Fulvio Diego Papouchado
Istituto Universitario Orientale di Napoli – FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE – INDIRIZZO POLITICO INTERNAZIONALE – 1995
- Capitolo 1: Breve storia delle immigrazioni ebraiche negli Stati Uniti
- Capitolo 2: Gli ebrei di New York
- Capitolo 3: Prima e seconda generazione a confronto
- Capitolo 4: Il dibattito sull’identità ebraica
- Capitolo 5: I percorsi dell’identità degli ebrei nell’America contemporanea: qualche considerazione finale
- Appendice: Alla ricerca di un’identità: gli immigrati ebrei in tre romanzi di Abraham Cahan – Nota sulle trascrizioni – Glossario – Bibliografia
Presentazione
Quella degli ebrei in America è una lunga storia fatta di conflitti tra integrazione nella nuova società e difesa dell’identità tradizionale. All’interno del gruppo stesso, come dimostrerò, esistono molteplici tendenze che, a volte, vanno in direzioni opposte, verso l’assimilazione completa, verso un compromesso tra la propria cultura e la società circostante o verso accentuati tradizionalismi. Oggetto della tesi è la ricostruzione della storia di questi conflitti soprattutto attraverso il dibattito nelle scienze sociali statunitensi.
Nel primo capitolo ho riassunto la storia delle immigrazioni ebraiche negli Stati Uniti dal 1654 all’età contemporanea e ho approfondito alcuni tratti salienti utili per una migliore comprensione dei capitoli successivi. Nel secondo capitolo ho esaminato alcuni aspetti che hanno reso singolare il rapporto degli ebrei con New York, la città che ospita attualmente la più grande comunità ebraica del mondo. Nel terzo capitolo ho analizzato le principali differenze nello stile di vita tra la generazione degli immigrati e quella dei loro figli (il quartiere di abitazione, la religione, la filantropia e l’istruzione) e, alla fine, ho fatto un confronto fra tre studi compiuti su campioni di ebrei della seconda generazione. Nel quarto capitolo, dopo una breve parte teorica sull’identità etnica, ho trattato delle politiche statunitensi riguardo l’immigrazione e le ideologie con cui la società americana ha tentato di risolvere la questione dell’integrazione degli immigrati. Successivamente ho preso in considerazione cinque intellettuali ebrei (il commediografo Israel Zangwill, l’antropologo Franz Boas, il sociologo Louis Wirth, il filosofo Horace Kallen e il rabbino teologo Mordecai Kaplan) che, in modi diversi, hanno visto i problemi dell’identità ebraica e dell’integrazione a partire dal proprio rapporto personale; nell’ultimo paragrafo ho parlato dello yeshiva-college e del sionismo visti come tentativi di conservare la specificità culturale ebraica. Nel capitolo conclusivo presento qualche considerazione sulla “quarta generazione”. Nell’appendice ho messo a confronto tre romanzi di Abraham Cahan, un giornalista ebreo di lingua yiddish, in cui sono descritte in forma letteraria le difficoltà di adattamento in cui si dibattevano gli ebrei est-europei immigrati in America.
Ho effettuato le ricerche bibliografiche a Napoli (nella Biblioteca Nazionale, nella Biblioteca del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Istituto Universitario Orientale, in quella del Dipartimento di Studi Nord-americani dello stesso Istituto, nella Biblioteca di Sociologia dell’Ateneo Federico II) e a Roma (nella Biblioteca Nazionale, nella Biblioteca Alessandrina dell’Università di Roma e nella Biblioteca dell’USIS presso l’Ambasciata degli Stati Uniti).
E’ mio auspicio che il lavoro sia stato realizzato con successo.
CAPITOLO 1 – Breve storia delle immigrazioni ebraiche negli Stati Uniti
When other groups emigrated, they were like leaves which social winds scattered to a foreign land; the tree from which they were blown remained rooted in the old territory. When Jews emigrated, it was not just leaves that were wind-blown, nor even branches, but whole segments of the tree.
CHARLES SHERMAN [1]
- I primi insediamenti sefarditi e ashkenaziti
- L’immigrazione in massa degli ebrei est-europei
- Dalle leggi statunitensi sull’immigrazione ad oggi
1.1. I primi insediamenti sefarditi e ashkenaziti
Il 1492 è ricordato come l’anno della scoperta dell’America. Ma nella millenaria storia degli ebrei è anche l’anno della loro espulsione dalla Spagna. Fino al periodo dell’Inquisizione, in confronto agli ebrei del resto d’Europa, quelli spagnoli e portoghesi godevano di una posizione privilegiata: erano proprietari terrieri, influenzavano la vita commerciale e politica dei loro paesi e non conoscevano il ghetto; si erano in buona parte integrati con il resto della popolazione. Con l’Inquisizione cominciò la persecuzione degli ebrei spagnoli e portoghesi, che furono obbligati a convertirsi al cristianesimo, pena l’espulsione. Ma tra gli ebrei convertiti non tutti tennero lo stesso comportamento. Alcuni, i marrani , conservarono di nascosto i vecchi rituali religiosi, mentre altri scelsero di continuare a professare il giudaismo, cadendo così nella rete dell’Inquisizione. Cominciò allora l’esilio degli ebrei sefarditi [2] che si disseminarono per i paesi del bacino del Mediterraneo, in Olanda e in Inghilterra.
Nel Nuovo Mondo gli ebrei arrivarono fin dai tempi della scoperta; è accertata la presenza di ebrei tra i partecipanti alle spedizioni di Colombo (Wirth, 1968:109). Nel secolo XVI le maggiori ondate di ebrei verso il Nuovo Mondo erano dirette verso le coste del Brasile, conquistate dagli olandesi. Però nel 1654 gli olandesi vennero sconfitti dai portoghesi e dovettero restituire ai vincitori il Brasile, e quindi anche Recife, la città del continente americano dove c’era la maggiore concentrazione di ebrei. Fu allora che ripresero le persecuzioni e le espulsioni.
E’ in questo contesto storico che i primi ebrei sbarcarono sulle coste nord-americane. Non dovevano essere molto osservanti perchè erano consapevoli che non avrebbero avuto modo di praticare il loro giudaismo così come erano abituati in Europa. Nel nuovo paese non erano in numero sufficiente per pregare in gruppo e mancavano le sinagoghe e altre strutture adatte a praticare i riti religiosi. Erano gli stessi problemi di fede degli ebrei venditori ambulanti in Europa, che vivevano isolati senza contatti con qualche comunità.
La prima testimonianza dell’immigrazione ebraica a Nuova Amsterdam, l’odierna New York, è del 1654. Fu, infatti, in quell’anno che i primi due immigrati ebrei vi giunsero dall’Europa, seguiti nello stesso anno da altri ventitrè ebrei, provenienti da Recife e sbarcati dalla Ste. Catherine , ricordata come la Mayflower ebraica .
Non si può dire che questi profughi venissero accolti a braccia aperte. Scacciati dai portoghesi, rifiutati dagli spagnoli nelle isole caraibiche, erano trattenuti agli arresti dalle autorità olandesi finchè non fosse stato pagato il costo del viaggio. Ma il governatore della colonia, Peter Stuyvesant, che non avrebbe voluto accoglierli, ricevette questo messaggio dalla Compagnia Olandese delle Indie occidentali: “Sebbene noi desideriamo di tutto cuore che questi e altri settari rimangano fuori di qui, dubitiamo assai se procedere con severità contro di loro senza diminuire la popolazione e fermare l’immigrazione. Voi dovreste dunque chiudere gli occhi e permettere ad ognuno di avere le proprie credenze” (in Thernstrom, 1992:83 [3] ). Era implicito l’ordine di non impedire lo sbarco di coloro che non fossero di peso alla società e alla Compagnia.
Le prime comunità ebraiche di Nuova Amsterdam si ispirarono al modello dell’Olanda, dove, pur nel ghetto, gli ebrei erano in una posizione relativamente privilegiata.
Comunque, a quell’epoca, non era questa città trarre il maggior numero di ebrei, bensì Newport, il centro commerciale più importante del tempo nelle colonie nord-americane. Le famiglie sefardite giunte dall’Europa allo scopo di arricchirsi rimasero deluse e la maggior parte tornò in Olanda. Rimasero solo i più poveri che non potevano permettersi di pagare il viaggio di ritorno in Europa.
Nel 1664 gli inglesi conquistarono Nuova Amsterdam, che nel 1666 prese il nome attuale di New York. A cavallo tra i secoli XVII e XVIII cominciarono ad arrivare gli ashkenaziti [4] .
Tra sefarditi e ashkenaziti, nonostante fossero correligionari, la convivenza si dimostrò subito molto difficile. Ciò era soprattutto a causa dei sefarditi che avocavano a sé il diritto di formare l’aristocrazia della nuova comunità.
Nel 1695 a New York, comunque, vide la luce la She’erit Israel (Il resto d’Israele), la prima congregazione in terra nord-americana, espressione di una comunità tendente all’unificazione degli ebrei di diversa provenienza. Tra il 1729 e il 1730, 75 anni dopo il primo insediamento di ebrei, fu fondata la prima sinagoga a dimostrazione che le autorità inglesi ormai accettavano definitivamente la presenza degli ebrei in America. La congregazione She’erit Israel provvedeva, tra le altre cose, all’istruzione di base dei bambini ebrei (all’epoca non esistevano scuole pubbliche) avvalendosi dei maestri itineranti che insegnavano la religione, l’aritmetica, l’inglese. In questo senso agì come fattore di coesione.
Una parziale o quasi totale inosservanza delle tradizioni religiose era diventata la norma: coloro che mostravano di voler abbandonare la propria fede non subivano sanzioni da parte della propria comunità. Di fatto si registrarono, per effetto anche delle pressioni dei puritani, molte conversioni, specialmente tra quei gruppi che risiedevano in villaggi isolati o alla frontiera, lontani dalle prime organizzazioni comunitarie ebraiche.
Allo scoppio della Rivoluzione, nelle colonie erano presenti solo duemila ebrei (Wirth, 1968:113). La Rivoluzione creò divisioni in questa piccola comunità. Alcuni ebrei presero le parti dei lealisti, ma c’erano anche gli ebrei liberali che speravano in una maggiore libertà, una volta terminata la guerra. Essi, durante la Guerra d’Indipendenza, dettero il loro contributo fornendo armi e finanziando la causa rivoluzionaria. La maggioranza degli ebrei tuttavia preferì una posizione neutrale. La Costituzione promulgata nel 1787, riconobbe agli ebrei il principio della libertà di culto senza restrizioni. Il sesto articolo della Costituzione sanciva che gli aspiranti a cariche pubbliche non sarebbero stati sottoposti ad alcuna verifica sulla loro religione. Due anni dopo, un emendamento a questo articolo decretò esplicitamente la separazione tra stato e chiesa. Secondo la legge federale qualsiasi fede negli Stati Uniti diventava una questione personale, privata; credenti e non credenti erano uguali di fronte alla legge. Ma in parecchi stati della Federazione vigevano delle disposizioni legali, richiedenti un giuramento religioso, che privavano di fatto gli ebrei dei diritti politici. Si dovette aspettare la Convenzione Costituzionale del 1868 perchè la libertà religiosa divenisse effettiva.
Alla fine del secolo XVIII, con l’arrivo di sempre più numerosi ashkenaziti, cominciò a mutare più profondamente la composizione delle comunità ebraiche nord-americane. Gli ashkenaziti fino ad allora venivano accettati nelle congregazioni dei sefarditi, nonostante il clima di sospetto e riva nei loro confronti. Perlopiù adottavano il rituale dei sefarditi e si amalgamavano con loro mediante matrimoni misti [5] . I nuovi arrivi portarono ben presto gli ashkenaziti a soverchiare nel numero i sefarditi. Le piccole comunità sefardite allora, sentendosi minacciate, accentuarono l’atteggiamento di esclusione verso gli ebrei di provenienza diversa dalla loro. Così cominciarono a diffondersi congregazioni ebraiche separate di ashkenaziti che videro fiorire intorno alla sinagoga varie attività assistenziali e culturali. L’inizio di questa frattura tra sefarditi e ashkenaziti s’ebbe con la fondazione della Hebrew-German Society Rodef Shalom , avvenuta a Filadelfia nel 1802. Questa comunità fece da modello per gli ashkenaziti che negli anni seguenti giunsero in altre città (Wirth, 1968:114). Anche la più importante delle congregazioni degli ashkenaziti, la B’nai Yeshurun , sorta nel 1825, si ispirò alla congregazione di Filadelfia (Gartner, 1972:1071).
I sefarditi, nelle loro attività commerciali, s’avvalevano dei legami che avevano conservato con le comunità ebraiche del Vecchio Continente, mentre gli ashkenaziti, una volta giunti in America, istituivano le cosiddette landsmanshaftn , congregazioni formate dai landslayt , ossia da ebrei provenienti dalla stessa comunità europea d’origine. I landslayt cercavano compagnia, occasioni di svago, la possibilità di parlare la lingua nativa e, soprattutto, aiuto in caso di bisogno. Le landsmanshaftn si occupavano prevalentemente dell’assistenza dell’immigrato e della sua famiglia e, con il tempo, si trasformarono in organismi laici, simili alle “società di mutuo soccorso” degli italiani. Le landsmanshaftn fondavano proprie sinagoghe alle quali davano il nome della città di origine dei suoi landslayt .
Gli ashkenaziti, stabilitisi dapprima sulla costa orientale, tendevano a spostarsi in nuove città, seguendo l’espansione verso Ovest, dove fondavano congregazioni proprie. Le nuove congregazioni rimanevano però legate a quelle della costa orientale, dalle quali ricevevano sostegni finanziari, finalizzati soprattutto alla costruzione di sinagoghe.
In genere, esistevano stretti vincoli tra tutte le comunità ebraiche in America e si iniziava a sviluppare una coscienza di far parte della stessa collettività. Si avvertivano i primi segni di un processo di americanizzazione: la regolazione delle questioni religiose avveniva autonomamente, erano i capi laici delle comunità ebraiche a risolverle senza l’autorità riconosciuta di un rabbino, come era stata prassi in Europa. Il tasso di matrimoni misti con cristiani e il numero delle conversioni era in sensibile aumento. Gli ebrei, nella loro emigrazione verso l’Ovest, portavano sempre con sè la famiglia. Viaggiando verso l’America si poteva abbandonare anche Dio ma abbandonare la propria famiglia veniva considerato un imperdonabile atto di tradimento. Dove si stabilivano, i più pii cercavano di fondare una sinagoga per permettere l’esistenza di una comunità, per adempiere ai doveri religiosi, per soddisfare un bisogno di sicurezza nella realizzazione della continuità del gruppo. Di solito le attività praticate da questi ebrei erano l’ambulantato e il piccolo commercio e, per cercare opportunità ancora migliori, tendevano a occupare zone diverse, stabilendosi nella cittadina che avessero trovato più adatta alle loro esigenze. Nelle piccole località dove si insediavano, era difficile che ci fosse il minyan [6] indispensabile per costituire una sinagoga e quindi una comunità, per cui era più facile che fossero assorbiti nella società circostante. Una data significativa nella storia degli ebrei negli Stati Uniti il 1852, anno in cui fu fondato il Jews’ Hospital in the City of New York , con l’assistenza della She’erit Israel e di altre congregazioni. Nel 1866 l’ospedale cambiò nome, assumendo quello con cui è conosciuto anche fuori dell’America: Mount Sinai Hospital . I pazienti poveri ricevevano gratis un trattamento sanitario. Il personale, come pure i pazienti, era composto sia da ebrei che da non ebrei (Gartner, 1972:1073).
In quegli anni, a causa dei rivolgimenti politici in Europa, si erano, intanto, venuti intensificando gli arrivi dalla Germania, dalla Boemia, dall’Austria-Ungheria, dalla Prussia, in numero tale da portare profonde modifiche rispetto agli insediamenti precedenti. Gli ebrei tedeschi erano in genere laici, colti, più interessati ai problemi socio-politici che non a quelli religiosi. Avevano aderito alle idee rivoluzionarie dell’Ottocento e, proprio per evitare la reazione politica seguita ai sommovimenti, erano fuggiti dall’Europa. Comprendevano personalità affermatesi nella vita economica e politica nel paese d’origine, le quali trovavano nella nuova patria la realizzazione di molte loro aspirazioni politiche. Gli ebrei tedeschi avevano una mentalità aperta che li spingeva a lottare per una completa integrazione. Si consideravano di nazionalità tedesca e di religione israelita, piuttosto che membri di un gruppo etnico separato dal resto della popolazione tedesca. Gli ebrei tedeschi avevano aderito alle dottrine liberali dell’Illuminismo, che aveva cominciato a diffondersi in Europa dopo la Rivoluzione Francese, più degli ashkenaziti provenienti dalla Polonia e dalla Russia. Questa cultura di stampo moderno spiega la loro larga adesione alla Riforma, versione sincretica del giudaismo, nata in Germania nel 1840 e che, grazie a loro, arrivò in America. La Riforma fu un tentativo di riammodernare e conciliare le dottrine e i rigidi principi dell’ebraismo tradizionale con la filosofia razionalistica, presupponendo la possibilità di assimilazione. Si riteneva che questo giudaismo riformato potesse ben adattarsi all’ambiente americano più di quanto non fosse avvenuto in Europa, dove aveva avuto origine. In America, in effetti, esso si sviluppò prevalentemente tra gli ebrei benestanti che, più degli altri, mostravano di voler essere accettati dal mondo dei gentili [7] . I riformisti erano convinti che se la religione fosse andata nella stessa direzione dei mutamenti sociali, l’ebraismo in America non avrebbe corso il pericolo di estinzione. Era un modo di prevenire conversioni e matrimoni misti e, quindi, di preservare il gruppo etnico. Il capo e il simbolo degli ebrei tedeschi aderenti alla Riforma fu il rabbino Isaac Wise [8] . Fu in America che egli mise in pratica le idee che aveva cominciato a sviluppare in Europa. A New York, dove aveva ricevuto l’incarico di predicatore, Wise raggiunse l’apice della sua popolarità pur non riuscendo mai a divenire il capo della comunità ebraico-americana, e ciò a causa dell’opposizione degli ortodossi, motivata dalla teologia che Wise aveva esposto nel suo Minhag America (Il rito americano) [9] . Wise vedeva con favore l’integrazione degli ebrei e credeva che negli Stati Uniti essi avessero raggiunto quella eguaglianza politica che cercavano di raggiungere nel resto del mondo. Non aveva senso, egli affermava, desiderare di tornare in Palestina, nè pregare per l’avvento del Messia, anche se nell’integrarsi non avrebbero dovuto perdere la propria fede. Riassumeva così il suo pensiero: “Siamo cittadini americani di religione israelita” (in Hertzberg, 1993:65). Wise fu una figura fondamentale nella comunità ebraico-americana, tanto che alla sua morte, avvenuta nel 1900, si disse che la generazione di immigrati, arrivati verso la metà dell’Ottocento, con lui perdeva il suo maggior rappresentante. Secondo Shapiro (1992:151), la proposta di Wise mirava a sopprimere gli elementi di distinzione tra ebrei e americani. Una serie di cambiamenti, criticati dagli ebrei tradizionali, miravano a ridurre la distanza tra giudaismo e protestantesimo. Tra questi: l’abbreviazione della durata dei servizi, l’abolizione del matroneo e della mehitzah , la barriera di separazione tra gli uomini e le donne in sinagoga. Il rito era officiato in più parti in inglese e a volte si teneva un servizio domenicale. Non si faceva più menzione del Secondo Tempio di Gerusalemme distrutto nel 70 d.C. [10] , che, prima della diaspora, era il centro della vita religiosa e sociale, nè all’esilio come punizione divina, o all’anelito di tornare nell’antica Terra Promessa. Tutti gli ebrei riformati accettarono l’idea di Wise che l’America dovesse diventare la loro nuova patria. Questo orientamento si concretizzò ad opera di quelli che erano stati i rivali di Wise, Kohler in testa. Proprio Kaufmann Kohler, un rabbino riformato di New York dalle tendenze radicali, aveva organizzato nel 1885 una riunione di rabbini per redigere un documento, conosciuto col nome di Piattaforma di Pittsburgh (Glazer, 1957:41-2). Nel documento si sosteneva che il giudaismo dovesse continuare ad esistere e che possedesse una funzione primaria nel diffondere la moralità universale, la missione di Israele . I riformatori chiarivano la loro posizione affermando che non si consideravano più “una nazionalità, ma una comunità religiosa”, e quindi non si aspettavano “un ritorno in Palestina, nè un culto sacrificale alla maniera dei figli di Aronne, e nemmeno la restaurazione di nessuna delle leggi di uno stato ebraico” (in Petuchowski, 1972:26). Gli estensori del documento erano convinti che i mali e i contrasti della società dovessero essere risolti in base a giustizia e rettitudine. Era questo un appello agli ebrei ricchi perchè si occupassero dei poveri. La dottrina teologica giudaica del “popolo eletto di Dio” veniva reinterpretata come l’aspetto di una speciale vocazione a combattere per la giustizia sociale. Le più importanti festività ebraiche diventavano l’occasione per organizzare grandi riunioni mondane. I circoli sociali ebraici erano strutturati in modo tale da avere rilevanza nella vita degli ebrei tedeschi. Vi si tenevano balli e celebrazioni di matrimoni; era qui che si dettavano le regole del “buon gusto” e dell’eleganza per la comunità. Ma non mancavano organizzazioni di beneficenza per gli ebrei poveri; i donatori cercavano di occuparsi sia degli ebrei dell’Europa orientale che di quelli tedeschi.
1.2. L’immigrazione in massa degli ebrei est-europei
Intorno al 1858, si registrò un’altra ondata di ebrei, provenienti principalmente dalla Polonia e dalla Russia, per evitare l’obbligo di prestare servizio nell’esercito, obbligo esteso anche agli israeliti nel 1845, per decreto dello zar. Nel 1880 la popolazione totale ebraica negli Stati Uniti ammontava a 250.000 persone, la maggior parte delle quali d’origine tedesca (Wirth, 1968:121). Dal 1881 ci fu una nuova immigrazione in massa (arrivarono circa due milioni di persone fino al 1920) causata principalmente dai pogrom in Russia, dalle trasformazioni politiche che scuotevano i paesi orientali e dalla carestia polacca del 1869. Per quanto riguarda la Russia, vanno menzionate le Leggi di Maggio , degli anni ’80, che avevano proibito agli ebrei residenti entro i confini dell’impero russo di possedere terre al di fuori delle città (Maffi, 1992:115), e un’altra legge zarista che proibiva agli ebrei di spostarsi nelle aree di nuova economia per lasciare posto ai nativi cristiani. Cominciava, inoltre, a farsi sentire il “fattore di richiamo”, la crescente espansione economica americana che costituiva una via d’uscita dalla miseria endemica, dalla paralisi economica e dalla persecuzione religiosa e politica subita in Europa. Tutte queste ragioni avevano spinto verso l’America quasi due milioni di ebrei incuranti degli anatemi delle autorità rabbiniche europee che si sforzavano di scoraggiare l’emigrazione verso la “terra impura”.
Le caratteristiche degli ebrei immigrati dalle regioni orientali dell’Europa sono efficacemente riassunte da Lewis: “Gli ebrei dell’Europa Orientale sono assai poveri, ma mancano di molti tratti della cultura della povertà, infatti posseggono una tradizione, una loro cultura letteraria, danno un grande valore allo studio, all’organizzazione della comunità accentrata attorno alla figura dei rabbini, e alla proliferazione delle organizzazioni locali di tipo volontaristico, e questo in virtù della religione che li assicura di essere il popolo scelto” (1970:508). Si trattava quindi di comunità isolate, omogenee e relativamente autonome, in cui l’identità di gruppo non creava di solito problemi.
Gli ebrei dell’Est avevano portato con sè la cultura dello shtetl , una comunità ebraica autonoma tipica delle campagne dell’Europa orientale, avente una popolazione variante tra i 1.000 e i 20.000 abitanti, in massima parte ebrei. Lo shtetl non era un villaggio, ma una città, di solito piccola. Il modello dello shtetl cominciò a svilupparsi verso il sedicesimo secolo in Polonia e in Lituania, assumendo subito il carattere di “insediamento ebraico”; nei secoli successivi il modello di shtetl si propagò in Austria-Ungheria, Russia, Ucraina, Boemia e Prussia. Tra gli ebrei dello shtetl e gli abitanti delle campagne circostanti e delle città vicine esisteva una sorta di interazione economica. Gli ebrei svolgevano attività di commercianti e artigiani, utili ai cristiani, e questi ultimi rifornivano i mercati cittadini con il bestiame e i prodotti della terra di cui gli ebrei erano sprovvisti. La comunità chiusa dello shtetl aveva favorito la continuità del giudaismo ortodosso che nel corso dei secoli non aveva subito mutamenti di rilievo. La lingua di questi immigrati era lo yiddish, un dialetto germanico condito di elementi ebraici e slavi (principalmente polacchi) e scritto in caratteri ebraici. Lo yiddish era parlato in vari paesi dell’Europa centro-orientale e si differenziava nelle varianti polacca, lituana, russa. In Europa lo yiddish era stato riscattato dall’oscurità ed elevato a dignità letteraria mediante l’opera di scrittori come Mendele Mokher Sefarim, Shalom Aleichem, Sholem Asch [11] . Data la sua capacità di incorporare elementi di altre lingue, in America lo yiddish assorbì in breve tempo vocaboli e strutture tipici dell’inglese americano, dando origine alla variante conosciuta come yinglish .
I dettami del giudaismo ortodosso permeavano di sè la vita quotidiana di questi nuovi immigrati al punto che essi portavano in America i rabbini e altri “custodi” della cultura ebraica orientale, fondata sull’interpretazione dei testi sacri. Per questi ortodossi la Piattaforma di Pittsburgh era un’eresia e le innovazioni introdotte nel culto dai Riformisti erano delle pratiche “abominevoli”.
I nuovi immigrati tendevano a concentrarsi nei quartieri affollati delle grandi città del Centro-est, i nuovi ghetti, e non si disseminavano, come gli ashkenaziti, nelle zone di sviluppo ad Ovest. La grande esperienza di vita urbana maturata in Europa facilitò un più rapido ambientamento alla città americana.
In Europa la marginalità sociale coatta si è sempre riflessa nel ghetto, un’angusta entità territoriale che ha concorso alla formazione di caratteristiche peculiari favorendo l’endogamia [12] e il sentimento di solidarietà familiare. Il timore che le persecuzioni potessero rompere l’equilibrio di questa struttura ha ulteriormente accentuato questo sentimento di solidarietà. Una funzione positiva del ghetto consisteva nel mantenere in vita una comunità con cui gli ebrei si potessero identificare e nel favorire la continuità della cultura ebraica nel corso dei secoli. Il ghetto in Europa era stato una forma di dominio stabile basato generalmente su un pregiudizio razziale o sullo sfruttamento di qualche caratteristica che potesse tornare utile al dominatore. Il ghetto americano, invece, si caratterizzò come un fenomeno sociale temporaneo originato dal processo d’emigrazione, una modalità che una minoranza etnica adottava per conformarsi alle condizioni sociali del nuovo paese. Il ghetto, peraltro, negli Stati Uniti non fu caratteristica esclusiva della minoranza ebraica. Gli ortodossi sentivano la necessità di risiedere a breve distanza dalla sinagoga, dalla scuola, dal bagno rituale, dalla macelleria e latteria kosher [13] . Il “nuovo” ghetto offriva migliori possibilità di superare i problemi di ambientamento, come la lingua, gli usi e la diversamente del nuovo paese, e concedeva ai bisognosi i vantaggi della carità dei consimili. Il ghetto europeo ha identificato l’ebreo con la sua comunità ostacolandone la mobilità e perpetuando alcuni aspetti caratteristici delle antiche tradizioni. In America la comunità ebraica non coincideva esattamente con gli ebrei che abitavano nel ghetto, per il motivo che erano state rimosse le barriere fisiche che impedivano gli spostamenti e i contatti con i gentili .
Perlopiù gli ebrei dell’Est arrivati in America trovavano lavoro come operai e artigiani alle dipendenze dei correligionari sefarditi e tedeschi o nel commercio e nelle piccole imprese. I figli erano incoraggiati a sfruttare l’educazione avuta per poter avere accesso a posizioni più elevate nella gerarchia sociale. Infatti le statistiche relative all’occupazione della seconda generazione mostrano una distribuzione di occupazione con sorprendenti somiglianze con i protestanti (Gordon, 1964:185-7). La capacità di trarre vantaggio dall’espansione economica di certi settori permise agli ebrei dell’Europa orientale ambiziosi di avere successo e dominare il proprio campo di attività, anche grazie alla particolare coesione dovuta alla lingua e alla cultura comuni. Essendo liberi di accedere all’istruzione pubblica, gli immigrati partecipavano numerosi ai corsi delle scuole serali per imparare l’inglese e le nozioni necessarie per accedere alle attività professionali. Si cominciò a stampare giornali in yiddish che furono un potente fattore di diffusione, tra la classe operaia ebraica, della cultura popolare yiddish e di ideologie, quali il socialismo e il sionismo.
L’attaccamento alle tradizioni religiose manifestato dagli immigrati dai paesi slavi non era sempre condiviso: alcuni si erano portati verso un ebraismo più moderno, altri si erano assimilati allo stile di vita yankee e avevano abbandonato la stretta osservanza dei riti dei padri. Per gli orientali in Europa, essere ebreo significava aderire all’insieme delle pratiche religiose giudaiche. Chi di loro avesse abbandonato l’osservanza del giudaismo era definito traditore e allontanato dalla comunità. Invece in America, dagli anni ’10-’20, il rigetto delle tradizioni in genere non ebbe mai conseguenze così drastiche.
I membri più ricchi e di successo della comunità ebraica, generalmente discendenti degli ashkenaziti meglio integrati nella società americana, erano allarmati dall’arrivo di masse di ebrei dell’Est poveri e temevano un abbassamento del livello sociale del gruppo ebraico in generale. La loro preoccupazione era dovuta principalmente al fatto che gli ashkenaziti e gli ebrei est-europei venivano considerati facenti parte dello stesso gruppo etnico, nonostante che prima del 1880 fossero ritenuti due gruppi etnici diversi. A causa dello stile di vita e dell’adesione alla Riforma, gli ebrei tedeschi erano visti dagli ebrei dell’Est come traditori dell’eredità ancestrale e venivano detti allrightnik [14] per il loro opportunismo economico e per essersi mostrati propensi a gettar via molti elementi del bagaglio culturale del gruppo etnico pur di assimilarsi (Hannerz, 1974:66). L’ allrightnik rappresentava il tipo di uomo d’affari per cui il successo costituiva tutto, un successo da raggiungere conformandosi ai valori della cultura americana, era un individuo mancante di rispetto dei suoi valori d’origine, che rendeva appariscente la sua ricchezza, il che era contrario all’etica degli abitanti del ghetto. Gli ebrei che si erano già stabiliti in America non desideravano identificarsi con i nuovi arrivati. L’arrivo di questi ebrei dell’Est ebbe, comunque, alla lunga l’effetto di risvegliare la coscienza degli altri ebrei sulla comune appartenenza al giudaismo. Si fondarono organizzazioni di mutuo soccorso [15] , sindacati, scuole di ambientamento con corsi di inglese, anche se non si può dire che ci fossero seri tentativi di amalgama. I due gruppi contrapposti erano divisi dalle barriere fisiche degli insediamenti separati, dalle diverse forme di organizzazione comunitaria, da differenze di mentalità, cultura, religione e anche dai reciproci pregiudizi che acuivano la distanza esistente tra di loro. L’aspetto in comune che superava le divisioni e le competizioni tra gli ebrei ashkenaziti e gli ebrei est-europei era la filantropia, una rete di ricerca e stanziamento di fondi per attività assistenziali in America e negli altri paesi della diaspora [16] . La grande maggioranza degli ebrei apparteneva a organizzazioni che favorivano il mantenimento di relazioni primarie all’interno della comunità. Grazie all’aiuto delle organizzazioni filantropiche dei tedeschi, anche parecchi ebrei dell’Est, a dispetto di timori e rifiuto, riuscivano a raggiungere livelli sociali elevati, e ciò contribuiva ad attenuare le differenze di status con gli ebrei tedeschi.
Gli ebrei est-europei erano particolarmente caratterizzati dall’amore per lo studio e la cultura, originato dal grande valore attribuito allo studio dei testi religiosi. Il rabbino (da rab , che originariamente significava “maestro”) aveva essenzialmente due compiti: approfondire la conoscenza dei testi sacri e insegnarli ai devoti. Tra gli ebrei est-europei erano pochi gli analfabeti; quasi tutti, anche i più poveri, sapevano leggere la Torah [17] , il Talmud [18] e recitare i Salmi. Anche i più ignoranti avevano qualche conoscenza delle leggi giudaiche. Una volta in America, questo attaccamento allo studio venne rapidamente trasformato nel desiderio di un’educazione laica per i bambini. Nella famiglia ebraica non mancavano i contrasti tra i genitori immigrati e i loro figli americanizzati; le due generazioni erano più estranee l’una all’altra di quanto non lo fossero in Europa. I figli sembravano animati da un forte desiderio di libertà e la religiosità dei padri era oggetto di scherno. La ribellione dei giovani comportava l’affievolimento dell’autorità del padre all’interno della famiglia immigrata. Il nuovo stile di vita poteva essere causa di tensioni in famiglia; i figli cercavano di insegnare ai genitori ortodossi le regole di comportamento per inserirsi nella società americana, il cosiddetto american way of life , i genitori invece insistevano nella fedeltà alle tradizioni. Si incrinava così l’unità familiare.
1.3. Dalle leggi statunitensi sull’immigrazione ad oggi
Alla fine del secolo XIX le comunità ebraiche sperimentarono conflitti ben più gravi di quelli tra generazioni. Si tratta dei ripetuti tentativi di emanare una legge che introducesse un test di alfabetizzazione per selezionare chi sapesse leggere e scrivere l’alfabeto latino: in tal modo la metà di coloro che sbarcavano in America sarebbe stata rispedita indietro. La maggioranza del Congresso era favorevole al controllo dell’immigrazione, ma per vent’anni, dal 1897 al 1917, non se ne fece nulla per l’opposizione della presidenza degli Stati Uniti. La Casa Bianca era sensibile ai bisogni del mondo degli affari e dell’industria che si opponeva a questa legge. C’era bisogno di più manodopera, in tempi di crisi gli immigrati servivano ad abbassare i salari e frenare gli scioperi. Molti membri del Congresso, invece, provenivano da distretti in cui vi erano pochi immigrati o da città che si sentivano minacciate dall’espansione dei ghetti degli immigrati. La battaglia sui test di alfabetizzazione terminò nel 1917: il Congresso, non tenendo conto del veto del presidente Wilson, approvò una legge che esentava dal test solo gli stranieri che fossero riusciti a dimostrare di essere perseguitati in patria a causa della fede religiosa e che, per questo motivo, volevano stabilirsi negli Stati Uniti. Tra tutti gli ebrei dell’Est, furono i russi i più penalizzati in quanto non conoscevano l’alfabeto latino; la nuova legge, del resto, serviva a tranquillizzare quanti volevano impedire l’arrivo degli est-europei per motivi politici. Gli ebrei russi venivano identificati con i bolscevichi, quindi come presunti comunisti, considerati una minaccia per l’America.
Nel 1924 venne approvato il National Origins Quota Act , che prevedeva un numero massimo di immigrati per ogni paese, calcolato sulla base di vari elementi, come la capacità di assorbimento del sistema economico americano, il tasso di crescita della popolazione e le condizioni economiche interne dei paesi di provenienza. Con l’adozione di restrizioni ancora più severe nel 1929, con il Johnson/Reed Act , si pose definitivamente fine all’arrivo degli ebrei dell’Europa orientale. La nuova disciplina imposta all’immigrazione costrinse molti ebrei a cercare di essere ammessi negli Stati Uniti rientrando nella quota assegnata a paesi diversi dal proprio, falsando così le statistiche dell’epoca sull’origine degli immigrati. Queste statistiche, nel caso degli ebrei, non sarebbero mai potute essere precise, dal momento che il governo statunitense ha sempre tralasciato la fede religiosa nel censimento della popolazione.
Dagli anni ’20 e ’30 i figli degli immigrati ebrei cominciarono a far breccia in altri settori della società, in specie nell’istruzione superiore. Anche se non potevano ancora accedere agli istituti migliori, avevano preso a frequentare istituti prima preclusi agli ebrei. Quando gli Stati Uniti iniziarono a riprendersi dalla Grande Depressione, la situazione economica degli ebrei risultò migliore di quella di altri gruppi. Gli immigrati e i loro figli ebbero libero accesso alle nuove occupazioni create dal New Deal rooseveltiano. I servizi sociali conobbero in quel periodo un boom, la nuova burocrazia governativa richiedeva migliaia di funzionari, e gli ebrei sembravano essere più adatti dei membri di altri gruppi etnici. Moltissimi ebrei furono favoriti dal sistema “meritocratico” tipico del New Deal , che premiava coloro che mostravano maggiori capacità pratiche nel lavoro. Franklin Delano Roosevelt, considerato dagli ebrei il più importante datore di lavoro d’America che non li avesse discriminati, era divenuto per molti di loro un eroe.
Durante la campagna elettorale del 1936, i democratici e i repubblicani non avevano presentato un programma che prevedesse un’attenuazione delle restrizioni. In compenso, i democratici chiesero alla Gran Bretagna, la potenza mandataria sulla Palestina, di non limitare l’immigrazione ebraica in quella zona. Roosevelt si limitò ad alcune dichiarazioni di sostegno. Così non pareva disonorevole per gli ebrei americani tralasciare la lotta contro le restrizioni all’immigrazione in favore della battaglia per l’insediamento ebraico in Palestina [19] . L’affermazione secondo cui gli ebrei americani fecero poco per i loro correligionari in Europa appare infondata. Bisogna piuttosto considerare che il Congresso era insensibile alle pressioni della lobby ebraica, che poteva appellarsi solo alla benevolenza di Roosevelt. Gli ebrei americani, tra il 1933 e il 1939, raccolsero enormi quantità di denaro per aiutare gli altri ebrei, in pericolo, a lasciare la Germania nazista. Nonostante l’ampio sostegno ebraico a Roosevelt nelle elezioni del 1936, egli fece poco per aiutare gli ebrei in Germania temendo, forse, l’antisemitismo che si stava diffondendo anche in America.
Il Congresso non cercò di apportare modifiche alla restrittiva politica immigratoria, neanche quando i tedeschi invasero l’Austria e cominciarono a deportare parecchi ebrei. Risale al 1939 l’affare della nave ” St. Louis “; questa nave, carica di novecento persone, in gran parte ebrei, salpò dall’Europa per Cuba, con l’intenzione di proseguire per gli Stati Uniti. Arrivata all’Avana, le autorità statunitensi contattate rifiutarono di concedere il permesso di sbarco sul proprio territorio; allora la nave tentò di forzare il blocco, ma invano. I passeggeri erano chiaramente indesiderati e dovettero fare ritorno in Europa, dove li attendeva un destino di morte per mano dei nazisti.
Un primo cambiamento concreto nell’atteggiamento di Roosevelt verso gli ebrei si ebbe quando il presidente nominò nel 1939 Felix Frankfurter, un ebreo, alla Corte Suprema. Con questo atto il presidente mostrava di non essere più disposto a tollerare la campagna denigratoria degli antisemiti, allo stesso tempo egli rassicurò il Congresso che non aveva intenzione di proporre l’abrogazione delle leggi restrittive sull’immigrazione.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale si calcolò che dal 1933 al 1937 fossero entrati in America 40.000 ebrei, e dal 1938 al 1941 ne fossero entrati 110.000. Infatti, Roosevelt aveva acconsentito al prolungamento dei visti turistici degli ebrei tedeschi rifugiati, permettendo anche l’arrivo di molti ebrei di altri paesi. Venne allentata la farraginosa burocrazia, e nel 1939 si utilizzarono per la prima volta per intero le quote d’immigrazione della Germania e dell’Austria (Hertzberg, 1993:259-268). Nel 1948 gli Stati Uniti appoggiarono incondizionatamente la creazione dello stato d’Israele per soddisfare gli ebrei americani, sionisti e non sionisti.
Proprio in quegli anni, per la prima volta, il tasso di nascita degli ebrei in America superò il tasso delle immigrazioni ebraiche. Gli ebrei, intanto, avevano ormai abbandonato i vecchi quartieri-ghetto, lasciati a neri, portoricani e ad altri gruppi etnici, con l’eccezione della comunità di New York. Parallelamente mostravano la tendenza a vivere in aree delimitate, i quartieri suburbani delle grandi metropoli americane, cercando migliori opportunità negli affari e nelle professioni dalle quali erano più attratti (medicina, legge, insegnamento universitario), ma anche ad essere relativamente assenti da altre zone a causa di una sottile discriminazione che li teneva lontani.
Dal 1967 in poi, dopo la Guerra dei Sei Giorni, gli ebrei americani hanno intensificato gli sforzi per sostenere Israele. Non era solo lo stato ebraico ad attirare la loro attenzione: molte risorse finanziarie e appoggi politici venivano sfruttati per aiutare gli ebrei sovietici a lasciare l’U.R.S.S. e i paesi del blocco comunista. A tal fine venne fondata l’ American Conference on Soviet Jewry . Il principale risultato delle pressioni sul Congresso, esercitate dalla Conferenza, fu l’approvazione del Jackson-Vanik Agreement del 1973, in base al quale l’U.R.S.S. diventava nazione privilegiata per incentivare l’immigrazione da quel paese. Tra il 1966 e il 1977, circa 130.000 ebrei riuscirono in tal modo a lasciare l’Unione Sovietica; 15.000 di essi si stabilirono negli Stati Uniti (Goren, 1980:597). Queste politiche hanno risentito dell’andamento dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. In tempo di guerra fredda gli ebrei potevano solo approfittare del Jackson-Vanik Agreement per lasciare l’U.R.S.S., e solo con la glasnost’, inaugurata da Mikhail Gorba c¹ëv nel 1985, ottenere il visto di espatrio divenne più semplice. Nel 1988 si raggiunse il record con i 19.000 ebrei che lasciarono l’U.R.S.S.. Solo il 7% di questi scelse di insediarsi in Israele, il resto preferì gli Stati Uniti (Daniels, 1991:385). Ma il passaggio dalla società sovietica a quella statunitense non poteva essere privo di traumi e di difficoltà di adattamento. Molti ebrei sovietici credevano che l’America fosse il “paese delle fiabe”, avevano imparato a credere all’esatto contrario di ciò che affermava la stampa sovietica sul conto degli Stati Uniti. Una volta in America, essi dovettero ricredersi. Ecco una testimonianza di un immigrato sovietico: “Il paradosso che in Russia ero un ebreo e ora (in America) sono un russo” (Daniels, 1991:386). Alcuni, in gran parte anziani, scelsero di tornare in Russia. Ma, nonostante le disillusioni, il flusso migratorio degli ebrei verso gli Stati Uniti non si è arrestato.
[1] C.B. Sherman (1961), The Jew within American Society. A Study in Ethnic Individuality, Detroit, Wayne St., p. 121.
[2] Da Sefarad , Spagna. Più precisamente comprendevano anche gli ebrei portoghesi.
[3] Thernstrom ha tratto la citazione da Handlin (1967), The History of the United States, vol.1, New York, p. 62.
[4] Gli ashkenaziti comprendevano tutti gli ebrei tedeschi e dei paesi dell’impero austro-ungarico sottoposti all’influenza della lingua e della cultura tedesche.
[5] In questa tesi, per matrimonio misto si intende l’unione di due persone di etnia diversa, non di razza diversa.
[6] Il minyan è il quorum di 10 maschi adulti (cioè che hanno superato il bar mitzvah ), necessario per tenere un servizio religioso.
[7] Il termine (dal latino gens-gentes ) nella tradizione ebraico-cristiana fu detto prima di persona che non apparteneva alla religione israelita, poi a persona che non apparteneva alla religione cristiana, con un valore equivalente a quello di “pagano”. Nella tesi viene utilizzato come termine con cui gli ebrei definiscono i non ebrei.
[8] Il rabbino boemo Isaac Mayer Wise (1819-1900), emigrò negli Stati Uniti nel 1846 per sfuggire all’autorità dei parnassim , i capi laici autocrati delle comunità ebraiche d’Europa. Fu il primo presidente del Hebrew Union College e ricoprì dal 1889 fino alla sua morte, la carica di presidente della Central Conference of American Rabbis .
[9] Questo libro, scritto nel 1856, conteneva nuove preghiere e un nuovo sistema di pratiche religiose che sarebbero divenute caratteristiche del Nuovo Mondo. Nella sua pubblicazione, Wise scriveva che “le dottrine che non sono coerenti con la ragione non sono più sostenibili”.
[10] Il luogo di culto dei riformati era chiamato tempio, non sinagoga, per sottolineare il fatto che non si pensava più al giorno in cui l’unico tempio sarebbe stato ricostruito a Gerusalemme.
[11] Mendele Mokher Sefarim (pseudonimo di Shalom Jacob Abramowitsch, 1835-1917) nacque in Bielorussia. Nella sua prosa, in yiddish e in ebraico, descrisse vividamente la società degli ebrei russi. Influenzò il processo di riammodernamento della lingua ebraica e fu un fervente sionista. Sholem Asch (1880-1957) nacque in Polonia e visse in vari paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Francia e Israele, e morì a Londra. Le sue opere rispecchiano un forte legame con il passato e le tradizioni ebraiche e riuscì a dare dignità letteraria allo yiddish con le sue poesie sulla vita degli shtetl . Shalom Aleichem (pseudonimo di Shalom Rabinovitz, 1859-1916) nacque in Ucraina ed emigrò negli Stati Uniti nel 1905, ma non riuscì mai ad adattarsi alla nuova realtà la sua carriera letteraria con saggi umoristici e con opere teatrali in cui rappresentava le lotte degli ebrei poveri contro gli ebrei ricchi, diventando molto popolare presso il pubblico americano di lingua yiddish. La sua opera più famosa, Tevye der Milkhiger (Tevye il lattaio), costituita da una serie di monologhi in cui Tevye, versione comica del patriarca Abramo, immagina ciò che potrebbe fare se si fosse avverato il sogno americano di diventare ricco.
[12] Cioè il matrimonio con membri dello stesso gruppo etnico; in questo caso, con altri ebrei.
[13] Kosher si riferisce prevalentemente a un alimento che è permesso consumare e che viene preparato secondo alcune norme religiose. Ad esempio, la carne va macellata seguendo precisi rituali codificati, altrimenti è treyfe , impura.
[14] L’ allrightnik era paragonato al meshumad , l’apostata, figura caratteristica del ghetto europeo, cioè colui che aveva abiurato il giudaismo, e per questo era disprezzato dagli ebrei pii.
[15] Erano organizzazioni che si occupavano dell’accoglienza e dell’assistenza dei profughi. Comprendevano varie attività come l’insegnamento dei primi rudimenti di inglese, aiutavano a cercare un lavoro, procuravano un’abitazione temporanea, spiegavano agli immigrati quali fossero i comportamenti più consoni alla nuova situazione.
[16] “Dispersione” in greco; il termine viene usato specificamente per gli ebrei per indicare il loro esilio dalla Palestina, la loro dispersione nel mondo, appunto, che si fa iniziare idealmente dal 70 d.C. con la distruzione del Tempio di Gerusalemme e terminare con il 1948, anno della nascita dello stato di Israele; ma, in realtà, secoli prima della caduta di Gerusalemme la maggioranza degli ebrei viveva in altri paesi a causa delle non favorevoli condizioni geografiche della Palestina (aridità del clima, scarsità di acqua) e attualmente in Israele vi sono quasi 4.260.000 abitanti di religione ebraica (secondo il censimento del 1993), che non costituiscono la maggioranza degli ebrei nel mondo.
[17] La la legge data da Dio a Mosè sul Sinai, e i libri che la contengono, cioè il Pentateuco -corrispondenti ai primi cinque libri del Vecchio Testamento dei cristiani. L’ebraismo riconosce anche una Legge orale, o Tradizione, ugualmente derivante dal Sinai.
[18] Il Talmud è il complesso delle discussioni giuridiche sulla Bibbia e sulla Legge tradizionale, come si svolgevano nelle accademie rabbiniche palestinesi e babilonesi tra il secondo e il quinto secolo d.C., e indica pure l’opera che le contiene, divenuta il cardine del giudaismo. Alcune parti sono scritte in ebraico, altre in aramaico.
[19] E’ errato ritenere che la Palestina sia la patria degli ebrei, in quanto è solo una denominazione geografica. Così, in questa tesi, ogni volta che si parlerà della Palestina, s’intenderà la regione geografica corrispondente pressappoco alla parte centrale e settentrionale dell’attuale Israele e ai Territori Occupati. E’ doveroso tenerne conto per evitare ogni riferimento politico.