamente religioso e tradizionale tipico dei genitori, in un altro più moderno e rispondente ai dettami della nuova società. Il presidente di un comitato per la raccolta di fondi disse, a proposito della filantropia come strumento di trasmissione dell’identità etnica: “(Con la filantropia si deve) trasmettere il compito di raccogliere fondi per Israele ai figli e nipoti… che si ricorderanno di essere ebrei” (in Hertzberg, 1993:326).
Un elemento importante della tradizione ebraica, strettamente collegato alla filantropia, rimaneva vivo, anche se in forma secolarizzata, e continuava a guidare il comportamento degli ebrei della seconda generazione: la giustizia sociale. Secondo Glazer, molti ebrei americani si schierarono tra i difensori delle libertà e dei diritti civili ed erano a favore di politiche che migliorassero la posizione dei lavoratori (1957:134). Dagli studi condotti da Glazer e Moynihan risulta con evidenza come gli ebrei appoggiassero la desegregazione dei neri e la maggiore estensione possibile delle libertà di espressione e pensiero, e come sostenessero le organizzazioni per l’integrazione razziale e la tolleranza tra i vari gruppi etnici (1970:293). Mediante il riadattamento dell’antica dottrina del “popolo eletto”, gli ebrei cercavano di assumersi il ruolo di guida accollandosi particolari responsabilità verso la società in cui vivevano.
Nel periodo della Grande Depressione dei primi anni ’30, si ebbe un declino della filantropia. I contributi si erano drasticamente ridotti sia per la povertà di massa che aveva colpito larghi strati della popolazione, sia perchè il Governo statunitense cominciava a interessarsi direttamente della disoccupazione e dell’assistenza pubblica.
3.4. La scuola pubblica
Tra tutte le istituzioni americane, la scuola pubblica ha esercitato una particolare influenza sugli ebrei della seconda generazione. Per la grande maggioranza degli ebrei immigrati la scuola costituiva l’istituzione americana per eccellenza, che rappresentava la nuova società, che ne custodiva i valori, essa era il simbolo delle aspirazioni dei giovani in grado di esercitare un’influenza anche sui genitori. Era considerato legittimo che gli scolari venissero strappati dalla cultura d’origine mediante programmi di americanizzazione. La scuola pubblica, pur offrendo l’accesso alla società americana, consentiva pochi contatti con americani non ebrei, gli scolari israeliti erano infatti raggruppati in genere nelle stesse classi. La scuola pubblica s’assumeva l’onere di americanizzare i “piccoli selvaggi” e il compito di allontanarli dalla loro eredità etnica. Questo era causa di conflitti tra genitori e insegnanti. Gli immigrati ebrei percepivano la sfida della scuola pubblica come un incentivo all’inserimento nella società statunitense. Era però difficile inserirsi, principalmente perchè il processo di americanizzazione consisteva nell’insegnamento della cultura anglo-sassone attraverso la lingua inglese.
In Europa gli ebrei est-europei consideravano l’educazione religiosa un completamento di tre scopi collegati tra loro: trasmettere la cultura religiosa ebraica, occuparsi dell’identità etnica del bambino e inserirlo nella struttura sociale. Tutto ciò, una volta in America, doveva essere sostituito dalla scuola pubblica. Per questo si accentuò il fenomeno di sistemi diversi di istruzione ebraica in grado di trasmettere il sentimento di identità ai piccoli. Ciò comprovato dall’esistenza di scuole religiose, di ispirazione socialista, o nazionaliste radicali, tutte in alternativa alla scuola pubblica. I primi arrivati avevano accettato passivamente i programmi della scuola pubblica, ritenendo inevitabile che la personalità del bambino si dovesse formare alternativamente tra la scuola pubblica e la scuola ebraica. Invece la seconda generazione si pose il problema del conflitto causato dalle scuole pubbliche e si attivò esse cercassero di fornire ai loro figli un sufficiente senso di identità ebraica.
La mutata composizione degli insegnanti e degli studenti della scuola pubblica del quartiere ebraico facilitò gli sforzi per trasformare i valori della scuola pubblica locale. L’aumento del numero degli insegnanti e dei direttori ebrei contribuì a far sentire il sistema di istruzione statunitense più rispettoso della specificità ebraica.
L’atteggiamento verso la scuola pubblica cambiava a seconda se gli ebrei aderissero alla Riforma o al Movimento conservatore. Gli ebrei riformati, commenta Gleason, guardavano alla scuola pubblica, neutrale in materia di religione, come a “una benedizione e una necessità, essendo le scuole un microcosmo della società in cui i bambini ebrei, da adulti, avrebbero occupato un posto” (1992:182). Molti altri genitori, specie gli aderenti alla corrente conservatrice del giudaismo, si sforzavano invece di sviluppare un sistema di educazione religiosa che non nuocesse alla centralità della scuola pubblica e altri ancora rivolgevano la loro attenzione all’antico ebraico, che era stato “riscoperto” alla fine dell’Ottocento. Il mito degli ebrei amanti dello studio, sorto tra gli anni ’20 e ’30, induceva a chiedere di introdurre nelle scuole lo studio delle tradizioni etniche ebraiche, anche se insegnate in inglese. Le autorità scolastiche definivano il corretto inglese come la chiave per entrare nella vita americana, capace di trasmettere valori e usi del paese; agli immigrati e ai loro figli veniva fatto capire che l’inglese li avrebbe aiutati ad “avere successo nella società americana” (Moore, 1981:104).
Gli immigrati sembravano essersi convinti che alcuni tratti culturali finissero per precludere loro un più facile accesso alla società americana. Lo yiddish, in particolare, l’idioma della povertà e dell’oppressione nella diaspora che richiamava il degrado in cui vivevano, contribuiva ad infondere in molti ebrei un forte senso di imbarazzo. Gli ebrei della seconda generazione cominciarono a guardare all’ebraico come simbolo di etnicità compatibile con la realtà americana. I sionisti credevano che si potesse salvaguardare l’etnicità ebraica, senza tralasciare lo sforzo di inserire il gruppo ebraico nella società americana; erano convinti che l’integrazione degli ebrei non dovesse pregiudicare la loro integrità. Si spiegano così le ripetute richieste inoltrate al Ministero dell’Istruzione affinchè la lingua e la cultura ebraiche fossero inserite tra le materie d’insegnamento. L’ebraico era considerato espressione di identità etnica perchè, pur rappresentando un’eredità ancestrale, rompeva le barriere del tempo e dei confini delle nazioni. Soprattutto esso era ritenuto, tra tutte le lingue parlate dagli ebrei, l’unica capace di unificarli. Evocava la lontana Palestina, il territorio dell’antica patria indipendente e non l’Europa orientale delle persecuzioni, richiamata invece dallo yiddish.
Nel 1929 fu istituita una commissione, composta da numerose personalità israelite presenti nel mondo della cultura ebraico-americana, che chiese al Ministero dell’Istruzione di introdurre l’ebraico nei programmi della scuola pubblica (Moore, 1981:111). Tra i componenti spiccavano vari personaggi di rilievo come lo scrittore Ahad ha-‘Am, il fondatore del sionismo culturale, Brandeis, membro della Corte Suprema dal 1916 e leader dei sionisti americani, Schechter, presidente del Jewish Theological Seminary , e Kaplan, il fondatore dello yeshiva-college. Nel documento stilato dalla commissione si metteva l’accento sul carattere non religioso dell’ebraico, trascurando il fatto che, in realtà, la struttura dell’ebraico moderno corrisponde a quella della lingua dell’Antico Testamento. Se l’ebraico è sopravvissuto per duemila anni dopo la volgarizzazione sfociata nell’aramaico [5] e l’oblio della diaspora, è merito dei testi sacri della religione ebraica che lo hanno “cristallizzato”. Si chiedeva al Ministero di rimediare anche alle ingiustizie commesse ai danni degli scolari ebrei (come l’imposizione dei valori americani standard, la confusione nell’interpretazione del rapporto chiesa-stato e l’impiego esclusivo di insegnanti cristiani nei primi periodi), al fine di recuperare l’orgoglio per le tradizioni d’origine, da considerare non più un ostacolo all’integrazione nella società americana ma un suo complemento. La richiesta dell’introduzione dell’ebraico nelle scuole venne respinta con la motivazione che fosse da considerarsi “settario”. Ciononostante, nel 1930, su iniziativa dell’unico membro ebreo del Ministero, l’ortodosso Samuel Levy, si autorizzò un esperimento di studio dell’ebraico in due classi di due scuole di New York. Il buon risultato di questo esperimento rafforzò la convinzione che le lingue straniere fossero, in generale, un modo per sviluppare nello studente l’apprezzamento delle culture straniere e per renderlo più consapevole della natura della società in cui viveva. Questa considerazione motivò il cambiamento di opinione del Ministero: nel 1931 l’ebraico diveniva materia facoltativa (Moore, 1981:111-2). Tuttavia, questa iniziativa non ebbe grande successo: nel 1940 il 4% degli studenti ebrei aveva scelto l’ebraico… (Moore, 1981:114).
La sorte dello yiddish fu diversa. Le società yiddishiste si limitavano a pubblicare grammatiche, vocabolari, a organizzare convegni, a stimolare l’attività dei teatri che mettevano in scena commedie in yinglish , il cui pubblico era costituito dai vecchi immigrati. La Yiddish Culture Society non aveva sufficienti appoggi politici per ingaggiare una battaglia analoga a quella condotta per l’ebraico, anche se l’insegnamento dello yiddish avrebbe accorciato le distanze tra la scuola e la famiglia. Il tentativo di inserire anche lo yiddish tra le materie di insegnamento era fallito, complice anche la convinzione diffusa tra gli ebrei della seconda generazione che una cultura da definire ebraico-americana si sarebbe formata anche senza lo yiddish. Comunque un piccolo cambiamento si registrò nella scuola pubblica: gli insegnanti potevano pronunciare termini yiddish senza essere più derisi.
Nei primi anni del Novecento i direttori delle scuole pubbliche di New York erano soliti insistere affinchè gli alunni ebrei partecipassero alle celebrazioni scolastiche del Natale. Gli ebrei -dicevano i direttori- non dovevano venir esclusi dalla partecipazione a festività come questa, caratterizzate da “una portata universale”. Come conseguenza, i rabbini e la stampa yiddish della città spingevano i genitori a tenere a casa i figli nel periodo di Natale in segno di protesta contro cerimonie definite “settarie”. Nel 1906 si raggiunse il culmine del boicottaggio delle scuole: un terzo degli scolari ebrei non frequentò le lezioni nel periodo festivo (Howe, 1990:379). Nel corso degli anni ’20 la questione venne ripresa: si cercò di convincere i membri del Ministero a tenere conto delle festività ebraiche nella compilazione dell’orario scolastico e, in particolare, di porre termine alle lezioni del venerdì pomeriggio coincidente con l’inizio dello Shabbat [6] . Una delegazione di ebrei si presentò al Ministero con la richiesta di “abolire le immagini della Madonna, i componimenti su Gesù, gli alberi di Natale … tanto quanto i corrispondenti simboli del giudaismo, o dell’islamismo, o dell’ateismo” (in Howe, 1990:379). Il Ministero girò la questione ai sovrintendenti di distretto e ai presidi delle scuole: a loro era affidata la valutazione di quali cerimonie fossero appropriate e quali no. Si ottenne, in questo modo, un vago riconoscimento dell’esistenza delle differenze etno-religiose, non un mutamento della politica relativa alla scuola pubblica. Contrariamente a quanto era avvenuto per la questione della lingua ebraica, non si ebbe successo nel modificare le celebrazioni cristiane del Natale e della Pasqua nelle scuole. Non erano ancora maturi i tempi per l’approvazione di una legge ad hoc: solo nel 1972, con l’ Equal Employment Opportunity Act , si riconobbe agli israeliti il diritto di osservare lo Shabbat e le altre festività religiose, a meno che ciò non nuocesse al datore di lavoro o al proseguimento degli studi (Howe, 1990:378). Nonostante questo insuccesso, aumentava la disponibilità del Ministero dell’Istruzione ad appoggiare il pluralismo nella scuola pubblica. Per riaffermare la fiducia nella democrazia americana, le scuole dovevano preparare gli alunni ad essere consapevoli dei contributi di tutte le etnie e nazionalità nello sviluppo della democrazia americana.
In un certo senso, proprio le scuole pubbliche funsero da bastione di tolleranza contro le manifestazioni di antisemitismo del Fronte Cristiano degli anni ’30. Il sempre maggiore impegno del Ministero nel favorire il pluralismo democratico portò, in definitiva, alla legittimazione dell’etnicità ebraica mediante l’introduzione della lingua ebraica e delle tradizioni giudaiche nelle scuole. Gli insegnanti ebrei di New York avevano raggiunto, alla metà del secolo, la percentuale di circa il 50% del totale, e la maggioranza dei presidi di scuole era di origine ebraica. Il Ministero dell’Educazione spesso è stato costretto a chiudere le scuole in occasione delle festività israelite del Capodanno e dello Yom Kippur , essendo impossibile disporre di un numero sufficiente di supplenti per coprire il posto degli insegnanti ebrei che chiedevano una licenza (Glazer & Moynihan, 1970:146).
In definitiva, quando erano immigrati poveri, gli ebrei vedevano la scuola pubblica come un corpo estraneo, seppur vicina alle loro abitazioni. Diventati una classe borghese, gli ebrei della seconda generazione cercarono di conformarla ai valori tradizionali ebraici e riuscirono a cambiare la funzione delle scuole pubbliche che da agenti di americanizzazione diventarono sempre più strumenti di pluralismo democratico.
3.5. Tre studi sugli ebrei della seconda generazione
In questo paragrafo prendo in esame tre importanti studi sugli ebrei della seconda generazione in cui vengono messi in luce alcuni mutamenti verificatisi rispetto alla prima generazione, soprattutto per quanto riguarda la famiglia e l’osservanza religiosa. Il primo studio, su Yankee City, di W. L. Warner e L. Srole, risale al periodo tra il 1930 e il 1935. Il secondo, su North City, del 1957, opera di J. R. Kramer e S. Leventman. M. Sklare e J. Greenblum sono gli autori del terzo studio condotto sulla comunità ebraica di Lakeville [7] . Nel riassumere i dati principali emersi da queste ricerche, mi sono avvalso del contributo di Epstein che alla ricostruzione dei tre studi dedica gran parte del suo saggio sull’identità ebraica (1983:127-153).
3.5.1. Yankee City
Yankee City è lo pseudonimo di una città dell’America orientale; in realtà la città di Newburyport nel Massachusetts. Nel suo periodo di crescita industriale avvenuta intorno al 1840, Yankee City era diventata un polo di attrazione economica e si era mostrata in grado di assorbire gruppi di origine eterogenea, anche se i nativi mantenevano una posizione di dominio. I vari gruppi etnici, almeno negli anni immediatamente seguenti all’arrivo, tendevano a risiedere in un dato quartiere, che poi finiva per identificarsi con i suoi abitanti. Per quanto riguarda gli ebrei, sembravano favoriti dall’esperienza urbana acquisita dai genitori in Europa. Infatti, rispetto agli altri gruppi etnici e agli autoctoni, gli ebrei della seconda generazione mostravano di aver raggiunto uno status professionale e sociale elevato. Come conseguenza del miglioramento di status, spesso si registrava un cambiamento di comportamento, sia in pubblico che in privato. Due aspetti fondamentali della vita ebraica, la famiglia e l’osservanza religiosa, vengono analizzati dal punto di vista dei cambiamenti registratisi tra la prima e la seconda generazione. La casalinga ebrea, subordinata al marito nella tradizione ortodossa, acquistava nella nuova realtà margini di tempo sufficienti per interessarsi anche di atti sociali e di questioni comunitarie, grazie alla presenza di cameriere, di elettrodomestici, a una divisione più paritaria con il marito dei compiti relativi all’educazione della prole. La moderna famiglia americana diventava il modello che soppiantava, non senza attriti e tensioni, quello tradizionale. Seri motivi di conflittualità venivano dal rifiuto da parte dei figli di seguire l’osservanza religiosa, in gradi via via più marcati, fino all’allontanamento dalle funzioni religiose, al rifiuto di consumare alimenti kosher e di arredare la casa con oggetti sacri. Una spinta all’abbandono dell’osservanza del riposo dello Shabbat veniva dallo stesso sistema economico americano, in cui il giorno di sabato era, nella settimana, quello con più lavoro per il commercio. Rispettare le tradizioni, che proibivano ogni attività lucrativa nello Shabbat , avrebbe comportato per i commercianti ebrei una grave perdita economica. Il fatto che i figli si piegassero alle esigenze degli affari costituiva un grande dispiacere per i genitori.
La propensione della seconda generazione verso valori “alternativi” metteva in pericolo l’esistenza del gruppo etnico, almeno così come questo era visto dagli immigrati. Alcune donne avevano dichiarato ai ricercatori di essere afflitte da sentimenti di colpa per l’allontanamento dei figli dalle tradizioni, fatto di cui anche esse si sentivano responsabili. Esse, con difficoltà, erano costrette ad ammettere che in casa non osservavano quasi più le regole religiose e che organizzavano la vita familiare secondo modelli yankee . Tra i tanti dati rilevati, uno appare in controtendenza. Mi riferisco al fatto che, alla fine del 1932, proprio i giovani della comunità ebraica di Yankee City si dimostrassero i più entusiasti sostenitori di una campagna di raccolta fondi per la costruzione di una nuova sinagoga. La sinagoga, tuttavia, non rappresentava tanto un ritorno all’ortodossia quanto la volontà di concretizzare l’adozione di un giudaismo più rispondente alle esigenze della nuova classe borghese e in armonia con lo stile moderno americano. L’approccio di Warner e Srole si basava sulla concezione di “gruppo etnico” come “gruppo culturale” e sul presupposto che l’assimilazione fosse un fattore da analizzare per comprendere il mutamento delle comunità immigrate. Secondo Warner e Srole esisteva una diretta connessione tra il grado di differenza etnica e il periodo di tempo necessario ad un gruppo per assimilarsi. In linea con una certa ideologia assimilazionista del periodo, come è stato fatto notare dai Dworkin, quei gruppi minoritari che differivano in modo significativo dalla maggioranza per caratteristiche fisiche -la pelle nera ad esempio- o culturali avrebbero avuto bisogno di più tempo per potersi assimilare (1976:115).
3.5.2. North City
C’è un’analogia tra lo studio di Warner e Srole e quello di Kramer e Leventman sulla seconda e terza generazione a North City. Si tratta dell’importanza attribuita all’influenza reciproca tra generazione e classe e dei rapporti che questi due fattori hanno con l’etnicità. Ci sono tuttavia anche delle differenze che derivano dal periodo storico considerato che appare caratterizzato da fasi diverse del processo di integrazione. Warner e Srole avevano dato rilevanza alla mobilità di classe, Kramer e Leventman invece si mostrano più interessati alla ricerca del motivo per cui gli ebrei rimanevano uniti e alle eventuali differenziazioni interne che si manifestavano a North City, dove si parla già di una terza generazione. Proprio questa generazione appare impegnata in una lotta per mantenere viva l’identità di gruppo senza trascurare il successo sociale nella società statunitense. La strada seguita sembra essere l’adattare l’organizzazione sociale della comunità ebraica alle norme e ai valori della società americana, mantenendo per la separazione dai gentili . Si tratta di un modello di integrazione che sembra corrispondere a quello definito da Gordon “assimilazione culturale comunitaria” (1981:180). Il termine “generazione”, fa notare Waxman (1981:84), viene definito da Kramer e Leventman in due modi diversi, la “generazione sociologica” e la “generazione cronologica”. Il primo termine indica l’insieme delle persone che condividono le stesse esperienze nello stesso periodo e assume, quindi, maggiore importanza al fine di comprendere la natura di una società. Il secondo indica invece l’insieme delle persone nate nello stesso periodo. In base a questa premessa, si può ritenere che la suddivisione dei membri della seconda generazione in classe superiore e inferiore fatta da Kramer e Leventman sia poco convincente, in quanto non viene evidenziata la realtà della società americana in generale.
I membri della comunità di North City si distinguevano in base all’appartenenza al Pinecrest Country Club e alla Silverman Lodge of B’nai B’rith . Gli iscritti al club erano i più ricchi e, anche se affiliati al Tempio della Riforma, erano poco osservanti. Infatti solo la metà assisteva ai servizi delle grandi feste, ridotte a un “week-end secolare” di svago, e nessuno osservava le complicate regole alimentari. Alcuni avevano nomi anglo-sassoni, per il fatto che i genitori desideravano per i loro figli i vantaggi di un circolo sociale non ebraico. La ricorrenza del Natale, in cui venivano scambiati doni e auguri non solo con cristiani ma anche con altri ebrei, era diventata la più importante dell’anno. E’ significativo il fatto che per alcuni degli iscritti al club la Hanukkah , festa minore nella tradizione ebraica [8] , fosse diventata una delle feste più importanti. Con questo cambiamento, forse, si cercava di imitare i cristiani, il cui Natale cade pressappoco nello stesso periodo. Gli iscritti alla loggia, meno ricchi, erano affiliati alla sinagoga conservatrice. Tra di loro si contava il maggior numero di seguaci dei servizi delle Grandi Feste, e di osservanti delle prescrizioni kosher . Non avevano mai nomi anglo-sassoni, quasi mai facevano l’albero di Natale e inviavano auguri natalizi esclusivamente a non ebrei. Gli affiliati al club si mostravano più interessati ai valori dei gentili e alla ricerca di relazioni sociali con non ebrei, gli affiliati alla loggia apparivano più attaccati alle tradizioni. Questi modelli di comportamento diversi riflettevano, secondo Kramer e Leventman, le rispettive posizioni sociali nella comunità. La popolazione ebraica di North City aveva un suo punto di riferimento nella Federazione per il servizio sociale ebraico che coordinava le attività delle sezioni locali di servizio sociale e di raccolta fondi. Il mantenimento di queste organizzazioni filantropiche era a carico della quasi totalità dei membri più ricchi. Penso che ciò rappresenti, in un certo senso, una contraddizione rispetto alla conclusione di Kramer e Leventman, secondo cui l’acquisizione di uno status più elevato comporterebbe il rifiuto di molti valori tradizionali ebraici e una più facile accettazione di quelli non ebraici. Questo può venir interpretato, non solo con l’esclusione da una piena ed effettiva partecipazione alla comunità dei gentili , ma anche con il fatto che gli uomini d’affari erano economicamente avvantaggiati dal mantenimento delle relazioni sociali con gli altri ebrei del club. Nonostante il desiderio di uscire dalla ristretta cerchia di amici e conoscenti ebrei, i businessmen ebrei riconoscevano che l’appartenenza al club favoriva i loro interessi nel mondo degli affari. Le loro relazioni sociali, quindi, erano orientate verso un’interazione reciproca evidenziata dalle generose donazioni alle organizzazioni filantropiche ebraiche. I genitori della seconda generazione, raggiunta la sicurezza economica, tendevano a educare i figli per prepararli al momento in cui avrebbero dovuto uscire dal ghetto dorato per entrare in una società omogenea. I giovani ebrei avevano studiato per praticare professioni più qualificate per le quali la condizione di ebreo non fosse un problema. La loro attività produttiva era rivolta sempre più alla società allargata piuttosto che alla società ebraica locale. La differenza nell’atteggiamento verso la religione tra i membri della seconda generazione e i loro figli consisteva nel fatto che gli ultimi si mostravano più tolleranti, più favorevoli verso di essa perchè non era più considerata un elemento di diversità fattore di separazione dal resto della società incoraggiava il trasferimento dei nuovi professionisti nei sobborghi residenziali ma poneva nuovi problemi riguardo all’identità: l’ebreo del sobborgo doveva socializzare con gli altri vicini e non doveva rinchiudersi nella propria particolarità etnica. A tal riguardo, è interessante un dato statistico relativo alla socializzazione dei figli: il 70% dichiarò di avere anche amici non ebrei, dato che contrasta con le risposte date alla stessa domanda dai genitori, dei quali il 70% socializzava solo con ebrei. Da notare, comunque, che alla richiesta di indicare chi fossero “i quattro amici più intimi”, l’80% del campione dei figli mostrava di voler includere solo altri ebrei. Evidentemente, nonostante una maggior disponibilità ad allacciare relazioni sociali con altri gruppi, restava un forte senso di solidarietà etnica. Un commento indiretto a questo atteggiamento racchiuso in questa citazione da Glazer e Moynihan: “L’unità ebraica sembra essere fatta in parte da un senso di timore che induce a conservare la propria posizione di gruppo distinto e separato, un timore per la possibilità di non essere compresi, che gli altri trovino curiosi quei pochi costumi religiosi rimasti e quello strano modo di pronunciare l’inglese” (1970:140-2).
3.5.3. Lakeville
Gli ebrei di Lakeville, sobborgo “esclusivo” di Lake City, oggetto dello studio di Sklare e Greenblum, mostravano una tendenza a mantenere un certo grado di separazione dalle altre etnie. Nella comunità ebraica di Lakeville, i genitori della seconda generazione apparivano preoccupati di dare ai figli soprattutto un’educazione centrata sulla storia e sulle tradizioni del popolo ebraico; volevano così renderli consapevoli della loro origine etnica. I bambini ebrei non dovevano sentirsi diversi dai coetanei cristiani, con i quali occasionalmente venivano a contatto, che potevano contare sull’istruzione religiosa impartita a scuola. Allo scopo di potenziare l’insegnamento della religione ebraica, i due terzi delle famiglie si affiliavano a una delle cinque congregazioni esistenti. Un dato interessante della ricerca è l’alto livello di osservanza dei servizi religiosi in sinagoga; il massimo si raggiungeva quando i figli erano in età scolare. Il livello scendeva quando i figli avevano superato l’età considerata cruciale per l’educazione religiosa. Il riposo dello Shabbat a Lakeville era stato desacralizzato, così come era avvenuto a North City, anche se la cerimonia dell’accensione delle candele e del pasto rituale erano spostati dalla domenica al venerdì sera, ritornando formalmente alla tradizione dello Shabbat . Ma la sinagoga continuava a dare un fondamentale contributo al mantenimento dei confini etnici e a conservare la sua funzione di continuità e il suo carattere di istituzione politica. A questi fini, essa organizzava, tra l’altro, incontri di svago per coinvolgere i fedeli che partecipavano attivamente a queste manifestazioni sociali. Questo era un modo per distinguere il proprio gruppo dagli altri, comportamento ritenuto accettabile a Lakeville, in quanto non implicava una separazione fisica tra le etnie. E’ con gli amici, non con i parenti, che gli ebrei di Lakeville passavano il tempo libero: questi amici erano in massima parte altri ebrei. E’ interessante notare che questa tendenza si consolidava in genere dopo il raggiungimento dell’età adulta e che ciò non era in relazione con il grado di osservanza religiosa. In proposito, riporto due citazioni che Epstein ha tratto dalle interviste di Sklare e Greenblum per spiegare questa tendenza (1983:151). Un ricco uomo d’affari che coltivava amicizie solo con altri ebrei si giustificava così: “Esistono delle differenze culturali: come ebrei abbiamo un retroterra, interessi e norme di giudizio comuni”. Una delle donne intervistate la vedeva nello stesso modo: “Mi trovo meno a mio agio con non ebrei, perchè sento che essi mi ritengono un’ebrea. Gli ebrei invece non mi ritengono un’ebrea”. Molti ebrei di Lakeville giustificavano la loro opposizione ai matrimoni misti con la “difficoltà di adattamento” o le “maggiori possibilità di non andare d’accordo”; erano convinti che il loro gruppo etnico dovesse sopravvivere. Per questo motivo trovavano difficile conciliare le loro idee liberali riguardo alla libertà dei figli nella scelta del coniuge e il desiderio di vederli sposati ad altri ebrei. Era un grande cambiamento rispetto ai padri e ai nonni immigrati ortodossi che avrebbero osservato il lutto della shiv’ah se fossero stati costretti ad avere un genero o una nuora gentili . A volte, per alcuni genitori, questo desiderio diventava preoccupazione e viva sollecitudine. In proposito, uno studio condotto da Berman e citato da Epstein (1983:193-4), Jews and Intermarriage , riporta le considerazioni di un rabbino che si chiedeva: “(I genitori) entrano raramente in sinagoga da un anno all’altro. Non osservano le regole alimentari o altri rituali della vita ebraica. … Perchè sono così angustiati allora dalla possibilità che il loro figlio o la loro figlia sposi un non ebreo? Si siedono davanti a me con le lacrime agli occhi e letteralmente gridano: ‘Rabbi, devi salvare mio figlio'”. Evidentemente, questi genitori dovevano vedere con favore l’esistenza di centri di svago in cui i giovani ebrei di entrambi i sessi si potessero conoscere e frequentare, in modo che si restringesse il loro campo di scelta. Temevano infatti che un’unione mista potesse significare la defezione di un membro del gruppo e dei mischling [9] . Glazer e Moynihan citano un’indagine del 1957 in cui si era rilevato che solo il 3.5% degli ebrei era sposato a non ebrei, e che la proporzione era ancora più bassa a New York, dove l’alta concentrazione della popolazione ebraica pareva aver ridotto la possibilità di matrimoni esogamici, in confronto ad altre comunità (1970:160). Il matrimonio esogamico risultava comunque più frequente tra gli ebrei più colti. Ciò costituiva un importante segnale di integrazione, ma non si perdeva completamente di vista il legame con le origini. La conferma a questa tendenza venne data da Marshall Sklare, che ritornò a Lakeville un decennio dopo lo studio fatto con Greenblum. In questa occasione, nella comunità si evidenziò un maggiore interesse per le tradizioni ebraiche e un forte impegno per la causa sionista. Era stata istituita una scuola ebraica, attivato l’insegnamento dell’ebraico nelle scuole superiori, offerto l’appoggio agli ebrei sovietici e mostrato un grande interesse per le vicende politiche di Israele. Sklare, alla fine della sua seconda indagine, poteva concludere: “Ciò che è stato completato a Lakeville negli ultimi vent’anni è un incoraggiante segnale di affermazione ebraica” (in Waxman, 1981:76).
Gli studi su Yankee City, North City e Lakeville riguardano comunità diverse, osservate in periodi diversi che hanno in comune il rapporto dinamico con l’etnicità tipico degli ebrei della seconda generazione. La seconda generazione ha gettato negli anni ’20 le basi di una nuova cultura ebraica fortemente radicata nella struttura della società statunitense. Ogni volta che gli ebrei, negli anni ’30 e ’40, si trasferivano verso una nuova area subito introducevano segni visibili e peculiari della loro specificità culturale pur non perdendo l’interesse per un’integrazione nella società americana. In altre parole, gli ebrei non perdevano di vista l’idea che essi, per integrarsi, dovessero continuamente mediare tra la loro cultura e quella degli altri americani. Il sociologo israeliano Amitai Etzioni, nel curare nel 1959 una riedizione de Il Ghetto di Louis Wirth, scriveva: “Un gruppo può mantenere sia la sua integrazione culturale e sociale sia la sua identità peculiare senza abitare un luogo circoscritto, e gli ebrei americani dei sobborghi sono un gruppo di riferimento che si basa su identità, tradizioni, valori e coscienza comuni, mantenuto unito dalle comunicazioni e attivo in limitate situazioni e istituzioni essenziali” (in Moore, 1981:235). Questa, secondo me, forse è una spiegazione del motivo per cui gli ebrei dei sobborghi mantengono un forte sentimento etnico. L’identità ebraica sopravvive nonostante gli ebrei abbiano lasciato il “quartiere di primo insediamento”, ciò che invece era ritenuto dagli immigrati fattore necessario per il mantenimento dell’ebraicità e dello specifico patrimonio culturale che essi avevano portato dall’Europa.
[1] in Sollors, 1986:262.
[2] M. Gordon è l’autore del libro Assimilation in American Life , i cui paragrafi “Protestants”, “Catholics”, “Jews” si ispirano al libro di Will Herberg Protestant, Catholic, Jew .
[3] La pronuncia quasi identica tra la Shul degli ebrei (“sinagoga”) e la Schule dei tedeschi (“scuola”) fa notare l’importanza che in Europa si dava alla sinagoga come centro di studio religioso sia per bambini (il heder ) sia per i ragazzi (la yeshivah ). Nella yeshivah l’ordine dei posti a sedere rifletteva la struttura sociale della comunità. Il valore dei posti decresceva quanto più si allontanavano dalla parete orientale, e presso la parete occidentale si sedevano i mendicanti, gli stranieri e i bisognosi.
[4] E’ la carità fatta ai poveri come richiesto dal rituale religioso. Era vista anche come atto finalizzato alla salvezza della propria anima; dare al povero, agli orfani, ai diseredati era un dovere religioso. Per questo motivo, il mendicante ebraico era, in un certo senso, il “benefattore del donatore” in quanto, ricevendo la tzedakah , metteva il donatore in grado di adempiere a un dovere religioso. E’ interessante osservare l’origine etimologica: le radicali del termine esprimono il concetto di giustizia, infatti tzaddik , il “giusto”, tzedek la “giustizia”, tzaddikut , la “santità, tzadkan la “persona pia”.
[5] L’aramaico, la parlata del popolo in Palestina ai tempi di Gesù, derivava direttamente dall’ebraico che, come lingua viva, era caduto in disuso e sopravviveva solo come lingua liturgica.
[6] Infatti la festività dello Shabbat comincia al tramonto del venerdì e termina al tramonto del sabato.
[7] Il primo studio è stato pubblicato in: W.L. Warner & L. Srole (1945), The Social Systems of American Ethnic Groups , Yankee City Series, New Haven, Yale Un. Press. Il secondo in: J.R. Kramer & S. Leventman (1961), Children of the Gilded Ghetto , New Haven, Yale University Press. Il terzo in: M. Sklare & J. Greenblum (1967), Jewish Identity on the Suburban Frontier , New York, Basic Books.
[8] E’ la “festa delle luci” che commemora la rivolta contro i Romani in Giudea e la riedificazione del Tempio ad opera dei Maccabei e cade in dicembre, tra il terzo e il quarto mese del calendario ebraico.
[9] Così sono designati gli americani con un solo genitore israelita che di solito sono cresciuti in un ambiente familiare che ha attribuito scarso rilievo alle origini etniche.