CAPITOLO 2 – Gli ebrei di New York
The interweaving of complexity, that necessarily follows from its size with the complexity added by the origins of its population, drawn from a staggering number of countries and from every race, makes New York one of the most difficult cities in the world to understand. . . . A fourth of the city is Jewish; very much more than a fourth of its wealth, energy, talent, and style is derived from the Jews.
N. GLAZER & D.P. MOYNIHAN [1]
Gli elementi che formano una visione d’insieme degli ebrei americani, valida per la maggioranza di essi, si riferiscono generalmente alla storia di questa minoranza nella città di New York. Secondo Warshow, il modello di vita a New York rappresenta le esperienze della maggioranza degli ebrei americani e questa città può essere definita il loro quartier generale in America (in Moore, 1981:2). Già agli inizi del Novecento non pareva esserci alcun dubbio che New York fosse il centro dell’ebraismo americano. Da lì si sono diffusi nel resto del Paese gli elementi che hanno contribuito a uniformare il modello di vita degli ebrei statunitensi. Ancora adesso l’eco delle vicende di New York è sentita a Los Angeles e a Miami. La metà degli immigrati ebrei, dall’inizio del ventesimo secolo, ha vissuto o almeno è transitata a New York durante la ricerca di una sede definitiva, e nella città c’è tuttora la più grande concentrazione di ebrei che si sia mai avuta nella storia [2] .
Spesso gli immigrati dell’Est apprendevano il modo di inserirsi nella società di New York immersi in un ambiente tutto ebraico mantenuto in vita mediante istituzioni locali quali scuole, sinagoghe, club politici. Così, da un lato si dava agli immigrati la possibilità di non dimenticarsi delle proprie tradizioni e dall’altro si insegnavano loro le regole di base della vita americana. Tali organizzazioni aiutavano gli immigrati a sentirsi più protetti; esse offrivano un’alternativa all’assimilazione ricreando un ambiente fisico e culturale tipicamente ebraico. Parecchi immigrati, pur vivendo in un ambiente culturale yiddish separato, cercavano di assimilarsi penetrando nella società e nell’economia americane. La salvaguardia delle tradizioni non impediva la ricerca di un sincretismo culturale. Per raggiungere questo scopo, gli ebrei di New York cominciarono a gettare le basi di una cultura ebraico-americana, radicata nella struttura della loro comunità, che fosse un sincretismo di valori americani ed ebraici. L’elemento base di questa cultura era il quartiere, inteso non tanto come porzione della città, quanto come sistema di stretti rapporti di vicinanza tra membri dello stesso gruppo etnico. Il “ghetto dorato”, il quartiere della seconda generazione, conservava aspetti dell’ambiente degli immigrati e ospitava una varietà di organizzazioni ebraiche che rifletteva le tendenze ideologiche dei residenti dell’area. Permaneva però un contrasto di classe tra il ghetto dorato dei ricchi borghesi e il ghetto degli operai immigrati, il Lower East Side, che rappresentava il maggiore ostacolo all’omogeneizzazione della comunità ebraica di New York. Parallelamente alla contrazione nell’estensione fisica dei quartieri, specie di Williamsburg, aumentò progressivamente l’omogeneità degli abitanti ebrei. In definitiva, all’interno della comunità ebraica newyorchese esistevano differenze di classe che si riflettevano nel quartiere di abitazione.
Tra ebrei ricchi ed ebrei poveri si verificavano talvolta incomprensioni e attriti che assunsero proprio a New York il sapore di una battaglia dei poveri contro i ricchi. Ad esempio, la discussione sulle risorse finanziarie della comunità ebraica degenerò nell’odio per i ricchi accusati di tentare anche in America di “succhiare il sangue dei poveri”. Il “casus belli” fu il boicottaggio della carne che mostrò la capacità del quartiere di mobilitarsi e rispondere in maniera spontanea al peggioramento delle condizioni di vita. Agli inizi del maggio 1902, il prezzo della carne kosher fu portato da 12 a 18 cents la libbra dal cosiddetto “Trust della carne”, composto soprattutto da ebrei tedeschi. L’aumento colpiva i bilanci familiari degli ebrei più poveri. Dopo il fallimento delle pressioni esercitate sul “Trust” da parte delle macellerie, l’iniziativa passò alle donne del Lower East Side che dettero origine a uno sciopero durato tre settimane. Il loro motto era: “Se noi donne facciamo sciopero, sarà sciopero”. La protesta vide la partecipazione di ventimila persone, in maggioranza donne, alcune delle quali non erano ebree, sprezzantemente definite dal New York Times “un branco di donne ignoranti e furiose”. Ci furono anche scontri con la polizia, durante i quali la carne veniva rovesciata in strada o scagliata contro i poliziotti e i crumiri. Il 27 maggio, di sabato, il comitato di sciopero fece il giro delle sinagoghe del quartiere, ricorrendo alla pratica tradizionale di interrompere la lettura della Torah quando una questione importante richiedesse una discussione collettiva. Quando l’associazione dei macellai al minuto e i leader ortodossi, inizialmente esitanti, si dichiararono a favore dell’azione, il 5 giugno i prezzi vennero portati a 14 cents la libbra, e si pose fine al boicottaggio (Maffi, 1992:162-3). La questione della supervisione sulla fornitura di carne kosher , d’attualità ai primi del secolo, dimostrò ancora una volta come gli ebrei del ghetto non propendessero più per l’accettazione passiva delle direttive imposte dalle autorità. Gli introiti della comunità ebraica in Russia derivavano in gran parte dalle tasse sulla vendita di carne. In America era diverso: era una faccenda di “libera iniziativa privata”. Gli esperti venivano pagati dai macellai kosher in cambio dell’autorizzazione necessaria per vendere la carne. Normalmente i supervisori erano rabbini, ma non sempre: molti si vantavano di possedere le credenziali di un rabbino, pur non essendo autorizzati. La limitazione delle licenze per porre fine alle libertà individuali nel campo delle norme dietetiche della kashrut alimentò la battaglia. Ad essere penalizzati erano i supervisori non rabbini, cui veniva a mancare il vantaggio economico derivante dalla loro attività illegale. Negli anni ’10 del secolo i capi rabbini si erano arresi: avevano vinto gli immigrati dell’Est che avevano reso esplicito il risentimento contro le autorità religiose.
I quartieri più nuovi di New York, dagli anni ’30, erano diventati relativamente omogenei a causa dell’aumento del costo degli affitti; i poveri infatti erano costretti a rimanere nel Lower East Side e negli altri quartieri di primo insediamento. Essi raramente frequentavano le strade dove abitavano i borghesi, il che era in contrasto con l’affermazione di Poster secondo cui si riscontrava una tendenza al collettivismo nei nuovi quartieri ebraici: “Il più prospero mercante e il più povero venditore di patate probabilmente tenderebbero a vivere nelle adiacenze, e comprare cibo, vestiario, mobili negli stessi negozi se non fosse per mancanza di voglia o di tempo” (in Moore, 1981:70). La profusione e lo stile dei negozi caratterizzava il quartiere come ambiente tipicamente ebraico e addirittura trasmetteva una sfumatura ebraica ad attività secolari intraprese entro il suo confine.
Emblematico è il lussuoso quartiere newyorchese di Borough Park che durante la Grande Depressione si era evoluto ulteriormente in residenza di uomini d’affari e di risparmiatori salariati, la maggioranza dei quali possedeva la casa in cui abitava. Le organizzazioni presenti nel quartiere di Borough Park riflettevano la sua mutevole popolazione. Esso comprendeva due sottocomunità e includeva due gruppi di istituzioni ebraiche. Quando se ne andarono i più ricchi, i capi delle sinagoghe ortodosse e conservatrici assunsero posizioni di preminenza nella comunità, cambiando le caratteristiche prodotte dal processo di integrazione. Nel 1929 fu istituito un “Consiglio della Comunità ebraica” per promuovere il sostegno alla causa sionista e la diffusione tra gli ebrei dell’ideale dell’appartenenza al popolo ebraico. Si perseguiva l’ideale di un sionismo che accogliesse il modernismo della borghesia ebraica come varietà di espressione di ebraismo.
Gli ebrei trasferitisi nei ghetti dorati avevano poco a che vedere con gli ebrei rimasti nel vecchio ghetto, il Lower East Side. Era in questo quartiere di New York che gli immigrati avevano sviluppato un atteggiamento di sfida nei confronti della legge. Avevano superato la “grande diffidenza e paura della polizia”; per loro le parole ‘polizia’, ‘legge’, ‘prigione’ non evocavano più “possibilità spaventose”, e non erano più “evasivi e reticenti per autodifesa” (Howe, 1990:117). Tra il 1880 e i primi decenni del Novecento molti ragazzi che crescevano per le strade del ghetto, non avendo modelli cui fare riferimento, tendevano a trasformarsi in criminali, anche se spesso non proseguivano su questa strada; la criminalità, per gli ebrei, raramente costituì un modello per la generazione successiva. La comunità ebraica tese sempre a negare l’esistenza di criminali al proprio interno, ma erano conosciute varie figure di ebrei borseggiatori, scassinatori, ricettatrici, o esperti in incendi dolosi che costituivano il cosiddetto “fulmine ebraico”. Quando moriva un famoso criminale ebreo, di solito gli erano tributati onori e si celebrava un solenne funerale ortodosso, secondo l’idea tipicamente americana che, per quanto brutale fosse stato in vita, un gangster manteneva un legame sentimentale con la fede dei suoi padri. Anche la prostituzione si diffuse tra la comunità ebraica. Il fenomeno doveva aver raggiunto un certo livello se nel 1898 il Forward poteva rivolgersi così ai lettori: “Sarà meglio che vi teniate alla larga da Allen, Chrystie e Forsyth Street se andate a passeggio con vostra moglie, vostra figlia o la vostra fidanzata. Nel quartiere ebraico c’è un vero e proprio commercio della carne. Nelle vetrine si può vedere carne umana anzichè scarpe” (in Howe, 1990:98). Esisteva una “Mano Nera” ebraica, diretta da “Yushke Nigger”, alias Joseph Toblinsky, che aveva il proprio quartier generale in un saloon di Suffolk e che operava nel campo delle estorsioni, quasi esclusivamente nel quartiere ebraico, ai danni di commercianti indifesi. La “Mano Nera” segnò la comunità ebraica più di quanto le attività criminali delle bande cinesi o italiane non avessero segnato le rispettive comunità.
Il fenomeno della criminalità ebraica negli Stati Uniti va visto come risultato di diversi fattori: le difficoltà di inserimento nella società, la sensazione di essere troppo poco rappresentati e tutelati dalle istituzioni vigenti, l’allentamento dei legami familiari. Ma, per la comunità nel suo insieme, la criminalità rappresentò un fenomeno marginale che offuscava il processo di assimilazione e di adattamento collettivo. Il ghetto era anche il luogo d’origine di professionisti del gioco d’azzardo, di celebri pugili, di intrattenitori in spettacoli, attori e impresari del cinema muto [3] .
Nel 1908 Bingham, il capo della polizia di New York, dichiarò che gli ebrei formavano il 50% dei criminali della città. L’accusa infondata colpì tutta la comunità, le organizzazioni ebraiche presero posizione, si tennero grandi manifestazioni di protesta, la stampa yiddish iniziò una campagna denigratoria nei confronti di Bingham. Il risultato fu che il capo della polizia venne costretto a ritrattare completamente l’accusa mossa contro gli ebrei. Dal momento che le organizzazioni ebraiche avevano reagito in modo confuso, si cominciò a sentire l’esigenza di creare una struttura comunitaria che rappresentasse sia gli ebrei di origine tedesca sia quelli est-europei e che attenuasse le differenze di educazione, di lingua, di modi di comportamento. Questa struttura è la Kehillah .
La Kehillah , in Europa, era un organo stabile di molte comunità israelite e aveva il compito di applicare i decreti imposti dai governi degli stati ospiti. In Russia essa era stata abolita dallo zar nel 1844, per il timore che una forma di autogoverno, seppur limitata, potesse rappresentare un ostacolo al’assimilazione. In seguito, anche negli altri paesi orientali la Kehillah perse rapidamente autorità (Goren, 1980:573). Gli ebrei non avevano un buon ricordo di questa istituzione e molti immigrati erano ostili all’idea di ricostituire una Kehillah in America.
Il movimento per la creazione di una Kehillah , nato come reazione alle difficoltà incontrate dalla comunità ebraica nell’affrontare l’affare Bingham, raggiunse presto il suo scopo: nel 1909 venne costituita la Kehillah di New York. Il suo fondatore, il rabbino Judah Leon Magnes del noto e prestigioso tempio Emanu-El di Manhattan, voleva così mettere in pratica l’ideale di un’organizzazione pan-ebraica. Ci si accorse in seguito che gli ashkenaziti e gli ebrei est-europei continuavano a restare separati. Tra di essi esisteva una forte contrapposizione che aveva spinto il rabbino Judah Leon Magnes a prendere posizione a favore dei nuovi immigrati e ad abbandonare nel 1910 il tempio Emanu-El a causa dell’antisionismo e dell’antiortodossia dei tedeschi. Egli, pur essendo di origine tedesca e pur avendo propugnato il giudaismo riformato, diventò un leader del ghetto di lingua yiddish (Hertzberg, 1993:164-5). La Kehillah non aveva raggiunto gli obiettivi che si erano prefissi i suoi fondatori, soprattutto quello di controllare il disordine del ghetto. Il teologo ebreo Mordecai Kaplan spiegò, nel suo diario, che il compito di tener calme le masse ebraiche del Lower East Side era fallito perchè esse non credevano che la Kehillah potesse assolvere alla funzione di “pacificatore sociale degli ebrei”. Le riunioni della Kehillah , comunque, furono la prima occasione in cui gli ebrei est-europei di New York venivano formalmente accettati alla stregua degli ebrei tedeschi. La Kehillah tentò anche di unificare gli ebrei di origine sefardita, divisi dalle lingue che parlavano (giudaico-spagnolo o ladino, greco, arabo). A tal scopo, venne fondata nel 1912 la “Federation of Oriental Jews”, ma questa Federazione ebbe breve vita: la Depressione degli anni Trenta e il declino del numero dei sefarditi di New York ne causarono la fine nel 1933 (Campeas, 1972:1174).
Il culto istituzionalizzato nella shul , la vecchia sinagoga di quartiere tipica del Lower East Side, riassumeva le caratteristiche del giudaismo ortodosso americano, sebbene comprendesse solo pochi ebrei osservanti come membri attivi, appena l’8% (Moore, 1981:127). Il fatto che la maggioranza degli ebrei non fosse formalmente affiliata a una sinagoga non sminuiva la sua importanza simbolica; essa testimoniava non la semplice presenza di ebrei ma il loro impegno alla sopravvivenza del gruppo. Le sinagoghe, cresciute notevolmente di numero all’inizio del secolo, erano prevalentemente di orientamento ortodosso, solo pochissime appartenevano alla corrente della Riforma. Il boom si ebbe dal 1917 al 1919 e il fenomeno ebbe fine verso il 1925. Nel 1908 in tutto il paese le congregazioni erano millesettecento, nel 1928 se ne contavano tremila (Hertzberg, 1993:199-200), la maggior parte delle quali a New York. Si era realizzato così il desiderio degli immigrati dell’Est di avere il più vicino possibile alle proprie case un luogo di culto. La hevrah annessa alla sinagoga aveva il compito di unificare tutti i membri della comunità in uno spirito di fratellanza, secondo un’idea di appartenenza basata sulla parentela e sullo shtetl d’origine. Essa aiutava chi versava in difficoltà economiche, seppelliva i morti secondo le leggi mosaiche, esigeva modeste quote di associazione, il necessario per coprire le spese di mantenimento della sinagoga, il salario del rabbino e il finanziamento dei programmi di assistenza sociale. I primi immigrati avevano eliminato alcune caratteristiche tipiche della in Europa, i loro figli, trasferitisi nei nuovi quartieri, apportarono ulteriori modifiche che ne alleggerirono la struttura. La borghesia della seconda generazione concepì la sinagoga come un riferimento etnico con la speranza che fosse un ostacolo alla completa assimilazione. I figli degli immigrati si rifiutavano di riconoscere la hevrah dei padri, la consideravano un’istituzione fondamentalmente straniera e pensavano che essa non potesse adattarsi all’ambiente americano, la sua impronta era troppo tradizionale per poter tenere uniti gli ebrei in una sola comunità.
Nel 1914 a Brownsville (New York) venne fondata una sinagoga che, pur distaccandosi dal modello di hevrah , fu definita conservatrice perchè cercava di conservare quegli elementi del giudaismo ritenuti più adatti al mantenimento di un’identità religiosa. Aveva un club per uomini, una comunità religiosa e una congregazione giovanile, ma non prevedeva le attività assistenziali richieste dagli immigrati lavoratori, si poneva quindi come antitesi della hevrah . Era l’inizio di un rapido processo evolutivo che sfociò nella “sinagoga-centro”, un’istituzione che poteva essere utile alle famiglie e rispondere al loro bisogno di incontrarsi e coltivare le tradizioni etniche attraverso il divertimento e l’impegno culturale.
Il rabbino Mordecai Kaplan, il maggiore esponente di questa corrente innovatrice, intendeva in tal modo perseguire il fine di assicurare la sopravvivenza del gruppo etnico e, in particolare, la sopravvivenza di un’etnicità tipica degli ebrei borghesi, legata alla cultura americana di lingua inglese e non più basata sulla cultura ortodossa originaria. Il nome “centro” attirava più persone rispetto a quanto avrebbe fatto se si fosse chiamato più semplicemente sinagoga o tempio e ne sottolineava le caratteristiche laiche. In esso la religione era solo uno degli elementi costitutivi e il rabbino ne era parte, non più il capo. Le decisioni venivano prese secondo principi democratici rispetto al passato: i rabbini si limitavano ad esprimere la loro opinione, il peso del loro voto non era più decisivo. Secondo le indicazioni di Kaplan, nel centro si dovevano svolgere quattro attività: culto, studio, servizio sociale, ricreazione. Il centro doveva servire a colmare le differenze di classe ancora esistenti nello stesso quartiere, che tra i suoi abitanti comprendeva lavoratori e borghesi, nonostante la tendenza all’omogeneizzazione. Esso doveva essere l’espressione dell’identità ebraica, non un circolo di svago come i club esclusivi dei ricchi discendenti degli ashkenaziti o come le “organizzazioni per l’americanizzazione” di fine Ottocento. I fondatori della “sinagoga-centro” ritenevano che situare un locale, come una palestra, accanto alla sinagoga, potesse essere un’espressione di etnicità ebraica che non americana: le attività laiche dovevano riflettere il “carattere nazionale” ebraico. Le manifestazioni culturali e di svago, organizzate dalla sinagoga-centro, si aprivano e si chiudevano con l’inno ebraico [4] e l’inno americano, un fatto che dimostrava come Kaplan e i suoi seguaci cercassero di conciliare la “nazionalità” ebraica con la cittadinanza americana. In definitiva, la sinagoga-centro, come la scuola pubblica, rompeva con le tradizioni ammuffite del passato. Nonostante i diversi programmi offerti dalle sinagoghe-centri e l’attiva conduzione dei rabbini, la percentuale degli ebrei della seconda generazione partecipanti alle funzioni del sabato rimaneva molto bassa; solo in occasione di feste importanti come la Pasqua, il Capodanno, o lo Yom Kippur , il numero cresceva. La sinagoga-centro sembrava aver perso il carattere fondamentalmente religioso, ma il suo scopo principale restava l’incentivazione dei contatti tra ebrei per garantire la sopravvivenza del gruppo.
La desacralizzazione della sinagoga fu una delusione per chi aveva sperato che la presenza di un luogo di culto potesse dare un carattere sacro alle attività laiche del centro. Innescando una polemica su questi limiti delle sinagoghe-centri, gli ebrei tedeschi cercarono di reimporre la loro leadership sull’intera comunità newyorchese. Avevano bisogno, a tale scopo, di assicurarsi l’assenso e l’appoggio della più vasta massa degli est-europei; niente sembrava più adatto del richiamo all’importanza della generosità nel donare ai propri simili di cui, come si vedrà, non solo gli ebrei beneficiavano. Gli ebrei facoltosi di origine tedesca avevano dimenticato l’atmosfera dei vecchi ghetti che avevano abbandonato, erano stati loro i primi a cercare di inserirsi nei quartieri in cui vivevano i ricchi di altre etnie americane. Ora si mostravano convinti che la filantropia fosse un potente fattore di unione con gli immigrati di recente arrivo meno ricchi, rimasti nel Lower East Side. Nel 1917 venne costituita la “Federation for the Support of Jewish Philanthropic Societies of New York City” allo scopo di ristrutturare l’organizzazione della filantropia (Moore, 1981:149). Donare alla Federazione esprimeva non solo un sentimento etnico ma anche la messa in pratica del Vangelo del Benessere , in quanto era perfettamente in linea con le esigenze della religione civile americana. Un generoso contributo alla Federazione facilitava l’ammissione alla cerchia dei leader della comunità ebraica di New York anche se persisteva il rifiuto dei tedeschi ad ammettere gli est-europei nei loro esclusivi club: l’ammissione di questi ultimi era considerata irrilevante per il nobile progetto di unire gli ebrei di New York in una sola comunità. L’attività filantropica andava a vantaggio anche di non ebrei: la Federazione era essenzialmente ebraica e tutte le società affiliate erano ebraiche, ma la distribuzione di fondi non tralasciava i bisognosi di altre etnie e fedi religiose.
La Federazione di New York serviva, allo stesso tempo, sia come espressione religiosa che come struttura politica della Kehillah newyorchese. Essa era un po’ come lo “stato” degli ebrei di New York che, per il principio della non ingerenza dello stato nella chiesa, non poteva immischiarsi negli affari della sinagoga. Nel 1917, con la creazione del Business Men’s Council a carattere gerarchico, i capi della Federazione intendevano acquisire il dominio della Kehillah . I membri del Consiglio erano generalmente i filantropi che contribuivano alla Federazione con maggiori quantità di denaro. Nel 1926 i leader della Federazione lanciarono l’idea di un’indagine in grande stile su tutti gli ebrei di New York per formulare dei piani d’azione da adottare negli anni seguenti. Si sperava, così, di raggiungere il controllo di quella parte della comunità ebraica che restava al di fuori dell’influenza del Consiglio (Moore, 1981:164). Non c’erano mai stati tanti ebrei in una sola città, non si sapeva quanti fossero esattamente e come si distribuissero nelle occupazioni.
L’ultimo studio demografico, che aveva avuto per oggetto una comunità ebraica immigrata, era vecchio di dieci anni. Ci furono incontri tra filantropisti, sionisti e yiddishisti, riformisti e ortodossi, educatori e assistenti sociali, in occasione dei quali si discusse su come mettere in pratica la proposta della Federazione di condurre un’indagine sulla comunità dell’area metropolitana di New York. Con l’indagine si sarebbe lanciato un esperimento: utilizzare le scienze sociali per creare un consenso comunitario. I dati da rilevare riguardavano la mobilità fisica all’interno della città, la fertilità, la mortalità, il commercio, le professioni, l’associazionismo che faceva capo alle sinagoghe e ai circoli. Grande interesse per la ricerca rivestivano da una parte le agenzie filantropiche, le organizzazioni per la salute delle famiglie e dei bambini, per l’assistenza sociale e per il tempo libero, dall’altra le varie attività religiose ed educative esistenti nella città. Si volle tener presente, ovviamente, che gli spostamenti all’interno della città potevano avere una grande ripercussione sulla ridistribuzione delle organizzazioni filantropiche e comunitarie. Le conclusioni cui si pervenne furono ritenute valide per tutti gli ebrei di New York, definiti come un gruppo economicamente povero, ma giovane, vigoroso e ambizioso, ben avviato nello sfruttamento delle opportunità che offrivano gli Stati Uniti, pronto a lottare per migliorare la qualità della vita e disposto a sopportare una crescente suddivisione delle responsabilità comunitarie.
Lo scopo di raggiungere, attraverso l’indagine, un consenso più largo verso l’operato della Federazione fallì soprattutto perchè le differenze di cultura erano ancora vistose, e non tutti gli ebrei si mostravano disponibili ad accollarsi delle responsabilità verso la propria comunità. I capi della Federazione riuscirono, però, a far accettare il loro modello di comunità non settaria, legittimato anche dalla società americana. Con la raccolta di fondi si realizzava una sorta di comunità morale, i cui componenti si sentissero uniti da precisi elementi di distinzione dagli altri gruppi etnici. Si includeva in questo tipo di comunità anche colui che fosse ebreo solo di origine, estraneo a forme esteriori di giudaismo. La Federazione non voleva costituire una barriera contro l’assimilazione, forse per questo gli ebrei più interessati alla continuità culturale ritenevano che la Federazione non avesse riconosciuto il necessario valore al passato e alle tradizioni. Nello stesso periodo s’affermò l’idea che, per affrontare la Depressione degli anni ’30, la Federazione dovesse adottare un modello di cooperazione con altre organizzazioni non necessariamente ebraiche. Nacque così il Council of Fraternal and Benevolent Organizations che enfatizzava l’importanza della tradizione della carità ebraica che affondava le sue radici nell’istituto della tzedakah , peculiare del ghetto coatto europeo.
Nel 1923 venne lanciata dai direttori dell’ Orthodox Rabbi Isaac Elchanan Theological Seminary di New York una campagna per raccogliere una somma di 5 milioni di dollari, da destinare alla costruzione di una nuova scuola di istruzione superiore, lo yeshiva-college , da affiancare alla yeshivah tradizionale al fine di istituire una yeshiva-university (Glazer, 1957:109). Esiste un’altra interpretazione dell’origine di questa istituzione secondo cui tutto sarebbe da attribuire all’iniziativa di un preside di una yeshivah tradizionale, Bernard Revel, il quale desiderava che della sua scuola talmudica facesse parte anche un college universitario, da chiamarsi appunto yeshiva-college (Gaertner, 1972:1119). Nel 1928, in ogni caso, la prima scuola del genere in tutta la storia ebraica poteva accogliere i suoi primi studenti. Si tentava, in tal modo, di portare la yeshivah fuori del Lower East Side e di coinvolgere gli ortodossi e i conservatori nella ridefinizione del rapporto tra gli ebrei e l’ambiente americano. Oltre a questo scopo principale, la raccolta di fondi dimostrava la capacità della filantropia nel rafforzare l’unità religiosa. La rete di raccolta organizzata dai teologi del seminario non faceva distinzione tra le varie branche del giudaismo e generava negli ebrei una coscienza di sè come membri di una sola comunità che sormontasse gli interessi locali del Lower East Side e degli altri quartieri-ghetto della città. Lo yeshiva-university combinava in un’originale sintesi le istituzioni d’istruzione superiore sia americana che ebraica e, più in generale, i valori mutuati da entrambe le parti, al fine di perpetuare le antiche tradizioni. Il mondo religioso e quello secolare, dicevano i direttori dello yeshiva-university , piuttosto che integrarsi, dovevano potersi “illuminare a vicenda” (Liebman, 1972:761). In pratica, con questo compromesso i conservatori tentavano di erigere una barriera di protezione attorno al giudaismo tradizionale, così come gli antichi rabbini avevano fatto con la Torah . Si specificava che il giudaismo dovesse essere conservato intatto mediante un’istituzione estranea al ghetto, dove esso si trovava nascosto e confinato. Quindi lo yeshiva-university finiva per costituire un’altra barriera, seppur diversa dalle mura del ghetto. Si voleva un centro di studi che attraesse rabbini e laici e che fosse aperto a studenti e insegnanti di ogni etnia, colore della pelle o religione, sebbene la proposta fosse indirizzata soprattutto agli studenti provenienti dalle masse ebraiche che faticavano ad ottenere un’istruzione universitaria. Lo yeshiva-college doveva insegnare come aver successo in America. A questo scopo includeva anche l’apprendimento di arti e mestieri liberali laici, per concretizzare gli sforzi di adattare la religione ebraica all’ambiente americano. Il motto sul sigillo dell’istituzione di Revel indicava che la conoscenza della letteratura sacra e la meticolosa osservanza di ogni rituale della tradizione ebraica sarebbero stati abbinati all’istruzione laica (Hertzberg, 1993:240). A prescindere dalle diverse ipotesi sulla sua origine, lo yeshiva-university va visto come il risultato degli aspri dibattiti circa l’imposizione di restrizioni numeriche all’ammissione di studenti israeliti nelle università di Harvard e Columbia, in cui gli studenti erano in massima parte W.A.S.P. (W.hite A.nglo S.axon P.rotestant). Tra il 1920 e il 1922, la Columbia University aveva stabilito delle quote d’ammissione per aree geografiche di provenienza e, dal momento che la maggior parte degli ebrei che presentavano domanda di iscrizione proveniva dall’est, questo aveva fatto scendere la percentuale di studenti ebrei dal 40% al 22%. Chi fosse stato respinto dalla Columbia University, si rivolgeva alla Harvard University dove, nel 1922, la percentuale di studenti ebrei raggiunse il 22%. Ciò provocò proteste e accelerò negli organi direttivi la discussione sulla limitazione del numero degli studenti, nell’ambito della quale affrontare il problema della percentuale degli ebrei. La decisione cui si pervenne, di tenere bassa la percentuale di studenti ebrei a Harvard, fu motivata dal “desiderio di mantenere l’armonia tra cristiani ed ebrei” (Howe, 1990:411-2).
L’università ebraica, vista da alcuni come alternativa all’esclusione, non sembra rispondesse unicamente al desiderio di enfatizzare il particolarismo etnico, cioè l’attaccamento ai segni distintivi degli ebrei in quanto etnia. Si trattava piuttosto del tentativo di opporsi alle restrizioni che colpivano gli ebrei e che erano in contrasto con il loro diritto, in quanto americani, di poter sviluppare le proprie capacità a vantaggio della società di cui facevano parte. I fondatori erano convinti che la continuità del sentimento etnico non potesse più essere legata unicamente al giudaismo (come era stato invece in Europa) e che dovessero essere le istituzioni culturali a garantire questa continuità. L’università ebraica in questo senso poteva svolgere un ruolo fondamentale. Non mancavano, certo, visioni contrastanti tra i fautori di questa nuova istituzione. Così, da un lato, i rabbini più attaccati all’ortodossia salutavano la nuova yeshivah come “la vittoria del giudaismo tradizionale sullo spirito della riforma e del secolarismo che esiste nel nostro paese” (in Moore, 1981:186) e chiedevano, pertanto, che si tornasse alla figura del rabbino teologo-guida religiosa, che fosse al contempo un leader intellettuale. I laici, dal canto loro, pretendevano che lo yeshiva-university fosse “basato sull’antica fede di Israele e allo stesso tempo interamente americano in armonia e accordo con lo spirito del tempo presente” (ibid.:187).
Esistevano anche gli avversari dello yeshiva-college i quali erano convinti che esso fosse un tentativo di eludere il problema dell’esclusione e che finisse per accentuare i danni della segregazione degli ebrei. I rabbini immigrati, a capo di congregazioni di lingua yiddish, guardavano a questa istituzione con sospetto, giacchè temevano che i nuovi rabbini ortodossi, diplomatisi nello yeshiva-college , pur essendo meno esperti nelle questioni religiose, entrassero in concorrenza con loro. Il giornale yiddish di tendenza liberale The Day commentò moderatamente la posa della prima pietra dello yeshiva-college : “Il nuovo yeshiva-college è la migliore prova che l’ortodossia s’è convinta che si debbano combinare le tradizioni ebraiche con l’educazione americana, che si debba cercare il modo di armonizzare il vecchio giudaismo con le condizioni di vita americane; solo così l’esistenza e l’ulteriore sviluppo dell’ortodossia in America possono venire assicurati” (in Moore, 1981:195). In definitiva, la sintesi di valori rappresentata dal nuovo modello di istruzione offriva agli ebrei di New York un’alternativa religiosa all’etnicità laica dei quartieri ad alta concentrazione ebraica della città. Gli ebrei di New York partecipavano alla politica locale della Grande Mela facendo proprie le ideologie liberali sviluppate dagli ebrei della seconda generazione. Infatti, nei loro comizi, i candidati ebrei si dicevano convinti della necessità di integrare le varie etnie, non solo la propria, nel tessuto sociale della città. Affermavano che questo scopo dovesse essere raggiunto mediante l’elaborazione di un sistema liberista che desse ad ogni gruppo etnico uguali opportunità economiche.
Un posto rilevante nell’operato di questi politici ebrei avevano l’assistenza sociale e i tentativi di risolvere i problemi che affliggevano la città può essere forse ricollegato all’alto tasso di urbanizzazione che avevano gli ebrei in Europa, nelle città tedesche, negli shtetl orientali. L’esperienza di vita urbana era entrata a far parte del bagaglio culturale dei genitori e dei nonni immigrati. Il modo di fare politica dei candidati di religione israelita, appoggiati dagli immigrati che si rifiutavano di riconoscere la supremazia della classe ashkenazita, non si conformava al modello di assimilazione politica offerto dagli ebrei tedeschi della città. Fino ai primi anni del Novecento le preferenze di voto degli ebrei est-europei, che man mano si stabilivano nella città, non si erano discostate molto dalle preferenze espresse dai discendenti degli ashkenaziti. Il primo cambiamento sostanziale nel voto si registrò, a livello locale, verso gli anni ’20 con il successo considerevole riportato dal Partito Democratico. Questo fenomeno va visto anche come conseguenza dell’entrata degli ebrei nella politica locale attraverso la struttura del “circolo”. I circoli, che costituivano l’organizzazione distrettuale del partito democratico, spuntavano in quegli anni a centinaia negli eterogenei quartieri. Mediante i circoli, tra gli ebrei, coloro che aspiravano alle cariche politiche sviluppavano una rete di contatti e di amicizie che li aiutasse ad assicurarsi la vittoria alle urne. Per il leader politico il circolo era il simbolo del suo distretto, era il suo quartier generale, il luogo d’incontro con gli elettori, il biglietto da visita per i meeting dove i candidati venivano selezionati e dove veniva disegnata una linea politica. L’importanza attribuita dai candidati all’appoggio dell’elettorato ebraico fu evidente già nella competizione per le elezioni al Congresso del 1920, in cui il repubblicano La Guardia, per respingere le accuse di antisemitismo lanciategli dal rivale Frank, pensò di sfruttare la sua conoscenza dello yiddish. Egli sfidò Frank a un dibattito pubblico da tenersi in yiddish, ben sapendo che Frank, pur essendo ebreo, non lo conosceva affatto. In tal modo Frank ottenne presso l’elettorato ebraico un successo molto minore del previsto. Per una volta, una campagna diffamatoria aveva avuto l’effetto contrario e il vincitore del confronto, La Guardia, ne emerse come uomo di princìpi (Howe, 1990:381).
Alcuni dirigenti sindacali ebrei -Dubinsky, Zaritsky e Hillman- cominciarono a discutere negli anni seguenti sull’opportunità di fondare un partito che potesse presentare propri candidati nelle elezioni locali e che appoggiasse su scala nazionale Roosevelt e il New Deal . In questo modo, si pensava, i dirigenti ebrei avrebbero avuto maggior peso negli affari locali di New York e avrebbero incentivato la maggioranza dei lavoratori ebrei a votare per Roosevelt. Nacque così nel 1936 l’A.L.P. (A.merican L.abour P.arty), costituito prevalentemente dai dirigenti dei sindacati ebraici delle industrie d’abbigliamento. Nelle elezioni presidenziali di quello stesso anno l’A.L.P. portò a Roosevelt un contributo significativo alla sua vittoria finale (Howe, 1990:391). Il circolo democratico e l’A.L.P. rappresentarono due strade distinte seguite dagli ebrei di New York che intendevano entrare nella politica americana. Il circolo si richiamava al cameratismo e allo spirito di associazionismo ebraico, mentre l’A.L.P. metteva l’accento sull’ideologia del liberismo economico e sulle prospettive del New Deal. Entrambi gli approcci si fondavano sull’acculturazione raggiunta dalla seconda generazione.
Attraverso il Partito Democratico, gli ebrei della seconda generazione cercavano di inserirsi nella politica di New York e di lottare per venire accettati come gruppo etnico. Ciò non vuol dire che tutti gli ebrei newyorchesi fossero di fede democratica, infatti alcuni ebrei conservavano posizioni di preminenza nel Partito Repubblicano e nei vari movimenti socialisti. Nonostante le divisioni, tutti i politici ebrei erano convinti che l’elezione a una carica pubblica facilitasse il riconoscimento sociale e l’accettazione nel tessuto politico della città. La lingua e le tradizioni degli immigrati est-europei avevano conquistato una parte importante nella cultura di New York. Il presidente Roosevelt, per combattere la Depressione, aveva creato degli enti che dessero lavoro ai giovani disoccupati; uno di questi era il “Works Progress Administration”. Il W.P.A., che finanziava teatri e scrittori di varie lingue, pubblicò negli anni Trenta un volume elaborato da scrittori yiddish sulle landsmanshaftn di New York. La singolarità dello studio stava nel fatto che l’idioma in cui esso venne redatto non era l’inglese, bensì lo yiddish.
Il principale veicolo della rinascita e della diffusione dello yiddish a New York e, al tempo stesso, un’eloquente testimonianza dell’energia e della vitalità del ghetto, erano i giornali. La stampa yiddish era tra le più rigogliose della città: la comunità ebraica di New York poteva contare su vari quotidiani scritti in yiddish, di diverso orientamento culturale e politico. Con l’aumento degli ebrei dell’Est, questi giornali si moltiplicarono di numero: tra il 1885 e il 1914 apparvero circa 150 tra quotidiani, settimanali, mensili; la maggior parte dei quali destinata ad avere vita breve, anche se alcuni ebbero vita lunga e conquistarono la celebrità (Maffi, 1992:123). La lingua del ghetto, che aveva a lungo simboleggiato solo le discriminazioni e le persecuzioni, veniva ora considerata “espressione della vita americana”.
Nel periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni ’50, giunsero a New York dei leader ebrei religiosi ultraortodossi che prima della guerra avevano rifiutato di trasferirsi in America, nonostante l’avvento delle dittature fasciste (Glazer, 1957:110). Erano i capi di varie yeshivot rinomate come centri del sapere rabbinico ortodosso. La grande maggioranza proveniva dalla Polonia, dalle zone più occidentali dell’Unione Sovietica e dalla Lituania. Loro principale interesse sembrava il praticare indisturbati la religione, fatta principalmente di misticismo, e dedicarsi totalmente a Dio e ai suoi innumerevoli comandamenti, 613 per l’esattezza, definiti da Howe “segni esteriori di una disciplina interiore” (1990:15). Avevano scelto l’America e non Israele a causa dell’avversione per il nuovo stato ebraico che si era formato in Palestina, considerato troppo laico. Avrebbero voluto uno stato teocratico da fondare dopo l’arrivo del Messia, e governato dalla divinità mediante rappresentanti sulla terra, o almeno basato sulle leggi di Mosè. E’ soprattutto a Brooklyn e a Williamsburg che questi rabbini ortodossi, piuttosto litigiosi e attaccati in modo patologico alle minuzie della loro interpretazione del Talmud , costituirono il proprio quartier generale. Ma si insediarono anche nei quartieri di Crown Heights, nel cuore di Brooklyn, e di Brownsville. Il revival dell’ortodossia del genere più estremo interessava direttamente i più propensi a questa visione settaria della fede ebraica. Fatto unico nella vita religiosa ebraico-americana, gli ultraortodossi di Williamsburg avevano fatto delle “conversioni”. Alcuni ebrei non ortodossi, mossi dalla curiosità, erano attratti dalla personalità del rabbino, dalle cantilene ritmate e dalle danze rituali e, impressionati dalla devozione dei seguaci, divenivano anch’essi seguaci dell’ortodossia rigorosa.
Gli ortodossi avevano messo in atto un’offensiva contro lo stile di vita degli ebrei assimilati o parzialmente integrati, propugnando una versione integralista del giudaismo. Vietavano a sè stessi ogni forma di svago, aborrivano la radio, la televisione e persino le biblioteche pubbliche, considerate un luogo di perdizione. Criticavano persino gli ortodossi illuminati che mandavano i figli alle scuole pubbliche, come pure i riformati e i conservatori. A New York, come nelle altre città americane ad alta presenza di hassidim [5] , vennero istituite scuole ortodosse, la metà delle quali di lingua yiddish, che attiravano anche alcuni ortodossi più moderati e di più antico insediamento. Nella città le scuole ortodosse, che erano 55 nel 1944, erano diventate 132 nel 1963 (Hertzberg, 1993:342-4). Come risultato, crebbe il numero di bambini ebrei di New York che ricevevano un’istruzione religiosa, il 31% del totale nel 1955 (Glazer, 1957:111-2). I hassidim si ritenevano liberi di non inserirsi nella società americana, pensavano che la scelta di estraniarsi da essa fosse riconosciuta dalla religione civile americana. Di conseguenza non accettavano compromessi con la cultura laica, rifiutando parossisticamente ogni contatto con il mondo non ebraico.
Lubavitch, Satmar… [6] , termini meno conosciuti del più generico hassid, diventano in quel periodo parte inscindibile del già variegatissimo panorama etnico della popolazione della Grande Mela . Si tratta dei tipici ebrei ortodossi con la lunga e nera palandrana, con le payas , con il cappello a larghe falde. Con i hassidim la diversità ebraica diventava ancora più evidente. Nel secolo XIX i discendenti degli ashkenaziti avevano fatto a gara per spogliare il giudaismo degli antiquati orpelli mediante la Riforma, per assimilarsi quanto più possibile e mimetizzarsi nella società americana. I hassidim, al contrario, riaffermavano in modo perentorio l’attaccamento al giudaismo tradizionale e si asserragliavano nelle roccaforti ortodosse inserite nella New York contemporanea, orgogliosi di essere diversi. Erano incoraggiati in questo dalla convinzione comune alla maggior parte degli ebrei che solo l’ortodossia fosse il vero giudaismo; questa convinzione era condivisa persino dai riformati o da chi non osservava affatto le regole religiose. Concludo il discorso sugli ultraortodossi con questa sintetica ed efficace descrizione dei hassidim: “Combattono ogni giorno le tentazioni della società che li circonda. Qui (nei loro quartieri) il tempo si è fermato, ma per una precisa volontà. La disciplina è ferrea, monastica, ascetica. I ruoli della famiglia, del clan, della società sono ben determinati e non si mettono neppure in discussione. Eppure, ogni tanto qualcuno getta la spugna e si integra nel mondo che lo circonda” (Jaus, 1994).
Nonostante la presenza degli ultraortodossi, il carattere laico dell’etnicità ebraica a New York sopravvisse. Nel periodo del revival giudaico ortodosso, la grande maggioranza degli ebrei di New York era totalmente integrata nel tessuto sociale ed economico statunitense. Negli anni ’50 gli ebrei continuarono a perpetuare l’ebraismo nei quartieri, dove conducevano una vita di comunità. A causa della concentrazione residenziale, gli ebrei di New York si sentivano come membri di un gruppo di maggioranza, in una nazione dove erano invece una piccola minoranza. Anche se alcuni ebrei della terza generazione avevano avuto maggior successo nel cercare di stabilirsi in quartieri preclusi ai loro genitori, restavano i problemi legati a un codice di comportamento non scritto che escludeva gli ebrei dalla residenza in determinate zone.
Il coinvolgimento degli ebrei nella vita culturale della New York cosmopolita è stato tale che sarebbe impossibile, forse, immaginare anche un solo aspetto della città senza l’apporto della cultura ebraica. Questo discorso non è limitato alla cosiddetta cultura più “elevata” o alle arti. Esso consiste, piuttosto, nelle tracce riscontrabili in alcuni modelli culturali diffusi nella Grande Mela , quali il gesticolare, i cibi, l’umorismo e una certa inflessione yiddish. E’ dubbio che sia esistita nella diaspora un altro caso come questo di comunità israelita vissuta in simbiosi con una grande metropoli, senza venire rinchiusa nel ghetto e separata dall’ambiente circostante e senza perdere il proprio senso di identità, un’identità, come si è visto, continuamente ridefinita.
[1] Glazer & Moynihan, 1970:4; ibid.:292.
[2] New York ospita attualmente la più grande comunità ebraica del mondo. Ha più abitanti israeliti di quanti abbiano Tel Aviv e Gerusalemme messe assieme. Ho rielaborato i dati trovati per mostrare nella tabella seguente l’andamento demografico relativo alla popolazione ebraica di New York City:
anno | abitanti | fonte |
1825 | 500 | 1 |
1860 | 40.000 | 1 |
1870 | 60.000 | 2 |
1880 | 80.000 | 2 |
1890 | 225.000 | 2 |
1900 | 580.000 | 2 |
1910 | 1.100.000 | 2 |
1920 | 1.643.000 | 2 |
1927 | 1.765.000 | 2 |
1950 | 2.100.000 | 2 |
1960 | 1.936.000 | 2 |
1968 | 1.836.000 | 2 |
1977 | 1.998.000 | 1 |
1981 | 1.097.000 | 3 |
*1 da: Goren, 1980:571,592.
*2 da: Gartner, 1972:1075-1082.
*3 da: Allen & Turner, 1988:112.
Il dato relativo all’anno 1981 mostra come la popolazione ebraica di New York City sia calata per effetto dei massicci spostamenti verso i comuni limitrofi e aree di nuovo insediamento.
[3] Sono loro i pionieri delle grandi industrie cinematografiche: erano ebrei J. Lasky, A. Zukor e B. Balaban della Paramount , C. Laemmle della Universal , S. Goldfish, L. Mayer e M. Loew della Metro-Goldwin-Mayer , i fratelli Warner della Warner Bros. , S. Brill e W. Fox della Twentieth-Century-Fox e, infine, A. Lichtman della United Artists.
[4] Si tratta dell’inno sionista ha-Tikvah , scritto da Naftali Herz Imber e divenuto poi l’inno nazionale d’Israele.
[5] Sono gli ultraortodossi seguaci della corrente mistico-popolare fondata, in opposizione al razionalismo e al formalismo talmudico, da Ba’al Shem Tov nel diciottesimo secolo.
[6] Sono sette di ortodossi che differiscono nella formulazione delle dottrine religiose. Lubavi ?è una città presso Smolensk (Russia) che alla fine dell’Ottocento era il centro dei Habad hassidim. Dopo l’abbandono della città da parte degli ebrei, il nome è rimasto a indicare questa setta ortodossa, i cui immigrati (di origine austriaca, tedesca e slava) si insediarono a Crown Heights. Satmar (Szatmár in ungherese, Satu-Mare in rumeno) è una città, attualmente in Romania, abitata da una forte minoranza magiara. Con il nome di questa città sono indicati gli immigrati hassidim di origine ungherese, russa e polacca stabilitisi a Williamsburg.