Guanda pubblica Il lamento del prepuzio del giovane scrittore americano Shalom Auslander. Un’irriverente riflessione sulla famiglia e sull’identità culturale che non lascia spazio alla politically correctness
Pier Francesco Borgia
E’ stato accostato all’irriverente umorismo di Groucho Marx e al lucido umorismo di Philip Roth, ma Shalom Auslander, del quale l’editore Guanda ha appena mandato nelle librerie la traduzione italiana di Il lamento del prepuzio, ha molti tratti in comune con il comico ebraico per eccellenza: quel Woody Allen che nella sua prima stagione dietro la macchina da presa ha preso in giro non soltanto la più miope ortodossia ebraica ma anche la claustrofobica idea di famiglia che nella comunità newyorkese degli anni Quaranta era così granitica da risultare immortale.
E la famiglia di Auslander pare essere un “incubo” altrettanto insopportabile, almeno sfogliando le pagine di questo irriverente romanzo di formazione, ma sarebbe più giusto dire di “ri-formazione”, visto che la voce narrante sembra far di tutto per procurarsi una nuova vita nella quale non rimanga più alcuna traccia del suo soffocante passato di figlio di due genitori piccolo borghesi autoritari. Con il suo romanzo Auslander intende emanciparsi dal padre falegname che alza il gomito e da una oppressiva madre casalinga con tanti gingilli erotici nascosti sotto al letto. Genitori che non gli hanno lasciato alcuno spazio di libertà, avvertendolo che «guidare l’auto di sabato è finire il lavoro che Hitler ha cominciato», per non parlare del farlo sentire colpevole di genocidio due o tre volte al giorno, perché masturbarsi significa far morire ogni volta 50 milioni di spermatozoi, «che fanno circa nove olocausti».
L’idea iniziale del libro ricalca quello di un altro celebre scrittore di origini ebraiche (questa volta di casa nostra: Italo Svevo). L’analista del giovane Auslander gli consiglia di mettere tutto il suo rancore, le sue paure, le sue fobie e i suoi incubi sulla carta. In fondo si tratta di una pratica già collaudata ampiamente.
L’umorismo di Auslander non fa sconti, temprato com’è da anni di successo alla radio e sulle pagine del New Yorker e di Harper. Già l’incipit del romanzo è un sicuro viatico al divertimento del lettore. “Quando ero bambino, genitori e insegnanti mi parlavano di un uomo molto potente. Mi dicevano che poteva distruggere il mondo intero. Mi dicevano che poteva sollevare le montagne. Mi dicevano che poteva dividere il mare. Era importante mantenerlo di buon umore. Quando obbedivamo a quanto ci aveva comandato, gli piacevamo. Gli piacevamo talmente tanto che uccideva quelli a cui non piacevamo. Ci odiava. Certi giorni ci odiava talmente tanto che ci uccideva. A volte invece lasciava che altri ci uccidessero. Questi giorni li chiamiamo “giorni di festa”. Per Purim, ci ricordiamo di quando cercarono di ucciderci i persiani. Per Pesach ci ricordiamo di quando cercarono di ucciderci i greci. “Che Egli sia benedetto” pregavamo. Per crudeli che fossero queste punizioni, erano niente in confronto alle punizioni che ci elargiva Lui in persona. Allora arrivavano carestie. Arrivavano alluvioni. Arrivava furibonda la vendetta. Hitler avrà pure sterminato gli ebrei, ma questo signore ha inondato il mondo”. Un umorismo davvero poco politically correct soprattutto in un momento storico difficile quale quello che la comunità internazionale sta vivendo di fronte alle immagini che i media ci restituiscono della guerra che impegna le milizie di Hamas e i tank israeliani tra le strade di Gaza.
Il libro, pubblicato due anni fa negli Stati Uniti, ha però ricevuto il prestigioso Jewish Book Prize che ogni anno viene assegnato a un giovane scrittore impegnato su tematiche ebraiche. Sgombrando il campo così da corrive speculazioni. Il lamento del prepuzio (tradotto per Guanda da Elettra Caporello), provocatorio sin dal titolo, risulta essere nient’altro che la storia di un’educazione e dei danni causati da una famiglia ortodossa che prende alla lettera i precetti religiosi, così che il protagonista cresce sempre più distrutto dai sensi di colpa e racconta la tragedia di vivere tutto ciò con una grande vena comica, ormai certo che non si libererà «mai di questo Dio vendicativo che si è avvinghiato ai miei anni formativi». L’autore però fa outing nella pagina finale, mostrando un’insospettabile reverenza nei confronti di un’idea religiosa che la sua indole laica non è riuscita a distruggere completamente.
E le parole conclusive del libro spiazzano il lettore con l’ennesima battuta umoristica: “Dio ti prego, non uccidere mia moglie a causa di questo libro. Non uccidere mio figlio, e non uccidere i miei cani. Se devi per forza uccidere qualcuno, uccidi Geoff Kloske, di Riverhead Books. Uccidi Ira Glass di This American Life, e già che ci sei, uccidi pure Julie Snyder e Sarah Koenig. Uccidi David Remnick del New Yorker e uccidi Carin Besser, che è qui in fondo al corridoio. Uccidi Sara Ivry di Nextbook.org, e potresti anche uccidere Jessa Crispin di Bookslut.com. Se proprio devi, uccidi Ike Herschkopf, ma non uccidere me. E non uccidere Orli. E non uccidere nostro figlio. Dopo tutto è solo un libro, cazzo. Scusa”
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